di Michele Giorgio

Sulle pagine degli esteri dei giornali di tutto il mondo ieri c’era il rilancio della colonizzazione israeliana come risposta del governo Netanyahu all’accettazione della Palestina tra i membri Unesco. Non sorprende. E’ un tema di eccezionale importanza. Ha però nascosto il clima di guerra imminente che ormai si respira nella regione. Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak hanno deciso di attaccare militarmente l’Iran.

Lo scrivono da giorni i quotidiani locali che ieri hanno anche riferito una notizia che riguarda molto da vicino l’Italia. L’aviazione israeliana sta completando l’addestramento per un attacco da portare ad un obiettivo a grande distanza (le centrali iraniane?) usando anche la base Nato di Decimomannu (Sardegna). L’ultima fase dell’esercitazione in Italia, scriveva ieri Haaretz, si è svolta la scorsa settimana, con il convolgimento di sei squadroni di cacciabombardieri e ha riguardato il combattimento, il rifornimento in volo e il monitoraggio delle stazioni radar.

Notizie che non fanno altro che accreditare le indiscrezioni sulla preparazione dell’attacco alle centrali iraniane chiesto con forza da Netanyahu con l’appoggio di Barak. I due partner di guerra stanno facendo tutto il possibile per raggiungere la maggioranza in seno al gabinetto di sicurezza (sette ministri), necessaria per dare il via libera al raid aereo. Nei siti nucleari iraniani, secondo Israele e Stati Uniti, Tehran intenderebbe produrre non solo energia atomica ma anche quanto serve per assemblare ordigni atomici.

L’Iran ha sempre respinto questa accusa e ha esortato la comunità internazionale a svolgere indagini in Israele, l’unico paese della regione che possiede segretamente, secondo esperti internazionali, almeno 200 bombe atomiche. Tra i ministri che appoggiano Netanyahu c’è anche quello degli esteri e leader ultranazionalista Avigdor Lieberman che ieri ha denunciato l’Iran come «il principale pericolo per la stabilità dell’ordine mondiale». «Il mondo - ha aggiunto Lieberman - deve prendere decisioni e far rispettare le sanzioni contro la banca centrale iraniana. La comunità internazionale deve interrompere gli acquisti di petrolio dall’Iran».

Non siamo ancora all’ultimatum ma poco ci manca. Il rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), che verrà reso noto l’8 novembre, sarà decisivo per le scelte di Israele. Almeno questo è quanto lasciano capire gli stessi leader politici israeliani. Quanto gli Stati Uniti in questa fase siano sulla stessa lunghezza d’onda di Netanyahu e Barak è difficile decifrarlo. Barack Obama però non ha mai escluso l’opzione dell’uso della forza contro Tehran e il segretario alla difesa Leon Panetta sull’argomento è molto meno prudente del suo predecessore Robert Gates. Washington però non vuole attacchi a sorpresa e Panetta, durante il suo recente viaggio in Medio Oriente, ha ottenuto dal governo Netanyahu ampie assicurazioni. Vuol dire che i due paesi attaccheranno insieme, magari con la collaborazione di qualche alleato arabo? L’ipotesi non è infondata.

Che la guerra si sia fatta più vicina lo dice anche la resistenza più debole che oppongono all’attacco i comandanti delle Forze Armate e dei servizi segreti, ossia coloro che, secondo quanto aveva riferito venerdì scorso su Yediot Ahronot uno dei giornalisti israeliani più noti, Nahum Barnea, più di altri si sono schierati con forza contro le intenzioni di Netanyahu. Ora cominciano a cedere sotto le pressioni del premier dopo aver sottolineato per mesi le conseguenze devastanti che avrebbe il raid contro le centrali iraniane, peraltro inutile perché servirebbe a rinviare di poco i programmi di Tehran.

In Iran, naturalmente, seguono con attenzione ciò che si discute in Israele e nella Repubblica islamica non manca chi lancia avvertimenti pesanti come macigni. Il capo di stato maggiore, generale Hassan Firouzabadi, ieri ha minacciato di «far rimpiangere un simile errore» a Israele e messo in guardia anche Washington. «Se il regime sionista (Israele) ci attaccherà, saranno colpiti anche gli Stati Uniti», ha detto. L’Iran appare in grado di rispondere ad un blitz delle forze aeree israeliane con il lancio di decine, forse di centinaia di missili balistici verso il territorio dello Stato ebraico. Tehran inoltre potrebbe sferrare un’offensiva contro gli alleati arabi degli Stati Uniti mettendo a ferro e fuoco l’intero Medio Oriente. Ha anche la possibilità di bloccare lo Stretto di Hormuz paralizzando il trasporto marittimo del greggio con effetti devastanti per le economie occidentali.

Fonte: Nena news

di Marina Forti

L’amministrazione Usa ha moltiplicato gli sforzi per isolare Teheran, che nelle ultime settimane è dipinta come il nuovo «nemico principale», più pericoloso perfino della eterna al Qaeda. Un inviato del governo degli Stati uniti, il sottosegretario al tesoro David Cohen, ha girato le capitali europee per sostenere un’azione concertata per nuove sanzioni all’Iran. Da alcuni anni gli Usa trascinano i paesi alleati, Europa in testa, in sanzioni unilaterali che vanno molto oltre quelle decretate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Ora si avvicina un nuovo round. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) sta per pubblicare il suo nuovo rapporto sull’Iran, e secondo alcune indiscrezione dirà che il programma di arricchimento dell’uranio ha fatto progressi e l’intero programma atomico iraniano ha finalità militari. Ormai però molti paesi rifiutano nuove sanzioni all’Iran: i sospetti non sono mai stati provati, l’Aiea continua ad avere accesso agli impianti atomici iraniani. L’Iran è inadempiente verso il Consiglio di sicurezza, che gli aveva intimato di sospendere l’arricchimento dell’uranio, ma non verso il Trattato di non proliferazione, cui aderisce.

Ecco però che da Washington arrivano altri argomenti a sostegno della sua campagna. L’Iran va contenuto perché non si infili nel vuoto che gli Usa lasciano in Iraq, da cui le ultime truppe americane si ritireranno entro fine anno (non rimarranno neppure i 3-5.000 soldati di «presidio» previsti in origine, poiché Baghdad non ha accettato la clausola dell’impunità che Washington chiede sempre per le sue truppe).

Soprattutto, c’è la storia del complotto: due settimane fa il Dipartimento alla giustizia ha annunciato di aver sventato un piano di uccidere l’ambasciatore dell’Arabia saudita a Washington, e il segretario alla giustizia Eric Holder ha dichiarato che il complotto porta dritto alle Forze Al Qods, corpo di élite delle Guardie della rivoluzione dell’Iran, e quindi al vertice della Repubblica islamica. Due settimane dopo, le prove restano molto vaghe. Tutto ruoterebbe attorno a un cittadino iraniano-americano, Mansur Arbabsiar, 56enne venditore di auto usate negli Usa, e a suo cugino Gholam Shakuri, ufficiale della Forza al Qods; il primo è agli arresti negli Usa (lunedì in tribunale si è dichiarato non colpevole), Shakuri si trova forse in Iran.

Mesi fa Arbabsiar avrebbe preso contatti con un cartello del narco-traffico messicano, gli Zeta, per vendergli tonnellate di oppio proveniente dall’Afghanistan. Arbabsiar è andato fino in Messico per trattare l’affare, ma il suo contatto era un informatore della Dea, l’agenzia anti-narco Usa: così a sostegno dell’accusa ci sono trascrizioni di telefonate e incontri dove si parla di attaccare sedi diplomatiche e di far fuori l’ambasciatore saudita.

Il giornalista americano Gareth Porter, esperto di questioni della difesa nazionale Usa, ha notato che in quelle trascrizioni è sempre l’uomo del cartello (l’informatore) a suggerire a Arbabsiar la possibilità di altre azioni - uccidere l’ambasciatore saudita - ma «non c’è una specifica conversazione da cui risulti che la proposta possa essere attribuita a Arbabsiar». Insomma: lo spiantato venditore di auto usate ha tentato di vendere oppio riconducibile all’Iran al cartello messicano, dove un agente-informatore Usa gli ha dato corda per costruire una trappola.

Nelle ultime due settimane esperti e studiosi di affari iraniani hanno espresso grande scetticismo sul complotto tex-mex. Cosa prova che l’iranian-americano agisse per conto dell’intelligence e con l’accordo dei vertici politici della Repubblica islamica? Perché le Guardie della rivoluzione si affiderebbero a un agente così improbabile? Nulla nel presunto complotto rientra nel modus operandi dell’intelligence iraniana; né pianificare un atto così rischioso in territorio Usa, né lasciare tracce indelebili, né chiamare in causa un’organizzazione esterna (gli Zeta), non musulmana e non politicamente vicina.

E poi, quale beneficio trarrebbe l’Iran da un assassinio politico che alzerebbe subito la tensione? Obiezioni espresse da voci diverse: perfino un consigliere del governo saudita ha detto che un complotto ci sarà, «ma siamo scettici su quanto sia reale». L’Iran ha smentito e protestato: dalla Guida suprema Ali Khamenei all’ex presidente Khatami, al ministro degli esteri Ali Akbar Salehi che ha anche offerto di cooperare alle indagini, se gli Usa presenteranno qualche prova.

Credibile o meno però, il «complotto» ha la sua funzione. Nelle ultime due settimane Fbi, Cia, e Dipartimenti di stato, giustizia e tesoro hanno informato il Congresso delle prove raccolte contro l’Iran. Hanno convocato diplomatici stranieri per fare lo stesso. L’ambasciatrice Usa presso l’Onu, Susan Rice, ha portato al Consiglio di sicurezza le prove. Mercoledì la Camera Usa ha dichiarato che l’Iran ha ormai superato una «linea rossa», ha compiuto un «atto di guerra», e chiede al presidente Obama di riconsiderare la politica Usa verso Tehran. Colpire l’Iran? Il clima è proprio quello.

Fonte: Nena News 

di Tommaso Di Francesco

Roma, 28 ottobre 2011. Nonostante gli sforzi dei media, dei governi e delle «opposizioni», resta difficile se non impossibile archiviare facilmente le foto pornografiche che arrivano dalla Libia. Difficile se non impossibile archiviare le immagini del corpo linciato, massacrato - pare addirittura stuprato - di Gheddafi sepolto dopo il dileggio in tutta fretta in un luogo misterioso, come se facesse ancora paura da morto. Ora in Libia la pornografia, la ripetizione all’infinito di scene di sangue, seriali e violente, dejà vu, ma per questo appetibili, non riesce a nascondere la strage di fondo che arriva da Sirte e dagli altri luoghi segnati dalle ultime ore dei vinti di turno.

Prima Amnesty International e Human Right Watch, poi le agenzie delle Nazioni unite a cominciare dalla Croce rossa denunciano in queste ore efferati massacri, con la scoperta di centinaia - secondo alcune fonti, migliaia - di corpi di esseri umani catturati, imprigionati ed assassinati in sbrigative esecuzioni. Su questo teatro di morte aleggia il silenzio assordante dell’Occidente, colto e raffinato, come di quel pacifismo che pure dovrebbe sapere che essere contro la guerra vuol dire indignarsi davvero e mettere tutti e due i piedi dentro i nodi della crisi del modello di sviluppo del cosiddetto finanz-capitalismo.

Tacciono per mestiere invece i governi che hanno promosso l’avventura bellica della Nato, pronti a ripararsi dietro l’ennesima formuletta «aprire un’inchiesta». Come fa l’Onu, che se era già data per morta stavolta è proprio seppellita. Tutti sbeffeggiati dall’ultima versione ufficiale del Cnt che, quasi a voler cancellare le immagini che tutto il mondo ha visto, insiste a dichiarare che «Gheddafi è morto nel trasporto a Misurata per le ferite riportate» ma «se risultasse che è stato ucciso, processeremo i responsabili, in modo equo». Ma che verità può venire dalla Nato che, oltre ad avere consegnato di fatto Gheddafi al linciaggio, è responsabile di avere bombardato quello sfortunato paese con più di cinquantamila bombe «intelligenti» e «precise», colpendo e devastando - con beneficio degli affari della ricostruzione - quelle aree urbane e quegli stessi civili che dichiarava di volere «proteggere»?

Ma la pornografia non si ferma a questo. Perché a poche ore dalla dichiarazione della liberazione della Libia, il Cnt chiede all’Alleanza atlantica di restare almeno fino alla fine dell’anno. Che cosa teme è presto detto: non l’ipotesi per ora debolissima di una resistenza «irachena» dei filo-gheddafiani, ma l’esplodere non solo verbale ma armato del conflitto latente tra le anime degli insorti, mentre cresce il peso e il ruolo centrale degli integralisti islamici e non solo in Libia. Oggi la Nato deciderà di non decidere. Concluderà la missione, come gli chiede il Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma in realtà aprirà alla nuova opzione che avanza. Quella di una nuova coalizione di volenterosi che si faccia carico di gestire l’insicurezza della nuova Libia. Guidata, ecco la morbosità, dal «democratico» Qatar, la petromonarchia protagonista del massacro delle primavere arabe.

Che prima ha acceso i riflettori di Al Jazeera, la tv diretta da agenti della Cia e di proprietà dell’illuminato Emiro d’ispirazione e sostegno islamo-americano, poi ha inviato armi agli insorti libici proprio mentre reprimeva nel sangue la rivolta popolare in Barhein. E infine, come del resto hanno fatto gli anglofrancesi, ha ammesso di avere inviato centinaia di soldati nei combattimenti della guerra civile libica. Una soluzione che diventa un modello e insieme una minaccia per le speranze sempre più negate delle rivolte tunisina ed egiziana, ma anche per le sorti delle crisi esplosive, siriana e yemenita. È insopportabile la puzza di nuova guerra e di petrolio che arriva da un’Europa «politica» divisa nel precipizio della crisi sul bottino bellico e comunque finita, al terminale delle sue ragioni, proprio nella - e a partire dalla - guerra libica. Tuttavia, complimenti per il set porno.

Fonte: Il manifesto

di Giorgia Grifoni

Roma, 24 ottobre 2011. Continua la conti dei voti in Tunisia dopo le storiche elezioni che ieri hanno visto più di 4 milioni di persone ai seggi. I risultati, che erano previsti per questa sera, saranno annunciati domani, come ha dichiarato il capo della commissione elettorale Kamel Jandoubi. Il ritardo sarebbe dovuto alla grande affluenza registrata alle urne, una partecipazione superiore a qualsiasi previsione: circa il 70% degli aventi diritto registrati nelle liste elettorali ha votato -ovvero 4,1 milioni di cittadini su circa 7 milioni-  e ci si attende una significativa partecipazione anche dal restante 30% non registrato.

I primi sondaggi, seppur parziali, danno la maggioranza relativa a Ennahdha. In alcune circoscrizioni, tra le quali Sfax e Kef, avrebbe per ora ottenuto la maggioranza assoluta, superando il 50% dei voti. Al secondo posto ci sarebbero per ora i laici del Partito Democratico Progressista guidato da Maya J’ribi. “Ci inchiniamo alla volontà popolare” ha commentato la segretaria del PDP dopo l’annuncio dei risultati parziali.

Se non otterrà la maggioranza assoluta in patria, Ennahdha potrebbe però ottenerla nelle 6 circoscrizioni estere: come in Italia, dove il partito islamista ha ottenuto il 51% dei voti : “Ennahdha è il primo partito tra i tunisini che vivono in Italia - ha annunciato Omar el-Saghir, il primo tra gli eletti nella circoscrizione italiana - e abbiamo ottenuto due delegati su tre all’Assemblea di Tunisi”. Comunque vada, la Tunisia vuole rispettare le decisioni del popolo.  “La gente - ha dichiarato ad al-Jazeera Ahmed Najib Chebbi, fondatore del PDP - è qui per esercitare i propri doveri, e sta dimostrando che merita quei diritti che le sono stati negati per troppi decenni”.

Per molti dei cittadini che ieri si sono messi in fila ancor prima che io seggi aprissero, era la prima volta al voto. Alcuni hanno portato anche i bambini ad assistere allo storico momento che arriva nove mesi dopo la cacciata del presidente Zine el-Abidine Ben Ali durante la “rivoluzione dei gelsomini”. Gli osservatori, sia locali che internazionali, hanno confermato la sostanziale regolarità delle operazioni di voto, nonostante alcuni episodi verificatisi durante il giorno. Rachid Ghannouchi, leader di Ennahdha, è stato insultato da alcuni avversari politici davanti al seggio di Tunisi dove si era recato a votare con sua moglie e sua figlia, mentre un gruppo salafita avrebbe mandato messaggi minacciosi ad alcuni abitanti della periferia di Tunisi invitandoli a non votare, dichiarando la Costituzione contraria ai precetti del Corano.

Il voto di ieri sceglierà dei 217 membri che comporranno l’Assemblea Costituente, incaricata di redigere una nuova Costituzione e organizzare le prossime elezioni parlamentari e presidenziali. Fino ad allora, il governo continuerà ad essere guidato dal primo ministro ad interim Beji Caid Essebsi. Il sistema proporzionale è stato adottato perché garantisse la massima rappresentatività dei numerosissimi partiti che hanno concorso alle elezioni.

Grande soddisfazione anche all’estero per le prime elezioni libere tunisine. L’Unione Europea ha espresso il suo sostegno alle future autorità, qualunque esse siano. Il plauso alla giornata di ieri è arrivato anche dal presidente degli Stati Uniti Obama: “Come molti Tunisini hanno protestato pacificamente nelle strade per reclamare i loro diritti, oggi si sono messi in fila per decidere del proprio futuro. La rivoluzione tunisina ha cambiato il corso della storia”.

Fonte: - Nena News

 

di www. globalproject.info

Mentre scriviamo è in corso una maxi-operazione delle forze dell'ordine, con perquisizioni e arresti. Quando tutto sarà finito, il piano della discussione sarà un altro: con buona probabilità si restringeranno gli spazi di libertà per tutti, lotte sociali comprese; ci si avviterà attorno al tema repressivo; le questioni che contano - costruire un'alternativa alla dittatura della finanza - verranno messe all'angolo da un nuovo ordine del discorso. Forse andrà così, ma non necessariamente, se riusciamo ad esplicitare da subito un punto di vista radicale sui fatti di sabato.

Partiamo dall'inizio. Sabato 15 ottobre a Roma c'è stata una grandissima manifestazione, mezzo milione di persone hanno attraversato la capitale con la pretesa testarda di far pagare il debito a chi l'ha prodotto, le corporation, le banche, gli hedge fund, i protagonisti di quel processo di trasformazione del mondo segnato dalla precarizzazione del lavoro e dalla finanziarizzazione dell'economia. Mezzo milione a Roma, ma manifestazioni in 1.000 città e 82 paesi di tutto il pianeta terra: un nuovo movimento globale, consapevole e preparato si è messo in cammino, questo è ciò che effettivamente conta.

A Roma, e solo a Roma, occorre ricordarlo, la grandissima manifestazione è stata divisa e frammentata dagli incidenti con le forze dell'ordine e non solo. Non condanniamo, non siamo un tribunale. Ma nella nostra parzialità esprimiamo un giudizio politico, come tutti dovrebbero avere il coraggio di fare. L'unico modo per far fuori le semplificazioni giornalistiche che separano i buoni dai cattivi, la violenza e la non violenza, è dire con forza che le pratiche di conflitto, anche radicali, possono unire, connettere e costruire, ma possono anche dividere e distruggere. Le pratiche messe in campo da alcuni, pochi, durante la manifestazioni di sabato a Roma, hanno diviso il movimento, hanno messo in pericolo chi voleva manifestare (come definire altrimenti una macchina o un palazzo che brucia a due metri dal passaggio dell'intero corteo?), hanno messo in crisi lo spazio pubblico e politico che quella manifestazione voleva costruire.

Assumendo questa differenza, il nostro giudizio è chiaro, nettissimo. A San Giovanni, poi, è successo ancora altro. La reazione della polizia è stata scomposta e violentissima: l'uso degli idranti, i caroselli contro l'intera piazza. In risposta a questo fatto c'è stato un gesto di resistenza più ampio che ha coinvolto altri giovani e giovanissimi che poco avevano avuto a che fare con chi, durante il percorso del corteo, aveva deciso di dividere il movimento, con pratiche di conflitto irresponsabili, oltre che inutili (bruciare macchine o cassonetti in via Labicana: altro che assedio ai palazzi del potere!), e che, soprattutto, aveva quasi come unico obiettivo, tutto politico, se non politicista, quello di colpire ilCoordinamento 15 ottobre e la piazza, San Giovanni, dove dovevano esprimersi le lotte sociali e di certo non i partiti politici.

Ora, due giorni dopo, facciamo i conti con una scena inquietante e con un problema. La scena inquietante è quella definita da un nuovo dispositivo: la repressione “partecipata”, l'appello alla “delazione di massa”. Che sia il Corriere della sera a promuovere la linea di Cameron e della sua Big Society, non ci stupisce, che sia il mondo dei social network, in autonomia, a definire questo processo, è cosa assai più drammatica. La raccolta “autogestita” dei materiali video e fotografici, utili a colpire i «violenti», ci parla di un mondo davvero complesso, che le retoriche e le pratiche che confondono ed equiparano i riots di Londra con il 14 dicembre, non solo non capiscono, ma finiscono per alimentare.

Il dispositivo, appunto, è un rapporto: il rapporto tra delazione di massa e riots indiscriminati, le due cose, come ci ha dimostrato già Londra questa estate (vi ricordate i giovani che andavano a pulire la città?), viaggiano assieme, sono due facce di una stessa medaglia. E questo ci dovrebbe aiutare a fare piazza pulita anche di atteggiamenti linguistici e politici irresponsabili (pensiamo al proliferare di retoriche insurrezionaliste, agite solo per un giochino di posizionamento politico tra gruppuscoli che hanno nostalgia degli anni '70), perché le parole che usiamo, a volte, producono mostri.

Il problema dei movimenti è semplice. Da adesso in poi non è più possibile eludere la discussione sulle forme di democrazia e sulla molteplicità espressiva dello spazio pubblico di movimento. Le lotte sociali, la generazione precaria, gli studenti e le resistenze operaie, le lotte ambientali e per i beni comuni, devono poter determinare in autonomia il loro modo di stare in piazza, di manifestare, di fare conflitto. Questo vuol dire che non è più possibile rinviare un ragionamento pubblico sulle forme di autoregolamentazione dei cortei, anche e soprattutto quando i cortei vogliono violare le zone rosse o semplicemente sfidare i divieti per invadere la città (come gli studenti hanno fatto negli ultimi tre anni).

Come sia possibile una piazza plurale, ma nello stesso tempo democratica, è un problema di tutti, di tutte le lotte sociali, non è un problema di qualcuno, non è un problema dei centri sociali. Per questo la discussione deve essere aperta, per questo c'è bisogno di essere tempestivi, perché il 15 ottobre non può e non deve consegnare il movimento al minoritarismo e al ghetto, perché il movimento non può condannarsi all'impotenza, perché il conflitto, anche radicale e aspro, non può essere messo all'angolo.

 


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