Sono passate più di due settimane dalle elezioni politiche, ma del governo che verrà non si sa ancora niente. Nel frattempo, senza che a nessuno venga nemmeno in mente di alzare un sopracciglio, va in scena l’ennesima sgrammaticatura istituzionale: il governo Draghi rimane in carica, ma non si limita affatto agli affari correnti, come la Costituzione imporrebbe a un esecutivo in uscita. Tutt’altro. L’ex banchiere centrale continua a parlare in ogni sede a nome dell’Italia, partecipa ai vertici internazionali, prende decisioni attive tanto in politica interna quanto sul versante estero. E tutto questo, naturalmente, grazie al pieno sostegno del Presidente della Repubblica, che ha allestito questa transizione anomala per evitare vuoti di potere in una fase così delicata sotto vari profili: ci sono la legge di bilancio da scrivere, il Pnrr da rispettare e la partita sul gas da giocare a Bruxelles per contrastare la concorrenza sleale dei tedeschi.

Brava, tenace, popolare, aggressiva, astuta; le lodi per Giorgia Meloni, e per la sua irresistibile ascesa, si adagiano sul 26% di consensi raggiunto nella ultima tornata elettorale. Sono passati pochi giorni, eppure la sensazione che una frattura insanabile tra distopia e realtà sia molto più che uno spauracchio, si fa terribilmente strada.

La realtà distopica di una formazione post-fascista alla guida del paese, può trasformarsi in una realtà dispotica. Quanto di post e quanto di fascista ci sia nell’agenda di governo della coalizione che ha sbaragliato la concorrenza, avremo modo di sperimentarlo a breve. Di sicuro, l’affermazione di un partito che in così pochi anni dalla sua fondazione ha bruciato le tappe (e speriamo si limiti a quelle…) e che, soprattutto, conserva nel suo simbolo la fiamma di Predappio, si rivolge anche al 74% che non l’ha scelto.

Meloni vince e sarà la prima presidente del Consiglio donna nella storia della Repubblica. Salvini e Letta sono i grandi sconfitti e dovranno pagarne le conseguenze all’interno dei rispettivi partiti. Conte tiene in piedi il Movimento 5 Stelle molto meglio di quanto molti ipotizzavano fino a qualche mese fa. Berlusconi resiste, con Forza Italia che tallona la Lega ed è comunque decisiva per la maggioranza del centrodestra. Il Terzo Polo, infine, conferma di avere un ego più grande del proprio elettorato e, a dispetto del nome, arriva quarto: anzi, addirittura sesto se invece delle alleanze contiamo i partiti.

Questa la fotografia delle prime elezioni autunnali dal 1919 (l’ultima volta c’era il Re e il suffragio universale maschile era conquista recente), caratterizzate in partenza da due novità legate alla riforma costituzionale dell’anno scorso: il numero di seggi parlamentari ridotto di un terzo e l’estensione del voto al Senato a tutti i maggiorenni (prima bisognava avere almeno 25 anni).

A livello elettorale, gli elementi su cui riflettere sono due.

Il primo è la scarsa partecipazione dell’elettorato, con punte di astensionismo drammatiche al Sud. L’affluenza non è arrivata al 64%, rimanendo quasi 10 punti sotto il dato del 2018, che già era il record negativo dalla nascita della Repubblica. Il secondo è la volatilità degli elettori italiani: i pochi che ancora si recano alle urne cambiano cavallo da una legislatura all’altra con una disinvoltura sconosciuta nei decenni precedenti. E così Fratelli d’Italia passa dal 4,3% del 2018 al 26,4%, la Lega dal 17,4 al 9, Forza Italia dal 14 all’8, il Movimento 5 Stelle dal 33 al 15. L’unico stabile è il Pd, che nella sua mediocrità addirittura sale leggermente, dal 18 al 19%.

In termini politici, invece, non c’è dubbio che l’unica vincitrice di queste elezioni sia Meloni. Questo non significa però che avrà vita facile: eredita un Paese che viaggia verso una congiuntura economica negativa - fra il quarto trimestre 2022 e il primo del 2023 è probabile un ritorno in recessione tecnica - e dovrà gestire un inverno difficilissimo, in cui il razionamento del gas è una prospettiva più che concreta. Il tutto mentre l’Europa pretenderà il rispetto del Pnrr minacciando di chiudere i rubinetti degli aiuti europei (la famosa “pacchia” rischia di finire per noi, non per Bruxelles). Tradotto, significa che lo spazio di bilancio per mantenere le promesse elettorali non esiste, a meno di rinunciare ai 150 miliardi che ancora devono piovere sul nostro Paese dal Nex Generation Eu. E in questo scenario così complesso, c’è da scommettere che gli alleati di Meloni faranno poco per aiutarla. Anzi, potrebbero crearle più di qualche problema nei rapporti internazionali, a cominciare da quelli con gli Stati Uniti, che già faticano a perdonare il passato trumpista della nuova premier italiana.

Proprio per evitare sbandate filorusse, Meloni trama da tempo con i governatori leghisti del nord e con Giancarlo Giorgetti. L’obiettivo è orchestrare la defenestrazione di Salvini, che in effetti, visto il disastro elettorale, ha dato ai suoi avversari tutti i motivi per cacciarlo. È probabile però che questo processo non si risolverà in breve. Nel frattempo, essendo imputato nel processo Open Arms, il leader leghista può scordarsi di coronare il sogno di un ritorno al Viminale.

Se le dinamiche nel Carroccio sono ancora incerte, non altrettanto si può dire di quelle interne al Pd, dove un ribaltone appare ormai inevitabile. Enrico Letta ha confermato di essere il peggior segretario nella storia del partito (che pure di debacle ne aveva già conosciute più d’una).

Le ha veramente sbagliate tutte: non ha nemmeno provato a cambiare una leggere elettorale evidentemente mortifera per il suo schieramento; ha rinnegato l’unica alleanza che lo avrebbe reso competitivo, quella con il Movimento 5 Stelle, nel nome della cosiddetta “Agenda Draghi”, che nessuno nel Paese sa bene cosa sia e di cui a nessuno importa nulla; infine, ciliegina sulla torta, si è fatto sfilare voti perfino da Calenda, uno che è riuscito ad arrivare terzo nel suo collegio uninominale al centro di Roma (forse era a questo che si riferiva il nome “Terzo polo”). Insomma, Letta non solo non ha fatto nulla per vincere: ha fatto di tutto per perdere. Ora dovrebbe trarne le conseguenze e tornare a SciencePo per insegnare ai francesi tutti i modi più sbagliati di fare politica.   

Una caratteristica tipica dell’atlantismo di ferro è sempre stata il doppiopesismo: se a compiere una determinata azione sono gli Stati Uniti o i loro sherpa europei non c’è problema, tutto è legittimo e democratico; se la stessa identica azione viene compiuta da altri – leggi: rivali politici e/o economici di Washington – allora diventa un atto spregevole, esecrabile e illiberale. Di solito questo approccio presuppone una certa dose di malafede, ma da quando è iniziata la guerra in Ucraina è stato talmente esasperato da suggerire una qualche forma di dissociazione. Ormai gli atlantisti fondamentalisti non sembrano rendersi conto di ricadere nel peccato contro cui predicano e per questo si lasciano andare a toni sempre più sguaiati, ineleganti, perfino volgari.

La guerra in Ucraina ha prodotto una conseguenza inaspettata su Mario Draghi. Lo ha privato dell’unica caratteristica che tutti, amici e avversari, gli hanno sempre riconosciuto: un certo aplomb signorile e compassato, mezzo britannico e mezzo romano-gesuitico. Dopo sette mesi di conflitto, ormai, il nostro banchiere-premier si è trasformato in ultras atlantista più realista del re e più imperialista della Casa Bianca. Non perde occasione di proporre una visione manichea del mondo che a tratti sembra addirittura ingenua, infantile, in cui dalla parte sbagliata ci sono i russi cattivi e da quella giusta gli occidentali buoni. Con l’ovvio corollario che chiunque osi mettere in discussione questo schema così elementare viene etichettato come antidemocratico e connivente col nemico.


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