di Mario Correnti per Nena News

Molti attori internazionali ormai lo avevano dimenticato ma il principe Bandar bin Sultan, responsabile per la sicurezza nazionale saudita, contro ogni previsione nefasta, sembra aver sconfitto o almeno messo sotto controllo la malattia (si sussurra il cancro) che lo ha costretto in questi ultimi due anni a sottoporsi a quattro interventi chirurgici e ad osservare una lunga convalescenza che lo ha tenuto lontano dalla politica e della diplomazia.

Poi è venuto il giorno del grande rientro dell’uomo considerato il “falco” della politica saudita nonché  principale contatto con i neocons e i conservatori statunitensi, a cominciare dall’ex presidente George W. Bush (Michael Moore gli ha dedicato ampio spazio nel suo Fahrenheit 9/11). E’ stato ambasciatore a Washington dal 1983 al 2005.

Le condizioni di salute di Bandar bin Sultan non sono chiare ma in ogni caso il suo ritorno a casa prelude ad un irrigidimento della politica saudita nella regione, nei confronti dell’Iran prima di tutto ma anche in Libano e Iraq, due paesi dove l’influenza saudita Arabia ha subito pesanti battute di arresto per mano dell’Iran e dei suoi alleati.

Ad accoglierlo il 14 ottobre al rientro a Riyadh, Bandar bin Sultan ha trovato il re Abdallah e un po’ tutti i pezzi da novanta della politica saudita ed un ricevimento che ha pochi precedenti almeno per gli standard sauditi. Cerimonie che smentiscono l’ordine che un anno fa re Abdallah avrebbe dato di escludere da ogni forma di attività politica Bandar bin Sultan sospettato di aver tramato contro di lui.

Secondo il solitamente ben informato giornale arabo online Elaph, quello di bin Sultan non sarà un ritorno di basso profilo alla politica. «Sarà l’artefice di una svolta di maggiore rigidità nelle dinamiche regionali contemporanea alla svolta conservatrice che avverrà nel Congresso americano dopo le elezioni di medio termine…alla luce anche della mancanza di qualsiasi speranza di successo del negoziato (israelo-palestinese», prevede Elaph. Ad aiutarlo, aggiunge il giornale online, sarà ancora una volta la sua spregiudicatezza, mostrata nelle tante missioni, legali e (soprattutto) illegali, nelle quali è stato impegnato nella sua carriera.

Bandar bin Sultan darà un impulso alla linea incerta seguita sino ad oggi dal ministro degli esteri Saud al Faisal, incapace di far valere il peso di Riyadh nel conflitto interno libanese come in quello iracheno e di contrapporre un argine alla crescente potenza iraniana nella regione. Magari ritentando di convincere il suo alleato libanese, il premier Saad Hariri, ad assassinare il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, come aveva riferito lo scorso agosto il sito Tayyar.org, organo ufficiale della Corrente dei Liberi Patrioti libanesi.
L’ex ambasciatore negli Usa proverà a riattivare l’asse Cairo-Riyadh-Rabat, allargandola ad altre petromonarchie del Golfo. In vista di quella guerra tra Israele e Iran che evidentemente ritiene ormai sicura e che richiede una Arabia saudita più forte di quella attuale.

(foto dal sito www.msnbc.msn.com)

 

di Helena Hogan per Nena news

Gerusalemme. Fakhri Abu Diab interrompe l’intervista improvvisamente, quando il suono allarmante di fischi lo raggiunge dalla strada. Si alza e si precipita fuori dalla tenda del “Centro Al Bustan”, una struttura di legno fatta alla buona e ricoperta da un telo nero, sul quale sono affisse foto ingrandite che ritraggono alcune scene della lotta popolare di questa area di Silwan, quartiere di Gerusalemme Est occupata e presunto sito della Città del Re Davide. Lo stesso Davide che sfidò Golia.

Giovani ragazzi urlano e i fischi si moltiplicano mentre tre, poi quattro, jeep militari israeliane sgommano per poi fermarsi davanti alla tenda. Un gruppo di sei o sette soldati che indossano passamontagna neri e caschi, in tenuta antisommossa, salta giù, gridando  e puntando gli M-16, in assetto da combattimento.

“Vedi cosa accade?” chiede retoricamente Abu Diab, “Questa è la nostra vita. Questo è il problema. E’ così qui ogni giorno ormai.”. Il suo sguardo passa dai soldati ai tre ragazzi piccoli, ad un metro di distanza che aspettano l’autobus. “E vedi quei bambini? Non hanno paura, non si spostano, restano lì…non vogliono dare ai soldati l’opportunità di sparare…vedi? Noi glielo insegniamo. Adesso le jeep se ne vanno.” Abu Diab, presidente del Comitato popolare dell’area di Al Bustan a Silwan e membro del comitato popolare generale di Silwan (che unisce tutte e 12 le zone di Silwan), si volta e torna sotto la tenda.

Costruita nel febbraio del 2009 dagli abitanti della zona, la tenda è il luogo d’incontro per la lotta popolare collettiva di Al Bustan, che tenta di proteggere 88 abitazioni, le case di più di 1.500 persone. 88 abitazioni i cui residenti hanno ricevuto multipli ordini di demolizione, perché al loro posto verrà attuato l’ampliamento del sito archeologico israeliano della “Città di Davide”, un progetto di recupero di un patrimonio culturale che le autorità israeliane vorrebbero fosse esclusivamente ebraico; un progetto che però comporta l’espulsione di decine di famiglie palestinesi, che ad Al Bustan vivono da secoli.

Alcune delle case di Al Bustan già segnalate per la demolizione, risalgono a prima della creazione dello Stato d’Israele nel 1948, mentre la maggior parte sono state costruite prima dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est nel 1967. Tutti pagano l’Arnona, la tassa municipale israeliana sui beni immobiliari, versata al municipio da quando Israele ha “annesso”, nel 1980, la parte est della città. Anche se dichiarata “nulla” dalla risoluzione ONU 478, in quanto atto che viola il diritto internazionale, quest’annessione continua a rappresentare una realtà di fatto che comporta conseguenze concrete per i palestinesi di Gerusalemme.

Abu Diab, come uno dei nove volontari eletti che formano il comitato popolare di Al Bustan, passa la maggior parte del suo tempo libero in contatto con gli avvocati che seguono gli 88 processi legali in corso nelle corti israeliane. E’ il portavoce di Al Bustan nelle riunioni con il municipio e tiene aggiornati i media, i suoi vicini di casa e i gruppi di attivisti israeliani sulle azioni militari e le demolizioni previste, attraverso il sito web del comitato e tramite contatti diretti.

Il centro Al Bustan dà luogo alla preghiera collettiva del venerdì, una protesta spirituale settimanale. In più, ospita campi estivi e corsi per il primo soccorso, la gestione della paura, il trauma infantile, e lezioni in lingua inglese ed ebraica.
Ma nonostante gli sforzi interminabili, dieci degli 88 edifici di Al Bustan sono già stati abbattuti. In più, tutti i suoi abitanti stanno pagando delle multe salate in quanto considerati occupanti abusivi, multe che ammontano a cifre pari ai 65.000 NIS (circa 13.000 euro), dal momento che i residenti rifiutano di andarsene.

“Non abbiamo nessun potere e Israele è al di sopra della legge internazionale, quindi cosa dobbiamo fare?” chiede Abu Diab, “Possiamo aiutare la gente a contattare gli avvocati, ad organizzare le manifestazioni…ma quando vedo i miei figli o mia moglie, loro non sono felici…Quando torno a casa, vedo la cucina, le camere da letto, la sala, e dico “forse questa è l’ultima cena, l’ultimo caffè, l’ultima volta che mi siedo con i miei figli in casa mia”…molte famiglie soffrono di problemi psicologici, e per affrontare questi problemi, noi, la comunità, non riusciamo ad aiutarli”.

Abu Diab cita come esempio un ragazzo di Al Bustan di sette anni molto studioso. Il suo maestro ha cominciato a preoccuparsi quando il bambino ha smesso di prendere dei buoni voti. Un giorno il maestro ha fermato il ragazzo e gli ha chiesto se aveva bisogno di aiuto per i suoi compiti. Gli ha detto di aprire lo zaino, e quando il ragazzo l’ha fatto, il maestro ha scoperto che dentro era pieno di giocatoli anziché  libri di scuola.

L’insegnante si è recato dai genitori del ragazzo per discuterne con loro. Quando la madre gli ha chiesto perché aveva lo zaino pieno di giocatoli, il bimbo ha risposto che aveva sentito i genitori discutere di come la loro casa sarebbe stata distrutta, ma che nessuno sapeva esattamente quando. Ha spiegato, che stava portando con sé a scuola i suoi giocattoli preferiti, per proteggerli dai bulldozer.

Ma la grave situazione di Silwan non è limitata ad Al Bustan. Sul pendio adiacente, nella zona chiamata Baten el-Hawa, sette famiglie palestinesi, dell’edificio Abu Nab, sono sotto minaccia costante di “sfratto” da parte delle famiglie di coloni israeliani che occupano l’edificio Beit Yonatan, lì accanto. Abu Nab è costruito sul sito dove nel XIX secolo sorgeva una sinagoga yemenita, motivo più che idoneo per le autorità israeliane per sfidare il diritto di proprietà di qualsiasi palestinese. Appena più avanti sulla stessa strada, Zuhair Rajabi, padre di quattro bambini piccoli,  passa buona parte del suo tempo a documentare sistematicamente la violenza che circonda casa sua, tramite sei videocamere che ha montato in tutti gli angoli del suo palazzo.

Vive accanto ad un’altra casa occupata di Silwan, il Beit al-’Asl (conosciuta come Beit Haduash dai suoi occupanti). Il fatto che Zuhair possieda i documenti che attestano l’acquisto di Beit al-’Asl da parte di suo zio dalle mani di un’altra famiglia palestinese, prima che anche questa casa venisse dichiarata di proprietà di coloni israeliani, finora non lo ha aiutato.

“Così stiamo lottando contro [i coloni] nel tribunale israeliano. Che cosa altro possiamo fare? Israele è forte e noi siamo deboli. Ogni settimana, due o trecento persone vengono alle riunioni del comitato popolare, ci stiamo chiedendo cosa possiamo fare, come possiamo resistere. L’ironia è che noi siamo residenti di Gerusalemme, quindi paghiamo le bollette dell’acqua, dell’elettricità, le tasse allo Stato d’Israele. E con questi soldi Israele finanzia il suo esercito e paga le sue forze di sicurezza per opprimerci”.

Zuhair mantiene contatti costanti con gruppi di attivisti israeliani come Tayoush, ICAHD, e Breaking the Silence, e fino a 20 attivisti alla volta passano la notte nel palazzo di Abu Nab per tentare di proteggere i suoi residenti palestinesi dai coloni israeliani. Insieme ai suoi video, Zuhair ha preservato tutti i bossoli degli M-16 che hanno colpito la sua casa e la sua macchina, e il fumogeno lanciato dentro la sua sala durante la notte del 26 giugno - l’ultima volta i coloni hanno deciso di mettere in scena un tentato esproprio “autogestito” di Abu Nab -casomai dovessero servire un domani come prove legali.

Nella vallata di Wadi Hilwe all’entrata di Silwan, una bambina minuta, di circa otto anni, figlia di coloni, cammina per la strada. E’ seguita da una scorta armata privata, a sua volta seguita da un jeep militare israeliana. Una fila di case occupate spuntano su tutta la strada, facilmente identificabili dalle grandi bandiere israeliane che sventolano dai balconi: case da cui le famiglie palestinesi sono state cacciate per fare spazio alle ragioni dei coloni israeliani.

La bambina e la parata armata che la scorta, sfilano di fronte al Centro di informazioni di Wadi Hilwe di Silwan, un’altra tenda fatta alla buona, eretta come risposta palestinese al Punto d’informazione turistico israeliano della Città di Davide, ubicato a pochi metri di distanza sulla stessa strada e circondato da soldati. “Abbiamo il diritto di raccontare la nostra storia qui e non soltanto di sentire gli altri che raccontano la storia di questo quartiere come se non fossimo mai esistiti qui”, spiega Nihad Siyam, uno dei membri fondatori del centro, “Siamo qui da migliaia di anni, anche se questo è un fatto che vorrebbero cancellare”.

Il centro funziona come base per i tour archeologici alternativi di Silwan condotti in collaborazione con gli archeologi israeliani di Emek Shaveh, che sottolineano il ruolo politico dell’archeologia all’interno del conflitto israelo-palestinese e promuovono una visione di proprietà collettiva del passato archeologico della zona piuttosto che la sua appartenenza esclusiva ad un solo gruppo etno-religioso.

Così Davide è diventato Golia: un campione dell’impunità internazionale, ingabbiato da Israele nel retaggio storico di una narrazione esclusivamente ebraica. E gli abitanti palestinesi di Silwan continuano le loro battaglie legali apparentemente senza speranza, dove la giustizia viene decisa dall’oppressore. Continuano con creatività ad ideare e ad organizzare iniziative dal basso, tecniche di resistenza e attività mirate a rafforzare la loro comunità. Ma per quanto tempo ancora Silwan potrà continuare a resistere di fronte a questa massiccia aggressione israeliana prima di esplodere affidandosi all’uso disperato di molto più che solo pietre e fionda?

(foto di Rebecca Fudala)

 

di Nena news

Ramallah. Tutto pronto a Washington dove il presidente Usa Barack Obama, il leader palestinese Abu Mazen e il premier israeliano Benyamin Netanyahu oggi alle 16,00 ora italiana daranno inizio a colloqui che, nelle intenzioni americane, dovranno portare ad un accordo tra le due parti entro un anno. Tuttavia un profondo scetticismo circonda le trattative.

In casa palestinese non si ha alcuna fiducia in Netanyahu e si teme che Abu Mazen, sotto le pressioni americane, accetti una soluzione che porti alla nascita di uno Stato palestinese senza sovranità reale e alla rinuncia di diritti sanciti dalle risoluzioni internazionali, come quello al ritorno nella terra d’origine per i profughi palestinesi.

Molto attive nella protesta contro la ripresa delle trattative sono le forze della sinistra palestinese. Centinaia di attivisti del Fronte popolare e del Fronte Democratico hanno manifestato ieri nelle strade di Ramallah, coinvolgendo militanti e simpatizzanti di altre fazioni politiche, inclusi quelli di Fatah, il partito di Abu Mazen, che dissentono dalla decisione presa dalla leadership dell’Anp.

«Gran parte dei palestinesi contestano queste trattative – spiega a Nena News la deputata del Fronte popolare Khalida Jarrar - è stato un gravissimo errore accettare questi colloqui senza fare dei riferimenti precisi alle risoluzioni dell’Onu e ottenere garanzie internazionali riguardo la fine della colonizzazione israeliana dei nostri territori». Secondo Khalida Jarrar «Abu Mazen e altri esponenti palestinesi non hanno imparato dagli errori del passato». Israele, afferma la parlamentare, «ha usato le trattative, dal 1991 a oggi, per attuare la sua politica di colonizzazione e di aggressione quotidiana verso il popolo palestinese, con il consenso aperto degli Stati Uniti e quello tacito di molti governi». L’unica soluzione possibile per il conflitto israelo-palestinese, dice Jarrar, «è fare riferimento alle risoluzioni dell’Onu e alla legalità internazionale».

Altri esponenti dell’opposizione accusano Abu Mazen di aver costruito le basi per una nuova campagna internazionale di accuse contro i palestinesi. Nessun leader politico palestinese, spiegano, può accettare le condizioni che Israele pone per consentire la nascita dello Stato di Palestina. Pertanto, quando il negoziato arriverà ad un punto morto, gli Stati Uniti e altri paesi daranno la colpa del fallimento ai palestinesi.
Partiti e gruppi dell’opposizione laica palestinese hanno creato una «commissione nazionale» incaricata di organizzare le prossime manifestazioni di protesta, se l’Anp ne permetterà lo svolgimento. Nei giorni scorsi, sempre a Ramallah, i servizi segreti agli ordini di Abu Mazen sono intervenuti per sciogliere con la forza un convegno organizzato dalla sinistra palestinese contro la ripresa dei negoziati diretti con Israele.

Ma la protesta non e’ circoscritta solo alla sinistra palestinese e al movimento islamico Hamas, che nelle ultime due ore, con agguati compiuti in Cisgiordania dal suo braccio armato contri i coloni, ha espresso in modo inequivocabile il suo giudizio dei negoziati. Il dissenso e’ forte anche in Fatah, il partito di Abu Mazen e spina dorsale dell’Autorita’ nazionale palestinese. «I negoziati sono destinati al fallimento», ha detto Marwan Barghouthi, il leader piu’ popolare di Fatah, in prigione in Israele dal 2002, in un’intervista al giornale arabo ‘al-Hayat’. “In linea di principio non sono contrario alle trattative (con Israele) – ha spiegato Barghuti – ma i palestinesi in questo caso le hanno accettate solo in seguito a pressioni esterne”.

In particolare, ha aggiunto, «Abu Mazen ha ripreso i colloqui per le pressioni dei paesi arabi,  non perché sia convinto della concretezza dell’iniziativa». «Queste trattative falliranno, così come è avvenuto in passato, perche’ Israele non ha intenzione di arrivare alla pace e non rispetterà gli impegni», ha concluso il leader di Fatah.

 

di Nena news

I tamburi di guerra hanno rullato con forza ieri al confine tra Libano e Israele lasciando intravedere quel nuovo conflitto tra i due paesi del quale si parla da tempo e che, secondo diversi analisti, potrebbe anticipare o essere parallelo all’attacco israeliano contro le centrali atomiche iraniane. La preparazione alla nuova guerra in Medio Oriente prosegue mascherata dagli accordi che Tel Aviv e Washington continuano a stringere nel settore strategico della difesa antimissile. L’ultimo è stato reso noto martedì.

Il ministero della difesa israeliano, rappresentato dall’ammiraglio Ophir Shoham, e il generale Patrick J. O’Reilly a nome del Dipartimento di Stato Usa, hanno firmato un accordo per lo sviluppo congiunto del sistema anti-missile ad alta quota Arrow-3 che permetterà a Tel Aviv di intercettare fuori dall’atmosfera terrestre i missili balistici a lunga e media gittata, di fatto l’unica arma in possesso dei paesi arabi per colpire Israele in caso di conflitto e dell’Iran per rispondere ad un attacco israeliano contro le sue centrali nucleari.

L’Arrow-3 rappresenta uno degli anelli fondamentali del sistema di difesa integrato anti-missile e anti-razzi che Israele e Stati Uniti continuano a sviluppare in Medio Oriente. Nelle scorse settimane Tel Aviv aveva annunciato l’operatività dell’Iron Dome (Cupola di Ferro) contro razzi di diverso calibro, che verrà dislocato a partire da novembre grazie anche ai 205 milioni di dollari messi a disposizione dal Congresso Usa su richiesta del presidente Barack Obama (un aiuto straordinario oltre i 3 miliardi di dollari che Washington versa annualmente a Israele).

Israele si prepara a schierare l’Iron Dome a nord, al confine con il Libano, e a sud nei pressi della Striscia di Gaza. Il sistema sorveglierà città fino a 120 mila abitanti per mezzo di missili che, guidati da un radar di ultima generazione, potranno intercettare e distruggere in volo «razzi-ostili», entro un raggio di 5-70 km. Una protezione di eccezionale importanza per Israele se si tiene conto che nel 2006, quando Tel Aviv attaccò in Libano, Hezbollah fu in grado rispondere colpendo l’intera Galilea con circa 4mila razzi katiusha.

Le perdite civili furono minime di fronte all’elevato numero di razzi piovuti nel nord del paese (i libanesi uccisi dai bombardamenti invece furono 1.200) ma i riflessi psicologici furono devastanti, con un milione di cittadini israeliani che abbandonarono le loro case per spostarsi nelle zone centro-meridionali del paese. Israele ha avviato la sperimentazione anche di un terzo sistema anti-missile/anti-razzo del quale al momento si sa poco ma che potrebbe diventare operativo già nei prossimi mesi.

Tel Aviv nel frattempo continua a lanciare avvertimenti sul ruolo dell’Iran nella regione, lasciando intendere che non esiterà, se lo riterrà necessario, ad usare la forza militare contro Tehran. Un editoriale apparso ieri sul quotidiano Haaretz, considerato il più autorevole di Israele, mette in guardia che il progressivo ritiro delle forze Usa dall’Iraq - Obama ha confermato che alla fine di agosto saranno ridotte a 50mila soldati - rappresenta una «minaccia» per la sicurezza di Israele ma anche dell’Arabia Saudita e della Giordania (paesi arabi «moderati» nei confronti dello Stato ebraico e alleati degli Usa).

Secondo Haaretz l’assenza di un nuovo governo iracheno e l’evidente debolezza del potere esecutivo in Iraq offrirebbero ampio spazio di manovra all’Iran che appoggia i due principali candidati alla carica di premier Nouri al-Maliki e Iyad Allawi. Baghdad, prosegue il quotidiano israeliano, senza l’occupazione Usa, aderirà all’«asse pro-Iran», con Siria e Turchia, e rappresenterà una minaccia anche per Arabia saudita e Giordania. Il primo ministro israeliano Netanyahu, conclude Haaretz, ha già espresso i suoi «timori» al Segretario alla difesa americano Robert Gates circa «l’emergenza proveniente dal nuovo fronte orientale».

di Manlio Dinucci

La Casa Bianca continua ad aumentare la pressione contro l’Iran per obbligarlo a cooperare in Afghanistan e in Irak. Mentre il Dipartimento di Stato ha avviato un blocco anti-iraniano tramite la risoluzione 1929, il Pentagono invia delle munizioni ad Israele e apre dei corridoi aerei per dare alla Tsahal la possibilità di colpire l’economia iraniana. Cederà Teheran davanti la minaccia?

L’Arabia Saudita non permetterebbe ai bombardieri israeliani di attraversare il proprio spazio aereo per colpire i siti nucleari iraniani: lo ha dichiarato il principe Mohammed bin Nawaf, inviato di Riyadh a Londra, smentendo la rivelazione di qualche giorno fa dal Times. Cessato allarme, dunque? Tutt’altro. Nessuno a Washington ha smentito l’informazione, da fonte del Pentagono, che l’attacco israeliano ai siti nucleari iraniani è stato «pianificato in accordo con il Dipartimento di stato statunitense», e che è previsto un altro corridoio aereo, soprattutto per l’attacco a Bushehr, attraverso Giordania, Iraq e Kuwait. E, al di là delle parole, sono i fatti a dimostrare che i preparativi di un attacco all’Iran si stanno intensificando.

Il ministro israeliano della difesa Ehud Barak, in visita a Washington, ha ottenuto altre grosse forniture militari, in particolare bombe «Jdam» della statunitense Boeing. Si tratta di ordigni ad alto potenziale che, con l’aggiunta di una nuova sezione di coda a guida satellitare Gps, possono essere sganciate a 60 km dall’obiettivo su cui si dirigono automaticamente. Recentemente sono state dotate di un sistema a guida laser, che le rende ancora più precise. Sono state usate, scrive il giornale israeliano Ha’aretz, nella seconda guerra del Libano nel 2006 e nell’Operazione piombo fuso a Gaza nel 2008.

Barak ha chiesto inoltre a Washington di aumentare del 50% i «depositi di emergenza» che l’esercito Usa ha costituito in Israele dallo scorso dicembre, su decisione dell’amministrazione Obama. Come documenta Ha’aretz, essi contengono razzi, bombe, munizioni per aereo, veicoli corazzati e altri armamenti, che vengono catalogati al momento dell’arrivo per assicurare un «facile e rapido accesso da parte israeliana».

Sicuramente, anche se non si dice, parte degli armamenti destinati ai «depositi di emergenza» arriva in Israele da Camp Derby, la base logistica dello U.S. Army: già da tempo, documenta Global Security, il 31° squadrone di munizionamento della base è responsabile anche di depositi situati in Israele, una sorta di succursale di Camp Derby che ha rifornito le forze israeliane per gli attacchi al Libano e a Gaza.

Tra quelle che gli Usa forniscono a Israele vi sono «testate pesanti penetranti», come le Blu-117 da una tonnellata, adatte per l’attacco ai bunker iraniani. Le stesse che da mesi si stanno accumulando nella base statunitense di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, dove sono stati trasferiti bombardieri B-2 capaci di penetrare le difese anti-aeree. Secondo Dan Plesch, direttore del Centro di studi internazionali dell’Università di Londra, «i bombardieri Usa sono già pronti a distruggere 10mila obiettivi in Iran in poche ore». E, dietro le dichiarazioni tranquillizzanti, l’Arabia Saudita sta potenziando i suoi 150 cacciabombardieri F-15 forniti dalla Boeing, con le più avanzate tecnologie che li rendono più efficaci negli attacchi notturni e pienamente interoperativi con le forze aeree Usa.


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