La dimensione locale, per la sua capacità di intercettare e far incontrare i bisogni specifici e le opportunità presenti nei singoli territori, è fondamentale per la riuscita dell’inclusione socio-lavorativa dei rifugiati in Italia. Attraverso quindici esperienze, messe in campo da nord a sud dello Stivali, Ismu nel paper “L’inclusione socio-lavorativa dei rifugiati: il dinamismo della società civile”, ne ha ricostruito l’efficacia (prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni normative in materia di sicurezza e immigrazione).

 

Sono pratiche impostate nella prima fase di permanenza in Italia, cruciali per il successivo sviluppo di inclusione, a partire dal 2014: in Toscana e in Sicilia, per esempio, sono state realizzate esperienze di gestione dell’accoglienza orientate a promuovere un forte radicamento nei territori ospitanti dei richiedenti asilo, attraverso l’attivazione di una rete territoriale di supporto e interazione.

 

A Monza e in Brianza, è stato sviluppato un modello caratterizzato da sinergie, integrando i servizi previsti dal bando ministeriali con un fondo di solidarietà locale che ha accantonato un euro al giorno per ogni migrante preso in carico. A questi, si aggiungono percorsi strutturati di orientamento alla ricerca attiva del lavoro, nella città di Bologna.

Altre iniziative mirano a raggiungere una terza accoglienza, indirizzandole alla delicata fase di transizione dalla situazione di tutela all’interno degli SPRAR e dei CAS alla piena autonomia. Una fase non ancora disciplinata dalla legge italiana e perciò non contemplata nel sistema di accoglienza nazionale se non dagli enti gestori dell’accoglienza, dalle aziende interessate, dai servizi per l’impiego e dalle istituzioni locali, che fungono da regia.

 

Promuovere l’occupabilità tramite un percorso di empowerment è l’obiettivo di questi approcci, con l’ambizione di poterli replicare in nuovi territori e con nuovi target di riferimento. Entrambe le prassi, consentendo ai soggetti coinvolti di rimettersi in gioco e di riscoprire potenzialità e competenze, hanno una valenza importante per il rafforzamento dell’autostima e la partecipazione attiva.

 

Alcuni progetti, in quest’ottica, adottano sistemi integrati nel sostegno alla persona per il superamento di fragilità personali: si possono contare, infatti, iniziative ritagliate sulle esigenze delle donne migranti, come quelle promosse a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio, che le sostiene tramite intense attività di sostegno psico-sociale e di formazione linguistica.

 

Finalizzati a promuovere opportunità di impiego degne è il progetto, attivato in Piemonte, Emilia Romagna e Calabria dall’UNHCR, che richiede alle aziende interessate l’adesione a una carta etica per il rispetto dei diritti dei lavoratori rifugiati.

 

E, però, il dinamismo della società civile soffre del non essere inquadrato in una strategia organica e in un’ottica di sistema: le buone pratiche si sviluppano a macchia di leopardo, le acquisizioni conseguite rischiano di restare circoscritte alla singola esperienza senza poter contaminare l’intero territorio nazionale e, soprattutto, incontrano una serie di farraginosità amministrative o disfunzioni del sistema burocratico, soprattutto in riferimento all’attivazione da parte delle aziende partecipanti ai progetti di tirocini e assunzioni.

 

Un’ulteriore criticità risiede nella forzata interruzione dei percorsi di inserimento, a causa dell’avvenuto diniego della domanda di protezione, vanificando i risultati di inserimento raggiunti.

Mentre poco meno della metà del volume dell’acqua prelevata alla fonte non raggiunge gli utenti finali a causa di dispersioni idriche, undici città capoluogo italiane sono interessate a misure di razionamento e due milioni e settecentomila famiglie lamentano irregolarità nell’erogazione. In occasione della Giornata mondiale dell’acqua, l’Istat tira le somme del suo uso e consumo in Italia.

 

Che, nell’Unione europea, è il primo stato per il volume di acqua prelevato per uso potabile: l’erogazione giornaliera per abitante del Belpaese ammonta a duecentoventi litri. E se al Nord, nove famiglie su dieci si dicono molto soddisfatte del servizio idrico di cui dispongono, nelle Isole sono sette su dieci e otto su dieci nel Centro e nel Sud. C’è, poi, una quota di nuclei famigliari che si discosta di gran lunga dalla media nazionale: in Calabria sono oltre il 26 per cento, in Sardegna, il 24 per cento e in Sicilia, il 27 per cento.

Per la Convenzione delle Nazioni Unite sussiste un distinguo fra due terminologie: human traffiking (tratta degli esseri umani) e migrant smuggling (traffico di migranti), riferendosi a una sola tipologia di criminalità organizzata transnazionale nella quale non si esclude il collegamento tra due fenomenologie.

 

E' estremamente complicato smantellare le organizzazioni di trafficanti, lo è molto di più rispetto alle associazioni a delinquere di stampo mafioso: ne è convinto Maurizio Scalia, ex Procuratore aggiunto di Palermo, che più volte ha coordinato indagini su scafisti responsabili della morte per decine di profughi nel Canale di Sicilia, durante le traversate. Ciò nonostante, dietro l'enorme giro di vite  barattate da un punto all'altro dell'Africa fino alle coste del Mediterraneo, qualcosa siamo riusciti a capire.

 

Tratta e traffico permangono giuridicamente concetti distinti, una differenza che pare ormai superata dagli eventi. Le organizzazioni criminali sviluppano canali “umani” allo stesso modo con cui manovrano illecitamente armi, droga, auto rubate, attraverso l'impiego di medesimi metodi, rendendo complicato individuare una o un'altra situazione.

 

Questa labilità giuridica rende ancor più tortuosa l'attività investigativa: se nella tratta di esseri umani resta implicito il concetto di reclutare persone dal loro territorio, con coercizione e violenza al solo scopo di profitto (laddove il trafficante includa sfruttamento sessuale, lavorativo o espianto d'organi, in sostanza applicando una vera e propria forma di moderno schiavismo), per “traffico”  - o contrabbando - di migranti, s'intende invece l'ottenere implicitamente vantaggi materiali o finanziari dal trasporto illegale di persone da un Paese a un altro.

 

A ridosso delle coste nordafricane fino alle porte dell'Europa, le organizzazioni di trafficanti che gestiscono questi viaggi pianificano le traversate su mezzi che, già alla partenza, versano in condizioni precarie, in modo da rendere doveroso l'azione di soccorso sollecitata, non di rado, nei tratti di mare ancora poco distanti dal porto d'imbarco.

 

A Sabrata, in Libia, ottanta chilometri a ovest di Tripoli, punto di partenza per migliaia di migranti che tentano la traversata verso l'Europa, un al-jorf, un promontorio, una sorta di baia si trasforma in fossa comune all'indomani d'ogni naufragio. Un altro cimitero sorge in terra di nessuno, trenta chilometri più a sud: è qui che imperversa il business del traffico degli esseri umani su cui alcuni personaggi noti al Dipartimento anti migrazione libico e agli investigatori internazionali, hanno fondato un impero economico.

 

Come Ahmed Dabbashi, (o Al-Ammu, come si fa chiamare), ex combattente “eroe” contro le forze dell'ex regime di Muammar Gheddafi, convertito al remunerativo traffico di migranti grazie al quale sembra aver accumulato una fortuna, al punto da formare la più potente milizia locale,  aggiudicandosi il controllo anche per l'impianto dell'Eni, Mellitah Oil&Gas, a quaranta chilometri da Sabrata. Suo diretto concorrente è il dottor Mussab Abu Ghrein, che pare abbia lavorato benissimo con i migranti subsahariani stipandone a centinaia in vari alloggi sparsi alla periferia della città, fra cui molti bambini; la fetta più consistente di denaro, però, spettava alla guardia costiera libica.

 

La stessa cui l'Unione Europea aveva chiesto di fermare la tratta, la stessa finanziata con fondi dell'Ue, ufficialmente incaricata dal comando centrale al pattugliamento, mentre sono stati proprio i suoi alti graduati a regolarne traffici e dividerne guadagni. Secondo una fonte militare libica sopravvissuta a due attentati, a capo di questo affare infernale c'era Al-Bija, al secolo, Abdurahman Milad, ex comandante deferito della guardia costiera di Zawiya, attualmente indagato dagli ispettori ONU, con conti congelati (solo nel 2016 la torta ammontava a 2 miliardi) e restrizione negli spostamenti.

 

Secondo l'organo di controllo Frontex, i guadagni scaturiti dal traffico dei migranti - insieme a quello d'esseri umani a fini di sfruttamento sessuale e lavorativo - hanno superato il ricavo netto per  traffico d'armi e droga. Inoltre, i “negoziatori” farebbero sempre più ricorso a Facebook. Attraverso il social media, essi pubblicizzano “i servizi” e i prezzi, organizzando luoghi e tempi di viaggio: un business coordinato su scala globale.

 

Dunque, questi sono i fatti nudi e crudi, ma come uscirne? Se gli europei, al riguardo, non hanno le idee chiare, gli africani, probabilmente, sì. Con la premessa che i flussi migratori sono sempre esistiti e che ad essi non bisogna opporsi, perché è nella natura dell'uomo muoversi da un territorio all'altro per conseguire una vita più sicura e accettabile, e riaffermato che ciò resti un diritto inalienabile per ogni essere umano, si resta convinti che tali flussi debbano essere accolti con regole di civiltà, secondo valori laici e democratici.

 

Tuttavia, qui non parliamo del fenomeno legato all'immigrazione tout court e nemmeno degli “sbarchi” in quanto tali, bensì di una potente rete criminale che si avvale di connivenze negli apparati statali di vari Paesi. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il principio d'umanità, tanto meno con qualsivoglia senso “illuministico” legato all'accoglienza. Una diatriba in corso, orchestrata da due forze politiche - una all'opposizione, l'altra al governo - divide nettamente l'opinione pubblica, malgrado in queste due circostanze allo stesso modo drammatiche - migrazione regolare e traffico d'esseri umani - persiste una sostanziale differenza.

 

“Il traffico di esseri umani nel mondo frutta 150 miliardi di dollari alle mafie, di cui 100 miliardi vengono dalla tratta degli africani. Ogni donna trafficata frutta alla mafia nigeriana 60 mila euro. Trafficandone 100mila in Italia, la mafia nuove un giro di 600 milioni di euro l’anno. Nessun africano verrebbe di sua volontà, se sapesse la verità su cosa lo attende in Europa. Non mi infilo nell’eterna guerra civile italiana basata su fazioni e non contenuti, ma da afro discendente italiano e immigrato ora negli Stati Uniti, credo sia arrivato il momento di parlare e trattare l’immigrazione o meglio la mobilità come un problema e fenomeno strutturale che ha vari livelli e non come uno strumento per fare politica o da trascinarsi come i figli contesi di due genitori che li usano per il loro divorzio come arma di ricatto (…).”

 

La lettera del regista italiano d'origine ghanese, Fred Kuwornu, resa nota su vari quotidiani nazionali, può dirla lunga sulla realtà dei fatti, di come tutto cominciò sfruttando l'emotività psicologica dei primi naufragi sui gommoni, proseguendo come stimolo a un esodo dall'Africa, dall'Asia, violando sistematicamente ogni norma per la tutela della vita, creando traffici di droga e prostituzione, danneggiando per di più, la condizione economica nei paesi di provenienza.

 

Come sappiamo, dalle “carrette del mare” si è presto passati alle strapagate navi delle ONG, per consentire un trasbordo più sicuro alle flotte di migranti: ma anche in questo caso, Kuwornu ci va giù pesante. Secondo il regista italo-ghanese, le ONG insieme alle associazioni umanitarie impegnate a favorire gli imbarchi, nonché all'intreccio d'aziende locali, settori corrotti della Marina e intrallazzatori vari, forniscono una copertura a uno dei più grandi e complessi traffici criminali dell'era moderna.

 

Il parallelo è semplice: se esistono traversate, sbarchi e morti nel Mediterraneo è perché si consente a largo raggio il traffico degli imbarchi; un lavoro sporco gestito alla base d'associazioni criminali a scopo di lucro, con imbarcazioni che, spesso, agli inizi, erano “gentilmente” restituite affinché i trafficanti potessero continuare indisturbati la loro tratta. Ciò non vuol dire che non si debbano accogliere coloro che arrivano stremati sulle coste della Sicilia, è fuori discussione. Vuol dire che si deve impedire che avvengano gli imbarchi e per farlo non affidarsi alle galere libiche, ma ad una task force che coinvolga più unità transnazionali dirette dall'ONU, vuol dire, soprattutto, intervenire duramente nei luoghi dove si originano gli imbarchi, annientando “fisicamente” le imprese criminali che gestiscono il traffico.

 

Ancora Kuworno: “ (…)  Io non so se lei ha mai vissuto o lavorato nell’Africa vera e che Africani conosce in Italia o se da giornalista si informa su testate anche non italiane, ma il traffico di esseri umani con annessi accessori vari (bambini, organi, prostituzione), non è un fenomeno che riguarda solo l’italietta dei porti sì o porti no, ma è un fenomeno globale che fattura alle mafie africane, asiatiche, messicane, 100 - e ripeto 100 - miliardi di dollari l’anno. Soldi che non vengono certo redistribuiti alla popolazione povera di questi paesi, ma usati per soggiogarla ancora di più con angherie di ogni genere, destabilizzarne i già precari equilibri politici, reinvestirli in droga e armi.

 

Si è mai chiesto perché, a parità di condizioni di povertà e credenza che l’Europa sia una bengodi, quelli che arrivano da Mozambico, Angola, Kenya sono pochissimi, o quelli che arrivano dal Ghana (il Ghana che è il mio Paese d’origine ha una crescita del PIL del 7% e una situazione di assenza di guerre e persecuzioni), provano a venire?Perché esiste una cosa chiamata Mafia Nigeriana e pubblicizza nei villaggi che per 300 euro in 4 settimane è possibile venire in Italia e da lì se vogliono anche in altri Paesi Europei. Salvo poi fregarli appena salgono su un furgone aumentandogli all’improvviso la fee di altri 1000 $, la quale aumenta di nuovo quando arrivano in Libia dove gliene chiedono altri 1000 dollari per la traversata finale. Il tutto non in 4 settimane come promettono, ma con un tempo di attesa medio di un anno.

 

In questo ci aggiungo minori che vengono affidati a donne che non sono le loro veri madri, che poi spariranno una volta sistemate le cose in Europa e di centinaia di altre donne che saranno invece dirottare a fare le prostitute, ognuna delle quale vale 60 mila euro d’incasso per la mafia stessa. Solo trafficandone 100.000 verso l’Italia la mafia nigeriana muove un giro di affari di 600 milioni di euro l’anno.

 

A questo si somma quello che perde l’Africa: risorse giovani. Ho conosciuto ghanesi che hanno venduto il taxi o le proprie piccole mandrie per venire in Europa e ritrovarsi su una strada a elemosinare o a guadagnare 3 euro l’ora, se gli va bene, trattati come bestie e che non riescono neanche a mettere ovviamente da parte un capitale come era nei loro progetti. E anche se desiderano tornare non lo faranno mai per la vergogna perché non saprebbero cosa dire al villaggio, non saprebbero come giustificare quei soldi spesi per arrivare in Europa, anzi alimentano altre partenze facendosi selfies su Facebook, che tutto va bene per non dire la verità per vergogna e quindi altri giovani (diciottenni, non scolarizzati), cercano di venire qui perché pensano che sia facile arricchirsi. Che senso ha sostenere che questo traffico di “schiavi” e questa truffa criminale della mafia nigeriana, come quelle asiatiche in Asia, deve continuare? (…).

 

Gli ultimi gommoni a rischio affondamento (partiti subito dopo che il governo ha chiuso i porti alle ONG), erano in un certo senso, “previsti” dai trafficanti (la notizia è stata data per certa dal Corriere della Sera). Sono criminali che conoscono benissimo l'enorme portata emotiva e l'effetto psicologico che la morte in mare produce sull'opinione pubblica; del resto è proprio con questo metodo, naufragi più o meno programmati  con uomini, donne e bambini a bordo, che tutto ebbe inizio.

 

E se dunque il sogno di lasciare l'Africa e l'Asia per raggiungere l'Europa è antico quanto il colonialismo che ha impoverito questi continenti, la ramificazione di un traffico internazionale dietro esborso di cifre altissime senza passare per dogane, aeroporti con documenti alla mano, resta invece un fenomeno che si è allargato a dismisura in pochi anni. Per chi arriva in Libia, dopo settimane o addirittura mesi di sofferenze e non ha soldi per pagare gli extra richiesti, nell'impossibilità di tornare indietro, non resta altro che la schiavitù nei campi profughi e in altri lager, anche questi gestiti da bande più o meno legali, se non da altri sfruttatori.

 

Sicuramente migliore rispetto a venticinque anni fa ma, di certo, ancora lontana dalla parità di diritti, la condizione delle donne, nel 2019 e secondo uno studio globale IPSOS Mori, rappresenta una sfida ancora aperta verso il superamento del gender gap.

 

Per il 40 per cento degli italiani sono molte le questioni da risolvere per raggiungere una completa parità di genere: quella più lunga e tortuosa è l’accesso ai ruoli apicali in politica e nel mondo del lavoro, senza trascurare la parità nella cura della casa e dei figli. Dimensioni, queste, che nelle previsioni degli italiani sono avvolte dall’alone più scuro: gli abitanti del Belpaese sono poco (o niente) fiduciosi relativamente alla prospettiva di colmare il gap di genere nei settori citati.

Oltre il perimetro giuridico dell’istituto della cittadinanza, è invisibile l’esistenza di un abitare migrante, sotto il cui tetto si nasconde una complessità che travalica la prospettiva dell’alloggio come spazio fisico e raggiunge il concetto di casa come “nodo di molteplici interazioni e come possibilità di accedere agli spazi della vita urbana”, si legge nel report “Geografie dell’abitare migrante e diritto alla città”, redatto da Actionaid.

 

Da un punto di vista generale, il problema italiano non è l’assenza di alloggi ma l’incalzante corsa alla proprietà privata che esclude drammaticamente le persone vulnerabili con l’aggravante del progressivo restringimento delle politiche abitative pubbliche. “In questo scenario - dice il report - i migranti rappresentano una fascia particolarmente debole della domanda abitativa in Italia”.

 

Per la condizione di svantaggio economico che li inquadra nelle fasce più basse della stratificazione dei redditi e per la posizione sociale e giuridica, ai migranti viene riservato il settore più degradato e inadeguato del patrimonio abitativo, sia per gli spazi sia per le caratteristiche strutturali degli immobili che, altrimenti, non potrebbero essere collocati sul mercato.

 

Sebbene in Italia sia difficile “riscontrare situazioni di vera e propria segregazione residenziale”, ciò non esclude la presenza di processi di ghettizzazione e marginalizzazione: perché alle dinamiche di concentrazione abitativa si associano pratiche pubbliche e discorsi politici fortemente “razzializzanti”.

 

Dal decreto Sicurezza e immigrazione in poi, infatti, la “rinegoziazione al ribasso degli standard di accoglienza, le lungaggini del processo burocratico di valutazione della richiesta di asilo, la residualità di percorsi di reale inclusione e la difficoltà nel raggiungimento dell’autonomia per le persone in uscita dall’accoglienza” aumentano i cittadini stranieri esposti ai rischi del disagio abitativo.

 

Sul quale, seppure non esistano tanti studi al riguardo, riferibili a richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, la tendenza alla crescita di situazione abitativa informale è elevata.

 

Oltre ai noti ghetti del sud Italia e alle baraccopoli vicino ai CARA, sono proliferate sistemazioni informali, soprattutto fra coloro che sono usciti dal sistema di accoglienza istituzionale privi di strumenti di orientamento nel mercato della casa o mossi da percorsi di rivendicazione di diritti.

 

Queste forme del (dis)abitare migrante si concretizzano nell’impossibilità di iscrizione anagrafica e nelle pratiche discriminatorie (e illegittime) delle amministrazioni locali che si perdono in un dedalo di ordinanze comunali e di circolari varie di difficile tracciabilità.


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