di Marco Dugini

Con un discorso della serie “compagne e compagni”, Wu Bangguo, dinnanzi al Comitato permanente della conferenza consultiva politica del popolo cinese, da lui presieduto, ha sancito ufficialmente l’avvio di una terza rivoluzione che cambierà per l’ennesima volta il volto della Cina. Perché nel paese asiatico ogni serio cambiamento ha una dimensione così enorme in termini di ricaduta materiale, che la parola riforma sembra così minuta e timida al suo cospetto. E così dopo la “rivoluzione culturale” di Mao, fallita nel suo volgere in estremismo nichilista, e dopo la restaurazione burocratico-moderata di Deng Xiaoping, che con il suo celebre discorso alla fine degli anni settanta “arricchirsi è glorioso” inaugurò il modello di capitalismo-rosso calato dall’alto con piccole riforme economiche, ecco che il nuovo Presidente Hu Jintao si è impegnato nel far approvare dal Politburo la decisione del Comitato centrale del Pcc, che impegna la Cina verso il progetto di edificazione di una “società armoniosa socialista” entro il 2020.

di Giovanni Gnazzi

Potranno essere torturati. Non avranno diritto all’assistenza legale. Le prove a loro carico rimarranno segrete, né dopo una eventuale sentenza dei Tribunali, potranno ricorrere in appello. La firma del Presidente Gorge W. Bush sulla legge che autorizza la tortura come metodo d’interrogatorio, denominata “Legge sulle Commissioni Militari”, cancella, oltre ogni ragionevole convincimento, la storia giuridica degli Stati Uniti dall’inizio del ‘900 ad oggi. Con la trasformazione in legge della pratica della tortura, infatti, gli Stati Uniti escono dalla loro stessa storia e si avviano, con piglio e foga degni di nota, nell’alveo dei paesi che piegano i principi giurisprudenziali e le regole della convivenza civile a elementi subordinati alle scelte politiche dell’Amministrazione che li governa. Non ci si trova più di fronte ad un governo che rispetta le leggi ed il dettato Costituzionale sul quale ha giurato, ma ad una Costituzione che viene manipolata e stravolta in funzione delle esigenze politiche di chi governa. La nuova legge rende carta straccia tutte le convenzioni internazionali e buona parte dello stesso diritto statunitense.

di Carlo Benedetti

L’allarme sembra rientrato. Resta la paura e restano molte incognite. Perché quanto avvenuto in Bulgaria nella centrale nucleare di Kozlodui, sulle rive del “bel Danubio blu”, è ancora un mistero. Tutto avviene all’inizio del mese, ma solo ora l’opinione pubblica locale e il mondo intero vengono a conoscenza dei primi fatti; vale a dire che la centrale atomica (quattro dei sei reattori realizzati dall’Urss una ventina d’anni fa) ha registrato una fuoriuscita di sostanze radioattive da una tubazione ad alta pressione. La cronaca di quelle tragiche ore è oggi ricostruita e ricorda paurosamente uno scenario già visto con Cernobyl, quando le autorità sovietiche – era il 26 aprile 1986 – cercarono con tutti i mezzi di nascondere al mondo la portata del disastro. Ed ecco i fatti che, nonostante la “blindatura” bulgara, vengono alla luce.

di mazzetta


In teoria è strano che un paese come la Francia cada in un errore come quello che ha recentemente commesso il suo parlamento emanando una legge che condanna penalmente chi neghi il genocidio degli armeni.
L’iter della legge è quanto di più classico, una sapiente opera della lobby armena in Francia, su un corpo politico già mal disposto verso l’ingresso della Turchia in Europa, che ha spinto i partiti ad emanare questa sciocchezza.
Purtroppo per la Francia la decisione, oltre a far adombrare i turchi, rappresenta un grave errore politico. Si tratta di un errore prima di tutto perché la storia non si fa certo per decreto, ma al limite instaurando una supremazia culturale attraverso le ricerche, la dialettica o la propaganda. La storia è sempre stata definita dai vincitori superstiti e in questo caso è evidente che il governo turco non è per nulla sconfitto, gli armeni non sono vincitori e i francesi non sono certo intitolati a fare “operazioni verità” sulla storia degli altri.

di Carlo Benedetti

Anna Politkovskaja - la giornalista uccisa nei giorni scorsi a Mosca - è ora il simbolo della rivolta anti-Putin. I suoi scritti, le sue denunce passano di mano in mano segnando il mutamento della società. Il quotidiano dove scriveva - la Novaja gazeta - va a ruba. Si formano associazioni spontanee che chiedono chiarezza su quanto avvenuto. I militari del Cremlino cercano di bloccare ogni ulteriore fuga di notizie. Gli organi della sicurezza sono in stato d'allarme e le ambasciate della Russia hanno ricevuto l'ordine di tranquillizzare cancellerie, deputati, giornalisti. Putin sente tremare il suo trono. Tutto questo, detto in poche parole, rivela che torna di moda la "disinformazija". E proprio per combatterla si può tentare una rapida inchiesta sulla situazione cecena attuale. Perché sembra proprio di essere alla vigilia di qualche mutazione epocale a partire dal problema "numero uno": il Presidente.


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