Matteo Salvini ci ha abituato a mille sproloqui insopportabili, ma quando parla di Russia non dice assurdità. Anzi, a volte sembra il bambino della favola di Andersen che urla “il Re è nudo”, manifestando l’evidenza che gli adulti fingono di non vedere. “Le sanzioni stanno alimentando la guerra – ha detto la settimana scorsa il leader leghista – molti imprenditori mi stanno chiedendo di rivederle. Ci stanno rimettendo gli italiani e guadagnando i russi, quindi a Bruxelles c’è qualcuno che ha sbagliato i conti”. E ancora: le sanzioni “non stanno funzionando, ripensare la strategia è fondamentale per salvare posti di lavoro e imprese in Italia”.

“Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Dice questo l’articolo 92, comma secondo, della Costituzione italiana. Non parla di “doveri” del Capo dello Stato, anzi: quando si tratta di formare il Governo, il nostro ordinamento concede al Colle un ampio potere discrezionale. Il vincolo ovviamente c’è: alla fine l’Esecutivo deve ottenere la fiducia dal Parlamento. Ma questo non significa affatto che il Presidente della Repubblica debba per forza indicare come Presidente del Consiglio incaricato il leader del partito che ha ottenuto più voti. Se così fosse, negli anni Ottanta non sarebbero entrati a Palazzo Chigi prima il repubblicano Giovanni Spadolini (81-82), poi il socialista Bettino Craxi (83-87), che, pur governando con la Dc (la formazione di maggioranza relativa nel pentapartito), misero fine al monopolio democristiano sulla Presidenza del Consiglio. Meno che mai Monti o Draghi, mai votati.

Come si conviene a chi è in testa ai sondaggi, in questa campagna elettorale Giorgia Meloni parla poco, ma quando apre bocca si produce in una serie di sfondoni. Vale la pena di sottolineare almeno tre contraddizioni: la prima sul piano interno, la seconda sul versante europeo, la terza su quello atlantico.

Per quanto riguarda i proclami di politica interna, stupisce soprattutto l’accanimento contro il reddito di cittadinanza. Della misura targa M5S si sottolineano sempre le storture – l’elevato tasso di frodi e il fallimento sul terreno delle politiche attive per il lavoro – fingendo di non vedere quello che il reddito di cittadinanza è in realtà: un sussidio di disoccupazione. Punto. È curioso quindi che Meloni ponga tanta enfasi sulla necessità di abolire la misura, ma poi si dimentichi di spiegare con cosa intenda rimpiazzarla.

Il programma di centrodestra se la cava con una frase liquidatoria: “Sostituzione dell’attuale reddito di cittadinanza con misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro”. Sarebbe il caso di entrare un po’ più nel dettaglio, perché la questione sociale è molto più complicata di così. Meloni sembra credere che la soluzione sia trovare un impiego a chi è in condizioni di lavorare e dare un sussidio a chi non può farlo: facile, lineare e sbagliato, come la maggior parte delle convinzioni di destra.

La vera questione è che circa il 7% delle famiglie con la persona di riferimento occupata era in povertà assoluta nel 2021, il 13% quando la persona di riferimento era operaio o assimilato. Precarietà lavorativa, salari bassi e part time involontario rendono il reddito da lavoro spesso insufficiente, soprattutto se deve bastare per più persone. Una leader di “destra sociale” queste cose dovrebbe saperle, ma la verità è che Meloni la componente sociale l’ha persa per strada alla fine dell’adolescenza. La sua destra sarà anche più aggressiva di quella in stile Berlusconi-Renzi-Calenda, ma di sicuro non è sociale: è liberista fino al midollo. E infatti, nello spiegare quanto le faccia schifo il reddito di cittadinanza, Meloni chiosa: “È l'ennesima riprova del fatto che avevamo ragione quando dicevamo che le risorse per le politiche attive andavano usate per aiutare le imprese ad assumere”.

Sul fronte europeo, invece, bisogna fare appello a un po’ di memoria storica. Si parla molto del presunto euroscetticismo di Meloni, della sua vicinanza a personaggi ripugnanti come Viktor Orban o a partiti da voltastomaco come Vox, ma spesso si dimentica che la leader di Fratelli d’Italia è anche una donna estremamente pragmatica, che ha sempre svolto con diligenza tutti i compiti a casa assegnati dalla Commissione europea. In un Paese meno incline alle amnesie non ce ne sarebbe bisogno, ma in Italia è il caso di ricordare fino alla noia che Meloni votò la fiducia al governo Monti e poi approvò in Parlamento il Fiscal Compact e il decreto Salva Italia. Significa che, fra l’altro, votò a favore del pareggio di bilancio in Costituzione e perfino della legge Fornero, la stessa contro cui va blaterando da anni come se non fosse anche lei nella schiera dei colpevoli. Un discorso identico si può fare anche per il regolamento di Dublino sui migranti: Meloni votò a favore anche di quello, salvo poi passare gli anni successivi a dipingerlo come un abominio prodotto da altri.

Infine, il piano atlantico. Se non meno ignorante, Meloni è senz’altro meno sprovveduta di Salvini e si rende conto che per arrivare a Palazzo Chigi è indispensabile il lasciapassare degli Usa. Il leader della Lega ha visto azzerarsi le sue possibilità di diventare premier nel momento in cui è andato a chiedere soldi ai russi. Meloni non ha commesso un peccato tanto grave, ma si è comunque compromessa con Trump, rendendo tutt’altro che scontato il placet dell’amministrazione Biden. Per questo ora prova a convincere la Casa Bianca rilasciando dichiarazioni da brava suddita dell’impero. In una recente intervista a Fox, Meloni ha garantito che l’atlantismo del suo governo di destra non sarà mai in discussione: “È fondamentale per la nostra nazione dimostrare serietà, lealtà, anche per poter meglio rivendicare i suoi interessi nello scacchiere internazionale”. Com’era la storia del sovranismo?

Dopo essersi fatto bullizzare perfino da Carlo Calenda, Enrico Letta può reclamare la palma di segretario più disastroso nella storia del Pd, che pure di flagelli ne ha conosciuti più d’uno. Nella mezzora di comizio davanti a Lucia Annunziata, il leader di Azione ha annunciato la rottura con la coalizione guidata dai dem, affermando di essere contrario alla politica di allargamento massimo delle alleanze portata avanti da Letta. In sostanza, il problema riguarda l’affiliazione di Fratoianni, Bonelli, Di Maio e altri ex grillini.

È probabile che Calenda si sia convinto a correre da solo perché i sondaggisti gli hanno spiegato che in questo modo prenderà più voti, attingendo in maniera più sostanziosa al bacino della destra che sa stare a tavola. Allo stesso tempo, però, è pur vero che con questo strappo Azione rinuncia a una buona fetta di collegi uninominali che l’alleanza col Pd gli avrebbe garantito e che ora non può più sperare di raggiungere. Il suo rimarrà forse un sogno elettorale di mezza estate, ma se il 25 settembre andrà a sbattere contro un muro, Calenda potrà almeno consolarsi pensando di aver dato di sé un’immagine coerente.

La campagna elettorale durerà pochissimo e non sarà seguita praticamente da nessuno, perché per la prima volta nella storia della Repubblica sarà balneare. Purtroppo, a questo dato di fatto si sommano altre due circostanze che non lasciano ben sperare: primo, dopo il voto del 25 aprile il numero dei parlamentari sarà dimezzato, in virtù della sciagurata riforma costituzionale tanto voluta dal Movimento 5 Stelle (che ne patirà le conseguenze più di molti altri); secondo, abbiamo in vigore una legge elettorale raccapricciante, che praticamente obbliga i partiti a riunirsi in coalizioni per non essere spazzati via nei collegi uninominali, con cui si assegnano un terzo dei seggi.

Ora, in questo scenario, bisogna fare i conti con i sondaggi, che potranno anche essere scarsamente attendibili – sia perché spesso vengono commissionati da parti interessate, sia perché negli anni hanno dimostrato di non azzeccarci quasi mai – ma sono anche l’unico strumento a disposizione per provare a fare qualche ragionamento.


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