Draghi ci ricorda, in questi giorni, la leggendaria Sora Camilla, che tutti vogliono ma nessuno si piglia. Avrebbe voluto approfittare da par suo dell’alquanto maldestro tentativo di Conte di porre dei paletti all’azione del suo governo, riaffermando la sua primazia assoluta. In tal modo avrebbe inferto un ulteriore colpo alla democrazia repubblicana, nella blanda forma rappresentativa che essa aveva assunto fin dal suo sorgere nel secondo dopoguerra ma che è stata via snaturata, depotenziando e svilendo il ruolo dei cosiddetti corpi intermedi, a cominciare dai sindacati, e dello stesso Parlamento e dei partiti. Alla fine però, per eccesso di tracotanza, si è sparato sui piedi, ma non è detto che questo esito gli dispiaccia, dato che traspare in modo evidente che voleva andare.

Nel tentativo di recuperare uno spazio di manovra politica, Giuseppe Conte rischia di condannare se stesso e il Movimento 5 Stelle all’oblio. Lo strappo arrivato la settimana scorsa - quando i senatori M5S hanno abbandonato l’Aula al momento di votare la fiducia sul decreto Aiuti - sa tanto di mossa della disperazione, e non è affatto a rischio zero. In teoria, la prospettiva migliore per Conte sarebbe quella di uscire dalla maggioranza senza far cadere il governo. In questo modo, i pentastellati potrebbero recuperare consensi (ormai ridotti al lumicino) imitando Giorgia Meloni, ovvero con il posizionamento strategico all’opposizione.

Se Draghi rimanesse coerente con la linea tenuta fin qui, questo disegno sarebbe destinato al fallimento. Il presidente del Consiglio ha sempre detto di volere una maggioranza non politica, ma d’unità nazionale, ossia la più ampia possibile: in questa prospettiva, la defezione di Fratelli d’Italia è stata considerata tollerabile, ma di certo non può esserlo quella del partito più rappresentato in Parlamento.

Giuseppe Conte si gioca in poche ore buona parte del proprio futuro politico. Dopo mesi di oblio, l’ex premier potrebbe tornare al centro della scena determinando la fine della legislatura e, forse, del Movimento 5 Stelle (o di quel che ne resta). Oggi, alle 16.30, il numero uno dei pentastellati incontrerà il suo successore a Palazzo Chigi, Mario Draghi, e porrà una serie di condizioni per continuare ad appoggiare il governo.  

Con il solito mezzo sorriso e il solito completo da matrimonio, Luigi Di Maio si è prodotto nell’ennesima capriola della sua carriera. Chi grida allo scandalo ha la memoria corta, perché, nella biografia del fu “ragazzo straordinario”, la scissione dal Movimento 5 Stelle non è affatto il capitolo più imbarazzante.

Parliamo di un uomo capace di chiedere l’impeachment di Sergio Mattarella per poi giurare (più volte) nelle sue mani. Un uomo capace di rendere omaggio ai gilet gialli per poi genuflettersi davanti a Macron. Un uomo capace di scagliarsi per anni contro l’Euro e l’Unione europea per poi riscoprirsi europeista radicale, atlantista di ferro, marionetta che consegna i suoi stessi fili a Mario Draghi. Un uomo capace di difendere “il limite dei due mandati” salvo poi spaccare il partito per dribblare quella stessa regola (ed evitare, si dice, una deroga che Conte avrebbe calato dall’alto solo in suo favore, con paterna magnanimità).

Ogni guerra porta con sé un certo grado di degenerazione cognitiva, che a sua volta produce, tra tanta immondizia, alcune aberrazioni in stile orwelliano. La fine che ha fatto il Copasir è un esempio perfetto di questo fenomeno. Nato nel 2007 dalle ceneri del Copaco, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica avrebbe il compito di controllare, a nome delle camere elette dal popolo, l’operato dei servizi segreti. A quanto pare, invece, ora il Copasir si è messo a fare tutt’altro, e cioè a indagare sui privati cittadini che osano dissentire dal governo in tema di guerra e relazioni internazionali.


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