di Mauro Covacich

Un'organizzazione di indiani con sede nell'ovest vicentino, al centro di un vasto giro di volantinaggio illegale fatto di lavoro nero, evasione e frode fiscale, è stata sgominata dalla Guardia di Finanza, ma non è questa la notizia vera. La notizia vera è che questi nuovi padroni controllavano i loro lavoranti, quasi tutti ovviamente immigrati irregolari e quindi ricattabili, attraverso una catena elettronica dalle maglie invisibili collegata a un gps.

La tecnologia non ha un'etica, può essere utile al chirurgo, all'astronauta o al criminale, per sua natura non guarda in faccia nessuno. Non solo: più la tecnologia avanza e occupa spazi, più il pensiero si ritira in aloni opalescenti, fino a rarefarsi del tutto. È probabile che i nuovi padroni colti in flagranza di reato abbiano sgranato gli occhi di fronte alle accuse. Che c'è di male a dotare di collarino gps i tuoi schiavi?

Prima c'era la palla al piede, le catene, adesso gli rendiamo la vita più facile, e voi pure vi scandalizzate? Chi tiene gli occhi bassi sulle cose non ha tempo per pensare: o è troppo intento a far soldi o sta sudando per farli fare a qualcun altro. È stupefacente il mondo che si nasconde dietro queste giustificazioni e la loro patina di laboriosità. Sotto i nostri occhi ogni mattina va in scena una commedia piena di gente indaffarata, ragazze che sorridono ai banchetti dei surgelati in promozione, agenti immobiliari in grisaglia che offrono sempre nuove perizie, giovani africani che ingombrano i tergicristalli e le cassette della posta di stramaledetti volantini pubblicitari. Li accettiamo i loro volantini. Alla fin fine, pensiamo, hanno un lavoro, ce l'hanno fatta. Guarda che bei caschetti, che belle pettorine, che belle biciclette. Siamo quasi contenti per loro. Mica ci siamo chiesti se quei caschetti servono a farli pedalare più sicuri o a nascondere un guinzaglio di ultima generazione.

La commedia va in scena ogni giorno secondo il copione ormai consolidato del «purché si lavori», ma dietro le quinte lo sfruttamento ha raggiunto livelli di ferocia che farebbero impallidire un dramma come Furore. Quando John Steinbeck pubblicò il suo romanzo, i gps non esistevano ancora. Era il 1939, piena depressione, e i nuovi poveri degli stati del sud migravano verso la California in cerca della semplice, bruta sopravvivenza. Era gente talmente affamata da non avere alcun potere contrattuale e quindi perfetta per il cottimo dei proprietari terrieri. Ognuno di quei lavoratori stagionali aveva ovviamente una sua storia - uomini, donne, figli, individui che amavano e soffrivano - ma veniva percepito a malapena come parte di una massa pericolosa di nullatenenti o, peggio, come un'ottima occasione speculativa. Vi ricorda qualcosa? Guardate fuori dalla finestra.

Il romanzo di Steinbeck, così pieno di passione e dolore, lasciava intuire una cosa importante per il futuro: sfruttata, offesa, ferita che fosse, quella gente non avrebbe smesso di arrivare. Altri avrebbero viaggiato per migliaia di chilometri, si sarebbero spezzati la schiena nei campi di pesche, ricacciando in gola l'orgoglio, la rabbia, tutto, in attesa solo di diventare cittadini. Senza cottimo, e forse oggi potremmo dire anche senza gps.

Fonte: www.corriere.it

 

di Nena News 

Roma, 06 maggio 2011. Potrebbero diventare operative già lunedì prossimo le prime misure restrittive dell’Unione europea (Ue) contro la Siria che verranno approvate oggi dai 27 paesi membri e dovrebbero colpire direttamente lo stesso Bashar Assad. A spingere affinchè il presidente siriano venga preso di mira subito - con divieto di concessione del visto e il congelamento dei beni personali all’estero - sono la Francia, la Gran Bretagna e la Germania.

Altri paesi, preferirebbero «segnale forti» contro Damasco lasciando tuttavia una porta aperta alla diplomazia. L’Ue approverà l’embargo sulla fornitura di armi, congelerà il negoziato per l’accordo di associazione (in realtà già bloccato dall’ottobre 2009) e procederà alla revisione della cooperazione bilaterale, un fronte sul quale la Siria avrebbe potuto beneficiare, nel periodo 2011-2013, di circa 130 milioni di euro.

Le sanzioni arrivano mentre in Siria si è vissuta oggi una nuova giornata di proteste e tensioni con almeno sei manifestanti uccisi dalle Forze Armate a Homs e molte decine di feriti e di arresti “preventivi” in altre località. A Damasco é finito in manette anche il noto oppositore ed ex parlamentare Riad Seif (da poco era uscito di carcere). I suoi familiari hanno riferito che è stato portato via assieme ad altri dimostranti da agenti di polizia che lo hanno caricato a bordo di un veicolo nei pressi della moschea al Hassan, nel quartiere di Midan, dove era in corso una manifestazione.

Non è prevista alcuna sanzione europea invece contro il monarca assoluto del Bahrain, Hamad al Khalifa, che pure ha represso nel sangue il movimento per le riforme e la democrazia di Piazza della Perla. Almeno quattro manifestanti sono stati condannati a morte, molti altri a pesanti pene detentive sulla base di accuse gonfiate e al termine di processi senza garanzie per gli imputati. Le ultime notizie da Manama riferiscono di una ulteriore stretta nei confronti della stampa.

Da lunedì cesserà le pubblicazioni su ordine delle autorità al Wasat, l’unico quotidiano vicino all’opposizione. Diverse donne del Bahrein peraltro denunciano di aver subito violenze sessuali dalle forze militari saudite entrate nel paese su richiesta di re Hamad. Fatima, una parente dell’attivista bahrainita Abdulhadi al-Khawaja (detenuto dall’inizio di aprile), ha detto all’emittente Press TV di essere stata stuprata nella sua abitazione da soldati sauditi. Press tv riferisce di altri casi di violenze sessuali. Nelle ultime ore è giunta anche denuncia di Navy Pillay, alto commissario dell’Onu per i diritti umani, che ha chiesto al regime bahranita di cessare la tortura dei detenuti politici.

Ma nel caso del Bahrain l’Europa e gli Stati Uniti fingono di non vedere e tacciono. Re Hamad è un ottimo alleato dell’Occidente, ospita la base della V Flotta Usa ed è ostile nei confronti dell’Iran che accusa di sostenere il movimento sciita in Bahrain e nel Golfo. «Meriti» che, a quanto pare, gli garantiscono una piena immunità.

 

di Nena News 

Roma, 4 maggio 2011. E’ in corso al Cairo, alla presenza del presidente dell’Anp Abu Mazen e del leader di Hamas Khaled Mashaal, la firma dell’accordo di riconciliazione tra Fatah e il movimento islamico. Alla cerimonia partecipano anche il ministro degli esteri egiziano Nabil el Arabi (che ha mediato l’intesa), il Segretario generale della Lega araba Amr Musa, rappresentanti di vari paesi arabi e tre deputati arabo israeliani (palestinesi con cittadinanza israeliana). In mattinata difficoltà sorte intorno alla politica estera del futuro esecutivo palestinese e al ruolo di Abu Mazen negli eventuali negoziati con Israele, avevano rischiato di far saltare tutto all’ultimo istante. Poi i contrasti sono rientrati.

L’intesa, sottoscritta ieri sera anche dalle altre formazioni politiche palestinesi, mette fine a quattro anni di contrasti violenti tra Fatah e Hamas e, più di tutto, alla separazione amministrativa tra i territori di Cisgiordania e Gaza. E’ prevista ora la formazione di un governo tecnico incaricato di preparare le elezioni presidenziali e politiche che si terranno entro un anno e il rinnovo del Consiglio nazionale palestinese (Cnp, che rappresenta tutti i palestinesi, anche quelli nei campi profughi all’estero, e nel quale entreranno deputati di Hamas), ossia il Parlamento dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp).

Grande l’euforia in casa palestinese. Almeno 1.500 persone hanno partecipato a una manifestazione a Gaza in sostegno all’accordo. Per la prima volta dopo quattro anni le bandiere gialle di Fatah hanno sventolato insieme a quelle verdi di Hamas e  alla manifestazione hanno preso parte sia deputati di Hamas che di Fatah.

Israele legge nell’accordo tra Fatah e Hamas un rafforzamento del movimento islamico e dalla sua parte si sono subito schierati gli Stati Uniti, affermando che qualsiasi governo palestinese, con Hamas al suo interno, dovrà riconoscere l’esistenza dello Stato ebraico. L’ex ministro degli esteri palestinese Nabil Shaath ha definito questa richiesta «priva di senso» e «irrealizzabile» di fronte alla posizione contraria espressa in più occasioni da Hamas, anche in questi ultimi giorni. Da parte sua il premier israeliano Netanyahu si prepara a chiedere agli europei il boicottaggio del futuro esecutivo palestinese.

Una mossa contestata da Abu Mazen e dai vertici di Fatah, che l’hanno giudicata una grave interferenza nelle questioni interne palestinesi. Netanyahu ha anche rivolto un appello ad Abu Mazen a non riconciliarsi con Hamas. L’esercito israeliano inoltre ha arrestato Ali Rumanin, un deputato del movimento islamico, a Gerico, rilasciato lo scorso ottobre dopo aver trascorso più di quattro anni in carcere. Il suo arresto porta a otto il numero di deputati di Hamas detenuti dall’esercito israeliano negli ultimi sei mesi.

L’accordo che le due principali formazioni politiche palestinesi firmeranno oggi al Cairo prevede una serie di intese di massima. Rimangono perciò da sciogliere una serie di nodi centrali: l’identità del nuovo premier (Hamas lo vorrebbe di Gaza); la riunificazione degli apparati di sicurezza e l’ingresso di Hamas nell’Olp. Il primo passo però è la costituzione di un governo unitario, composto da tecnocrati e senza affiliazione politica che dovrà condurre i palestinesi alla seduta dell’Assemblea Generale dell’Onu in cui a settembre Abu Mazen dovrebbe proclamare lo Statoindipendente di Palestina.

Ieri il capodelegazione di Fatah al Cairo, Azzam al Ahmad, ha spiegato che le relazioni estere dell’Anp ed eventuali negoziati con Israele resteranno prerogativa esclusiva di Abu Mazen, in quanto leader dell’Olp. Hamas da parte sua si sarebbe impegnato a cessare ogni attività armata contro Israele anche se il vice ministro degli esteri, Ghazi Hamad, ha spiegato che non esiste nell’accordo un articolo preciso su questo punto.

Se Israele e gli Stati Uniti sono pronti a boicottare il futuro esecutivo palestinese, Abu Mazen e Mashaal credono che l’Europa sia più flessibile nei riguardi della svolta politica avvenuta nei Territori Occupati. Se Italia, Olanda e Repubblica Ceca, i principali amici di Israele nell’Ue, sono per la linea dura, altri paesi come Francia e Spagna invece sono più aperti ad una possibile collaborazione.

 

di Manlio Dinucci

L’obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell’Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi. Nel mirino dei «volenterosi» dell’operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all’estero.

I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Ma potrebbero essere di più. Anche se sono inferiori a quelli dell’Arabia saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si sono caratterizzati per la loro rapida crescita. Quando la Lia è stata costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre.

In Italia, i principali investimenti libici sono quelli nella UniCredit Banca (di cui la Lia e la Banca centrale libica pos-siedono il 7,5%), in Finmeccanica (2%) ed Eni (1%): questi e altri investimenti (tra cui il 7,5% dello Juventus Football Club) hanno un significato non tanto economico (ammontano a circa 4 miliardi di euro) quanto politico.

La Libia, dopo che Washington l’ha cancellata dalla lista di proscrizione degli «stati canaglia», ha cercato di ricavarsi uno spazio a livello internazionale puntando sulla «diplomazia dei fondi sovrani». Una volta che gli Usa e la Ue hanno revocato l’embargo nel 2004 e le grandi compagnie petrolifere sono tornate nel paese, Tripoli ha potuto disporre di un surplus commerciale di circa 30 miliardi di dollari annui che ha destinato in gran parte agli investimenti esteri. La gestione dei fondi sovrani ha però creato un nuovo meccanismo di potere e corruzione, in mano a ministri e alti funzionari, che probabilmente è sfuggito in parte al controllo dello stesso Gheddafi: lo conferma il fatto che, nel 2009, egli ha proposto che i 30 miliardi di proventi petroliferi andassero «direttamente al popolo libico». Ciò ha acuito le fratture all’interno del governo libico.

Su queste hanno fatto leva i circoli dominanti statunitensi ed europei che, prima di attaccare militarmente la Libia per mettere le mani sulla sua ricchezza energetica, si sono impadroniti dei fondi sovrani libici. Ha agevolato tale operazione lo stesso rappresentante della Libyan Investment Authority, Mohamed Layas: come rivela un cablogramma filtrato attra-verso WikiLeaks, il 20 gennaio Layas ha informato l’ambasciatore Usa a Tripoli che la Lia aveva depositato 32 miliardi di dollari in banche statunitensi. Cinque settimane dopo, il 28 febbraio, il Tesoro Usa li ha «congelati». Secondo le dichiarazioni ufficiali, è «la più grossa somma di denaro mai bloccata negli Stati uniti», che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia». Servirà in realtà per una iniezione di capitali nell’economia Usa sempre più indebitata. Pochi giorni dopo, l’Unione europea ha «congelato» circa 45 miliardi di euro di fondi libici.

L’assalto ai fondi sovrani libici avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi permetterebbe ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e segnerebbe la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto. Le armi usate dai «volenterosi» non sono solo quelle dell’operazione bellica «Protettore unificato».

Fonte: Voltairenet.org

di Maurizio Matteuzzi

Il vento del Maghreb alla fine è arrivato al Mashreq. Levatosi dall’occidente arabo in dicembre, in aprile ha investito l’oriente. Inevitabilmente. Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrain, Libia, ora la Siria. E dopo? La rivolta araba ha cambiato registro. Sembra non esserci più spazio per rivoluzioni gentili e profumate - come i gelsomini della Tunisia - relativamente pacifiche anche se ognuna ha richiesto centinaia di morti. Ora è guerra aperta. E, almeno in Libia, guerra «mondiale», se è vero che alla coalizione «umanitaria» dei «volenterosi» partecipano 34 paesi. Ieri la Siria ha vissuto un «venerdì di sangue», il più sanguinoso dall’inizio della rivolta, a marzo.

I morti finora sono più di 70. Un massacro. Le riforme annunciate e promesse dal presidente Bashar al-Assad (come la revoca della legge d’emergenza in vigore da 48 anni) non bastano. Troppo timide, troppo tardi, troppo poche. L’accusa di «cospirazione» per destabilizzare il paese - comune a tutti gli altri paesi investiti dalla rivolta - forse ha un fondo di verità (è di pochi giorni fa la rivelazione, da parte del Washington post, che le amministrazioni Usa, prima Bush poi Obama, finanziavano con milioni di dollari l’opposizione anti-Assad), ma non basta a spiegare - come in Libia - una sollevazione così intensa, ampia, disposta a tutto.

Ogni rivolta è diversa dalle altre, ha una sua peculiarità, ma le domande e gli obiettivi sono simili: in Siria la fine del monopolio del partito Baath, al potere da quasi mezzo secolo, un sistema politico democratico, la liberazione dei detenuti politici e lo sciogliemento dei vari mukhabarat.

In Siria gli Assad se ne devono andare, dopo 45 anni e anche se Bashar pareva disposto a riformare il (suo) sistema di potere. Come in Libia se ne deve andare Gheddafi dopo 43 anni, in Yemen Saleh dopo 33 anni. Come in Egitto e Tunisia se ne dovevano andare Mubarak e Ben Ali. Molti di loro amici e sodali dell’occidente, dittatori ma sicuri, che garantivano stabilità (e, nel caso diGheddafi, petrolio) e il controllo di quell’incubo che per la Fortezza Europa è l’immigrazione di massa.

Il problema, irrisolto, è in che modo se ne devono andare. La Siria non ha il petrolio ma è un paese strategico («non si fa la guerra senza l’Egitto e la pace senza la Siria») nel quadro di un Medioriente esplosivo. Reso ancor più esplosivo che in passato dalla fine del bipolarismo e del panarabismo (un tempo) progressista, l’avvento di nuove potenze (in primis la Cina), il declino degli Usa (già impantanati in due guerre più una da cui non riusciranno facilmente a uscire), i rigurgiti neo-coloniali o neo-imperiali di ex-potenze europee decadute come Francia e Inghilterra, il dislocamento dei rapporti centro-periferia, il peso dei social network (i «facebook boys»).

Un quadro intricato di cambio, magnifico per un lato e tragico per un altro. Ma dal finale oscuro. Che faranno ora gli «umanitari» con la Siria? La rivolta sanguinosa a Damasco ripropone domande senza risposta (o con risposte fin troppo facili): perché la «comunità internazionale» - Usa, Francia, Inghilterra in testa - non corre in soccorso anche dei civili siriani (quelli yemeniti e bahareniti, evidentemente, pesano meno)? E come, con i raid aerei della Nato, con i «corridoi umanitari», con i consiglieri militari? Per favore, qualcuno lo spieghi.

fonte: Nena News


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