Laura ha dovuto rinunciare un bel po' di cose solo per restare in vita: mobili, RFL, persino il suo cane. Però non è bastato. Ha dovuto immolare anche i mobili di casa per pagarsi l’insulina che serve al suo organismo per funzionare. La maggior parte delle persone produce l’insulina naturalmente. Ma Laura è affetta da diabete di tipo 1 e l’insulina deve andarsela a cercare nelle farmacie.

Perché non è come gli altri farmaci, si tratta di un ormone. Se una persona ha un alto livello di zucchero nel sangue può rischiare di perdere la vista e l’insulina impedisce che questo avvenga. Una fiala bilancia anche irregolarità cardiache e convulsioni.

Mentre in Occidente dilagano le preoccupazioni per i diritti delle donne nell’Afghanistan tornato in mano ai Talebani, è nello stato americano del Texas che per il momento l’allerta su questo fronte ha raggiunto livelli senza precedenti. Mercoledì è entrata infatti in vigore una nuova legge ultra-reazionaria che minaccia di cancellare quasi del tutto l’accesso all’interruzione di gravidanza. Il provvedimento rappresenta l’ultima e più estrema frontiera della battaglia degli anti-abortisti americani, decisi a liquidare un diritto sancito da quasi mezzo secolo da quella stessa Corte Suprema che questa settimana si è rifiutata di intervenire per sospendere la legge texana.

Il rapporto condotto negli ultimi tre mesi dall’intelligence degli Stati Uniti sull’origine del COVID-19 non è stato prevedibilmente in grado di trovare una sola prova concreta che supporti la teoria complottista della fuga del virus dal laboratorio cinese di Wuhan. L’indagine era stata commissionata a sorpresa dal presidente Biden nel mese di maggio, con l’obiettivo di alimentare un clima internazionale ostile al governo di Pechino, nonostante l’origine naturale del virus fosse stata in larghissima misura appoggiata dalla comunità scientifica e da una ricerca della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

“È inequivocabile che l'influenza dell’uomo ha riscaldato l'atmosfera, l'oceano e la terra. Si sono verificati cambiamenti diffusi e rapidi nell'atmosfera, nell'oceano, nella criosfera e nella biosfera". È questa la netta e terrificante dichiarazione che apre il  del Sesto Rapporto di Valutazione diffuso dall'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), organismo delle Nazioni Unite nato per fornire agli Stati membri informazioni riguardo allo stato delle conoscenze scientifiche, tecniche, sociali ed economiche sul cambiamento climatico, sui suoi impatti, sui rischi futuri e sulle possibili soluzioni.

Qual è il motivo di questa forte affermazione da parte dell’ONU, il più grande ed influente organismo sovranazionale del pianeta? E perché i governi sono così riluttanti a dichiarare lo stato di emergenza e ad attuare misure drastiche per affrontarlo?

Siamo a meno di 100 secondi dalla mezzanotte, l’ora più buia per l’essere umano, l’impronta della nostra specie è ormai ovunque sulla Terra, ce lo dice il nuovo rapporto IPCC: grazie a nuove tecniche di misurazione, analisi e simulazioni si è potuto stabilire oltre ogni ragionevole dubbio che l’essere umano sta modificando il clima globale con una rapidità senza precedenti, mai vista in più di 100.000 anni.
L’aumento esponenziale di gas serra quali anidride carbonica (284ppm nel 1850 e 414.60ppm nel 2021), metano (774ppb nel 1850 e 1,888.5 ppb oggi) e ossido di diazoto (270ppb nel 1850 e 332ppb adesso), unito a deforestazione, urbanizzazione incontrollata e destabilizzazione degli ecosistemi, della criosfera (ovvero i ghiacciai perenni) e degli oceani, hanno scaraventato l’intero pianeta in un’epoca dove incertezza e sofferenza regnano sovrane.

La soglia di vari punti di non ritorno è ormai stata sfondata dall’aumento dei gas climalteranti. Le attività umane e in particolare l’uso di combustibili fossili sono responsabili del riscaldamento medio di 1,1°C già raggiunto. Gli ultimi quattro decenni sono stati i più caldi mai registrati in ogni parte del globo, mentre la quantità e qualità dei ghiacciai (ciò il loro spessore e la loro composizione) viene compromessa e di conseguenza indebolisce la loro capacità di riflettere i raggi solari.
L’impronta dell’essere umano ha influenzato la diminuzione della neve nell’emisfero nord, destabilizzando le comunità locali e gli ecosistemi.
Anche gli oceani, importantissimi regolatori del clima che assorbono circa il 50% delle emissioni di CO2, non sono stati risparmiati dall’aumento esponenziale delle temperature: lo strato superficiale delle loro acque salate si è riscaldato e di conseguenza si è innescato un processo di acidificazione che a sua volta ha creato zone con basso livello di ossigeno, le cosiddette “zone morte”, veri e propri cimiteri del mare.
Ora le maggiori correnti oceaniche che portano l’acqua calda dai tropici fino ai poli rischiano di collassare, rallentare o addirittura bloccarsi a causa dell’aumento esponenziale di temperatura: questo singolo evento, da solo, comporterebbe uno stravolgimento immediato e drammatico di un clima già martoriato.

 

Il cambiamento climatico indotto dall'uomo influenza molti eventi meteorologici e climatici estremi

Lo struggente report continua affermando che è ormai certo che la frequenza e l’intensità di eventi meteorologici estremi è aumentata. Non solo i fenomeni sono più accentuati ma durano anche più a lungo. Temperature estreme, precipitazioni che diventano alluvioni, siccità, non solo andranno man mano ad intensificarsi sempre di più ma dureranno anche per periodi più lunghi. Temperature oltre la media stanno già causando incendi e devastando foreste, case, stanno uccidendo esseri umani ed animali e tutto ciò che gli si para davanti in ogni parte del mondo. Mentre i mari, divenuti più caldi, espongono anche zone del globo come l’Europa a pericoli tropicali: gli uragani.

Sofferenza, malattie e morte portate da questi eventi e dal degrado ambientale sono già senza precedenti, e tutto ciò sta avvenendo con un aumento di 1.1°C, mentre la probabilità che 1,5°C (considerata la soglia sicura) di riscaldamento venga raggiunto fra meno 10 anni è superiore al 50%.

La strada in cui in nostri decisori politici hanno deciso di metterci ci porterà ad uno sconvolgimento totale della società e della vita di tutti i giorni. Basti pensare alla maggiore facilità con cui si innescheranno migrazioni di massa, guerre e pandemie.
L’aumento delle temperature sta infatti rendendo inabitabili molte zone del pianeta a causa della siccità, mentre altre, vicine alle rive dei mari o dei laghi, saranno parzialmente sommerse a causa dell’innalzamento del livello dell’acqua determinato dallo scioglimento dei ghiacciai.

Questo costringerà grandi comunità o intere popolazioni a spostarsi alla ricerca di luoghi in cui vivere, inducendo di conseguenza i loro governi a cercare nuove terre, anche al di fuori dei propri confini nazionali, creando dispute su zone più abitabili e meno esposte agli eventi estremi. Tali conflitti si trasformeranno spesso in guerre, e da ciò se ne deduce che non verranno tagliate le spese militari, strategiche per la tenuta dei confini o la conquista di nuove terre, sottraendo così altre risorse agli aiuti sociali ed alla ricerca ambientale.
Inoltre l’ammasso di popolazioni in aree più piccole e segnate da una povertà più diffusa abbasserà notevolmente il livello delle condizioni igieniche e della profilassi minima causando più frequentemente malattie di origine virale che tenderanno a diffondersi con più rapidità che nel passato.

Eppure i governi continuano nella loro colpevole inazione malgrado vengano messi di fronte a questo terribile quadro. O forse dovremmo chiamarlo specchio? Non sono forse loro, con le loro politiche, ad aver determinato la situazione in cui ci troviamo in questo momento? Non l’hanno forse fatto lucidamente, con la deliberata volontà di produrre questi risultati? Non si sono palesemente dimostrati incuranti delle conseguenze per la vita sul Pianeta?

Peter Kalmus, scienziato del clima che lavora per la NASA, si dice terrorizzato da quanto sta per arrivare e pochi minuti dopo aver letto il Report di IPCC ha dichiarato:
“O abbandoniamo immediatamente il capitalismo come sistema dominante della nostra organizzazione sociale, o sarà la Fisica a farlo per noi. Non c’è una terza opzione.”
Ecco, è questo il punto. Immediatamente.
Le azioni di contrasto al problema devono arrivare nei momenti immediatamente successivi alla ufficiale e dichiarata esposizione del problema e non possiamo accettare, né scientificamente né tanto meno moralmente, che se ne parli solo tra capi di governo, in occasioni sporadiche e senza il senso dell’urgenza.
G7, G20 o COP26. Da cosa sono determinate, in questi consessi internazionali, le trattative tra gli stati? Da una corsa dallo spirito olimpico a chi taglia prima e meglio le emissioni di CO2? O forse da accordi che facciano apparire le deboli decisioni prese come straordinarie in modo da sollevare le parti in causa da responsabilità per un altro ragionevole lasso di tempo, giusto perché non perdano consenso elettorale e profitti per le aziende che rappresentano?
Sì, questo è un altro punto che non si può ignorare: i governi non rappresentano più i cittadini che li hanno eletti ma sono solo portavoce istituzionali di grandi aziende, della loro fame di potere mediatico e della loro sete di danaro.
Già nel 2017 il Carbon Majors Report redatto da Paul Griffin ci diceva che a produrre il 71% delle emissioni globali di carbonio sono solo 100 aziende.
Gli Stati Uniti d’America, presi per troppi decenni come modello di riferimento nell’organizzazione sociale mostrano un dato anch’esso inequivocabile: l’1% della popolazione possiede più ricchezza del restante 92%. Un disastro.
Il Report IPCC conferma dunque quanto scienziati e mondo dell'ambientalismo si attendevano, ma con i suoi toni così "ufficialmente" catastrofisti ci pone dinanzi ad una sfida che non è solo ambientalista e che può essere vinta solo ripristinando principi cardine di giustizia e meritocrazia e reperendo le risorse economiche necessarie direttamente dai grandi fatturati, in un’ottica di equa redistribuzione dei profitti.

Coautore dell'articolo Domenico Barbato e Manlio Pertout
Illustrazione  Martha Stephens

Fonte: https://thehumanexploringsociety.life/2021/08/14/code-red-for-humanity/

Le Olimpiadi di Tokyo hanno messo in luce un brutto guaio legato alla retorica sportiva. Non c’entra lo sciovinismo da competizione: fare il tifo insieme è bello e, quando va bene, lo è anche esultare. Il problema inizia in sala stampa, con le interviste agli atleti. Chissà perché, quasi tutti i vincitori si sentono in dovere di trarre una qualche conclusione filosofica dal proprio successo. E il concetto che esprimono è più o meno sempre lo stesso: “Questa medaglia dimostra che se ci credi tutto è possibile”.

Di sicuro gli sportivi dicono questa frase con sincerità e convinzione. Purtroppo, però, rimane una frase sbagliata, per non dire una fesseria. La retorica del “getta il cuore oltre l’ostacolo” è un grande inganno in molti campi dell’esistenza, ma paradossalmente ha più successo proprio nell’ambito in cui la sua falsità è più manifesta: lo sport. 

Basta rifletterci un attimo: sei hai le articolazioni fragili, non vincerai l’oro nei 100 metri piani. Se soffri d’asma, non diventerai un campione di stile libero. Se sei alto un metro e sessanta, non schiaccerai mai a canestro. Non importa quanto lo desideri, quanto ti alleni, quanto ci credi. È impossibile e basta, per un motivo brutale quanto ovvio: le condizioni fisiche di partenza non sono uguali per tutti.  

Ma andiamo oltre. A pensarci bene, anche quando i mezzi fisici sono comparabili, il successo di un atleta può essere determinato da fattori imperscrutabili. Immaginiamo due nuotatori che toccano la fine della corsia a un centesimo di secondo l’uno dall’altro. Il tizio che arriva in ritardo ci ha creduto meno del primo? Si è allenato meno duramente? Ha fatto meno sacrifici? Probabilmente no, ma ha perso lo stesso. 

Questo non significa che le medaglie si vincano solo per superiorità genetica o per fortuna: bisogna anche essere motivati e lavorare sodo. Grazie tante. Il punto è che determinazione e impegno sono condizioni necessarie, ma, da sole, non sufficienti a garantire il successo. Lo sappiamo tutti, in fondo, è dannatamente ovvio, ma ci piace lo stesso pensare che “basta crederci e tutto è possibile”.

Ecco, siamo arrivati al punto della questione. Perché ci piace tanto pensare che “volere è potere”? In effetti, questo genere di retorica si estende ben oltre l'ambito sportivo. Ce la propinano per tutta la vita in messaggi esaltanti, che si presentano come discorsi motivazionali ma in realtà sono marketing (abbigliamento, prodotti per il corpo, automobili, perfino società che vendono luce e gas).

Eppure, la retorica del “se lavori sodo ce la fai” è in realtà il contrario di un discorso motivazionale. È una frase reazionaria, tesa al mantenimento dello status quo. Chi ha di più colpevolizza chi ha di meno per tenerlo dov'è: “Se non ce la fai - è il messaggio - la responsabilità è solo tua: non ci hai creduto abbastanza, non hai lavorato abbastanza”. E per rendere la lezione più convincente, i pochissimi che dal basso riescono a salire (spesso estratti a sorte) vengono esaltati come eroi, come prove viventi che la società in fondo è giusta, perché “se ci credi tutto è possibile”.

Questo show è un trucco per nascondere la realtà, e cioè che la realizzazione personale è spesso impedita da barriere economiche, sociali e culturali che nessuno intende rimuovere né mettere in discussione. Il risultato è che nove volte su 10 il successo è appannaggio di chi parte dalle condizioni migliori: per loro, la frase “volere è potere” ha molto più senso.


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