L’esordio politico del governo della Meloni lo si è avuto nel suo discorso d’insediamento al Senato. Tralasciando gli insulti all’opposizione - che ricordano l’eleganza della signora - i contenuti programmatici hanno immediatamente reso chiaro i tratti salienti del governo di destra appena insediato.

Il nuovo governo è la continuazione di quello precedente con altri mezzi e non c’è da stupirsi: il liberalismo è superato da crisi e guerre che tirano fuori l’essenza vera, repressiva e reazionaria, del capitalismo in crisi. E se definire quello della Meloni un governo fascista risulterebbe una esagerazione terminologica applicata ad un errore di lettura storica, altrettanto errato sarebbe definirlo democratico, basta coglierne i tratti. E’ stucchevole il dibattito sulla Meloni fascista o no. Certo che lo è, ed è perfettamente evidente che negli atti conferma quello che a voce smentisce.

Dopo un mese di teatrino, il Governo Meloni ha visto la luce e ora gli tocca fare i conti con una serie di grattacapi che nulla hanno a che vedere con la campagna elettorale. I problemi sono tanti: l’inflazione, a cominciare dal caro-energia; la legge di bilancio, da scrivere a tempi di record per evitare l’esercizio provvisorio; la flessibilità in uscita sulle pensioni, da inventare per evitare che le uniche regole in vigore rimangano quelle della legge Fornero; il PNRR da gestire (e, forse, da ridiscutere) senza compromettere l’afflusso di miliardi stanziati da Bruxelles per il nostro Paese e in parte già promessi ad amministrazioni locali e appaltatori vari.

Fino a qualche giorno fa la maggior parte degli italiani non aveva mai sentito parlare di Licia Ronzulli. Ora però scopriamo che questa senatrice forzista ha un ruolo cruciale nella commedia grottesca che si è sostituita alle trattative per la formazione del governo. È stata lei l’innesco della bomba che ha spaccato il centrodestra ancor prima che questo si trasformasse in maggioranza. E probabilmente sarà a causa sua che Berlusconi manderà in rovina quel poco che resta di Forza Italia. Ma andiamo con ordine.

L’ex Cavaliere pretendeva un posto per Ronzulli nel nuovo governo: qualsiasi ministero andava bene, purché una poltrona ci fosse. Meloni però ha rifiutato, mandando su tutte le furie l’ex Premier, che rivendica il diritto di decidere i nomi dei ministri forzisti. Così Berlusconi ha provato a forzare la mano di Meloni: “Se non dai un ministero a Ronzulli, non voto Larussa presidente del Senato”. Poi però il postfascista gutturale è stato eletto comunque grazie a una manciata di voti arrivati dall’opposizione (un giochetto che puzza di Matteo Renzi da chilometri di distanza) e l’ex Cavaliere è andato definitivamente in tilt. Si è perfino fatto beccare con un foglio in mano su cui aveva annotato cinque aggettivi per connotare l’atteggiamento di Meloni: “Supponente, prepotente, arrogante, offensivo, ridicolo”. Il sesto attributo lo ha aggiunto venerdì la diretta interessata: “Si è dimenticato di scrivere non ricattabile”. Gioco, partita, incontro.

In termini politici, le conseguenze più rilevanti di questo teatrino non riguardano il nuovo governo – che prima o poi vedrà la luce e otterrà senza problemi la fiducia in Parlamento – ma la parabola discendente di Forza Italia e del suo fondatore. Per Berlusconi il ritorno in Senato doveva essere una festa, ma è stato un disastro. Dalla pantomima della settimana scorsa a Palazzo Madama è uscito umiliato come un dilettante. E adesso, per di più, non ha margini per vendicarsi. Al contrario: deve giocare in difesa, impegnandosi per evitare scissioni e diaspore.

Non sarà semplice, perché Forza Italia è già spaccata in due. Da una parte l’ala Ronzulli, che chiede la linea dura con Meloni, dall’altra la corrente guidata da Antonio Tajani, che (mentre “studia da Alfano”, come dicono le lingue più velenose) vuole la pace a tutti i costi, perché la premier in pectore gli ha promesso il ministero degli Esteri. Questa contrapposizione interna rischia già da sola di tradursi in una scissione, o perlomeno in una fuga di alcuni parlamentari verso altri lidi. E la miccia potrebbe essere la prossima mossa di Berlusconi, che per la prima volta nella sua carriera si trova davanti a un bivio fra il male e il peggio: se abbassa la testa, Forza Italia si avvia a consumare i suoi ultimi anni come partito ancillare di Fratelli d’Italia; se la tiene alta, forse il partito esplode.

In questa situazione di stallo, Berlusconi attende una proposta da Meloni: potrebbe rinunciare al ministero per Ronzulli e accettare perfino il no ricevuto alla richiesta di avere la Giustizia, ma vuole come compensazione lo Sviluppo economico. Un’altra richiesta irricevibile per Meloni, che su quella poltrona vuole mettere l’amico di una vita, Guido Crosetto. La premier in pectore non va oltre l’offerta di quattro ministeri per Forza Italia, fra cui i più importanti rimangono gli Esteri per Tajani e la Pubblica amministrazione per Maria Elisabetta Casellati. Prendere o lasciare. E Berlusconi – che per tutta l’estate si è illuso di poter manovrare Meloni come fossimo ancora nel 2008 – l’unica alternativa è prendere.

Sono passate più di due settimane dalle elezioni politiche, ma del governo che verrà non si sa ancora niente. Nel frattempo, senza che a nessuno venga nemmeno in mente di alzare un sopracciglio, va in scena l’ennesima sgrammaticatura istituzionale: il governo Draghi rimane in carica, ma non si limita affatto agli affari correnti, come la Costituzione imporrebbe a un esecutivo in uscita. Tutt’altro. L’ex banchiere centrale continua a parlare in ogni sede a nome dell’Italia, partecipa ai vertici internazionali, prende decisioni attive tanto in politica interna quanto sul versante estero. E tutto questo, naturalmente, grazie al pieno sostegno del Presidente della Repubblica, che ha allestito questa transizione anomala per evitare vuoti di potere in una fase così delicata sotto vari profili: ci sono la legge di bilancio da scrivere, il Pnrr da rispettare e la partita sul gas da giocare a Bruxelles per contrastare la concorrenza sleale dei tedeschi.

Brava, tenace, popolare, aggressiva, astuta; le lodi per Giorgia Meloni, e per la sua irresistibile ascesa, si adagiano sul 26% di consensi raggiunto nella ultima tornata elettorale. Sono passati pochi giorni, eppure la sensazione che una frattura insanabile tra distopia e realtà sia molto più che uno spauracchio, si fa terribilmente strada.

La realtà distopica di una formazione post-fascista alla guida del paese, può trasformarsi in una realtà dispotica. Quanto di post e quanto di fascista ci sia nell’agenda di governo della coalizione che ha sbaragliato la concorrenza, avremo modo di sperimentarlo a breve. Di sicuro, l’affermazione di un partito che in così pochi anni dalla sua fondazione ha bruciato le tappe (e speriamo si limiti a quelle…) e che, soprattutto, conserva nel suo simbolo la fiamma di Predappio, si rivolge anche al 74% che non l’ha scelto.


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