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di Tania Careddu
Nonostante i vantaggi economici di cui possono godere, i figli rimasti in patria pagano il prezzo della separazione dai genitori migranti. Il miglioramento del benessere economico, dal momento nel quale i genitori emigrati cominciano a inviare rimesse in denaro, permette loro di raggiungere un tenore di vita prima inimmaginabile. Non sempre funzionale, però, a uno sviluppo psichico armonico. Derivante dalla perdita dei modelli di ruolo e delle figure primarie che dovrebbero accompagnarli nella crescita.
Traducendosi, la migrazione genitoriale, in sentimenti di abbandono, di vulnerabilità e di perdita di certezza. E, sperimentando, nella maggior parte dei casi e soprattutto fra gli adolescenti, sentimenti ambivalenti: di stima per l’impresa che i genitori si accingono ad affrontare e di rabbia per il pensiero di essere abbandonati; di contentezza per i vantaggi materiali di cui godranno e di dolore per non poter nascondere la loro tristezza.
Subendo, inoltre, il peso di una stereotipizzazione, conseguente a un progressivo attaccamento al denaro e ai beni di consumo. Perché non solo questi minori hanno accesso più facilmente ai servizi sanitari e a scuole prestigiose, ma la disponibilità di soldi, spesso direttamente nelle loro tasche, li porta a esibire uno status attraverso l’acquisto di prodotti costosi.
Un’immagine che, nella comunità d’origine, favorisce processi di isolamento ed emarginazione: percepiti come “arrampicatori sociali” e associati ad attività illegali o di traffico di persone. E se da un lato per i figli rimasti in patria questo nuovo standard di vita giustifica come un’opportunità la migrazione dei genitori, dall’altro può contribuire a spingerli a commettere crimini, atti di violenza e a entrare in circuiti devianti, oltreché a spiegare il basso rendimento scolastico.
Dalle Filippine allo Sri Lanka, passando per la Cina, secondo quanto si legge nel paper “Famiglie transnazionali tra vincoli e opportunità”, redatto dalla Fondazione Ismu, per quasi tutti i bambini, la presenza e l’interesse della mamma non sono sostituibili nemmeno dal miglior caregiver. Vissute, anche dalle istituzioni e dai media, come responsabili di dinamiche di disgregazione famigliare, le madri partono con un bagaglio di sensi di colpa; non solo per il “mero spostamento di corpi”, quanto per essere state la causa del necessario e radicale processo di ristrutturazione della famiglia.
Ma tanto “il legame tra madri e figli, anche se, talvolta, sottoposto a logorio e tensioni, si mostra, spesso, eccezionalmente vivo e resistente” nonostante la distanza fisica. Ridotta, spesso, dall’invio di un regalo che concretizza rapporti “lontani”, diventa una vera “prova” della presenza altrui e propria nel mondo. Eccedendo dalla dimensione economica, anche l’invio di rimesse assume il senso, simbolico-identitario, della “presenza nella lontananza”.Scambiarsi pensieri ed emozioni è affidato, invece, all’utilizzo di vecchi e nuovi mezzi di comunicazione: la diminuzione del costo delle telefonate internazionali e l’aumento della vendita di telefoni cellulari, nonché l’uso di internet e dei social, con annessi webcam ed email, hanno modificato profondamente confini e opportunità. Spesso, però, alla comunicazione online, veloce e dinamica ma con la forma di “evento collettivo”, madri (padri) e figli preferiscono uno scambio epistolare, più profondo, autentico e meno volatile, con la contemporanea custodia della riservatezza del rapporto.
E però, la “connettività transnazionale” non è sufficiente a soddisfare quelle esigenze di vicinanza, emozione, crescita e identità, fondamentali dell’essere umano. Per ritrovarsi (e riscoprirsi), i viaggi rappresentano una possibilità di “mettere in pratica” la tenuta del rapporto. Talvolta occasioni per raccontarsi, le visite, sovente, possono rivelarsi destrutturanti: quando si realizza di aver perso, con la lontananza, “un’intimità e una confidenza che, difficilmente, può essere riacquistata nel corso di una breve visita”.
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di Tania Careddu
Sarà per la grave crisi umanitaria che ha investito i Paesi europei nel 2015, sarà perché i giornali restituiscono un’immagine distorta del fenomeno migratorio, sta di fatto che sul web si moltiplicano le espressioni di incitamento all’odio razziale e verso le minoranze. E odio sia: sulle pagine facebook, sui forum dei giornali on line, sui commenti in calce agli articoli.
Commenti (o post, per adesione gergale) polemici, arroganti e di istigazione all’odio, frutto di un confronto velocizzato dalla rete, che esaspera il punto di vista dei commentatori e ne radicalizza le posizioni. Indicativi di una situazione di disagio, di convivenza mal sopportata, di una presenza straniera temuta, percepita come ostile, minacciosa, aggressiva. Talmente tanto da trovare una legittimazione del pensiero dei commentatori, autorizzandoli(si) a dare un contributo alla discussione.
Spuntano così “esperti del tema”, presunti conoscitori dell’immigrato che cercano credibilità e consenso entro la comunità dei lettori, nonostante un’indicazione approssimativa e superficiale di questa ‘diversità’ descritta. Scrivono i benpensanti ipocriti, schietti e sinceri perché esplicitano il loro disprezzo, anche in modo “sanguigno”, pur non “essendo razzisti”.
Commentano i rassegnati, per i quali gli immigrati sono un capro espiatorio (ma i rassegnati non ne hanno contezza). Perché rubano il lavoro agli italiani, sporcano la città, sfruttano l’Italia. Non solo: se commettono reati, non vengono puniti; se evadono il fisco, non vengono rintracciati.
E poi, ci sono quelli il cui pensiero verbale non è supportato da alcun contenuto. Basta che sia denigrante e offensivo, duro e immutabile. Contro un ostacolo da abbattere. E da criticare ciecamente per le condizioni igienico-sanitarie, la moralità, i comportamenti non civici, i tratti somatici e fisici, l’opportunismo, la marginalità culturale, la scarsa intelligenza, l’occupazione e l’invasione di un territorio che non gli appartiene.
E fra retorica e qualunquismo, secondo quanto si legge nel Rapporto “L’odio non è un’opinione”, redatto nel quadro del progetto BRICKS, cofinanziato dall’Unione europea, nel 2014, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, ha registrato trecentoquarantatre casi di espressioni razziste sui social network, di cui centottantacinque su facebook e le restanti su twitter e su youtube e trecentoventisei nei link che le rilanciano; l’OCSE ne ha raccolte cinquecentonovantasei, individuate dalle Forze dell’Ordine, e centoquattordici segnalate da organizzazioni della società civile; nel 2013, l’Osservatorio per la Sicurezza contro gli Atti Discriminatori ne ha rilevato sessantacinque.E non c’è notizia che tenga: nessun ambito tematico è esente da commenti violenti. E nessun soggetto è immune dal proporli: ai discorsi razzisti diffusi dai comuni cittadini si affiancano, secondo una caratteristica tipicamente italiana, quelli, con annessi slogan, di stampo discriminatorio e xenofobo, pronunciati da personaggi pubblici e con ruoli di potere che, criminalizzando i migranti sui social, alimentano astio verso intere nazionalità e comunità. Dimenticando che l’odio non è un’opinione.
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di Tania Careddu
Manovre economiche e tagli e sprechi a danno della qualità, della sicurezza e della tempestiva accessibilità alle prestazioni sanitarie. A niente è servita la messa in cantiere di provvedimenti, previsti dal Patto della salute 2014-2016, quali riforma del ticket, rilancio dell’assistenza territoriale, sanità digitale, nuovi standard ospedalieri e piano criticità. Anzi. Pare aver sortito l’effetto opposto, secondo quanto si legge nel documento "I due volti della Sanità, tra sprechi e buone pratiche, la road map per la sostenibilità vista dai cittadini", redatto da Cittadinanzattiva: il Fondo sanitario nazionale è stato ridotto di circa due miliardi e trecento milioni di euro, fissando, per il 2016, il finanziamento a centoundici milioni.
Senza fare i conti in tasca alle Regioni, nelle quali la spesa sanitaria è molto diversificata e le voci (di spesa) nei bilanci appaiono poco chiare e trasparenti, sta di fatto che l’impatto della riduzione della spesa ha inciso (negativamente) sulla pratica clinica e sui servizi. Allungamento delle liste d’attesa, aumento dei rischi per la sicurezza, incremento della mobilità sanitaria, riduzione degli orari delle attività e degli ambulatori, aumento dei costi dei ticket per la diagnostica, la specialistica e l’accesso ai farmaci. Esito: o si sopperisce alla carenza con la sanità privata, o ci si indebita con mutui e prestiti o, addirittura, si rinuncia alle cure.
Una penalizzazione derivante, oltreché da manovre di risparmio, pure da fenomeni di corruzione agevolati dal peso del finanziamento pubblico del settore, in cui vengono gestite ingenti quantità di denaro. Con il rischio di esporre le amministrazioni a tentativi di condizionamento. Spese inutili, contratti conclusi senza gara, gare svolte in modo poco cristallino, assunzioni e inquadramenti illegittimi, falsità e irregolarità nelle prescrizioni, inadempimenti nell’esecuzione dei lavori e nella fornitura di beni.
A prescindere dalla sua immoralità, lo spreco lede i cittadini. Così: violando il diritto al rispetto degli standard di qualità, quello al rispetto del tempo altrui, quello della sicurezza delle cure, ostacolando quello all’accesso ai servizi sanitari e quello a evitare sofferenze non contemplate. Di più: talvolta, annulla il diritto al reclamo, all’informazione e alla libera scelta, oltreché quello al risarcimento e quello alla privacy.In sintesi, per i (potenziali) pazienti del Sistema Sanitario italiano, lo “spreco in sanità significa utilizzare risorse per fornire un servizio tale per cui un cittadino o non riesce a usufruire o, pur usufruendone, prova la sensazione di aver solo perduto tempo e/o denaro”. Ergo, è spreco: non investire in prevenzione e nella medicina del territorio, effettuare tagli lineari senza un’adeguata programmazione strategica, non capitalizzare le risorse del Sistema Sanitario Nazionale, la burocrazia inutile, le liste d’attesa e la mobilità.
Piani di rientro, corruzione e sprechi che contribuiscono all’ampliamento delle vecchie disparità e alla creazione di nuove disuguaglianze.
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di Tania Careddu
Dei sessanta governi formati dopo il varo della Costituzione repubblicana, trentaquattro sono stati composti interamente da ministri (uomini). E sebbene quella Costituzione diede la possibilità alle donne di accedere a incarichi pubblici e di governo, ci sono voluti quasi trent’anni per avere almeno una donna all’esecutivo; si è dovuto attendere il 1993 per avere almeno un 10 per cento di deputate, il 2006 perché non si scendesse sotto questa soglia e l’insediamento del governo Renzi per festeggiare la parità di genere in parlamento.
E nonostante sia durata il tempo di uno scatto fotografico - visto che la presenza femminile è conteggiata sui soli ministri all’atto dell’insediamento e i calcoli non includono il presidente del Consiglio - bisogna ammettere che è quella con il più folto numero di donne, che arrivano a essere un terzo del totale.
Fino, però, a dimezzarsi in seguito alle successive nomine di viceministri e sottosegretari e ad arrivare, dopo il rimpasto del 28 gennaio di quest’anno, al 25,4 per cento. Eppure, secondo quanto si legge nel minidossier Trova l’intrusa, redatto da Openpolis, la corrente legislatura vanta il record storico di donne in parlamento.
Ma l’aumento percentuale della popolazione femminile alle Camere non è, di per sé, garanzia di parità di accesso alle massime cariche pubbliche. Tant’è che, a parte la terza carica dello Stato, la cabina di regia dell’attività legislativa, ossia la presidenza delle Commissioni permanenti, in entrambe le Camere, è appannaggio degli uomini in dodici casi su quattordici; nessun gruppo politico alla Camera è presieduto da una donna e solo da tre su venti al Senato; quattro su ventotto le donne che sono a capo di una commissione parlamentare; i tesorieri dei gruppi parlamentari sono tutti uomini. Dato che conferma la tendenza a escludere le donne da incarichi economici.
Un approccio che trova riscontro, anche, a livello regionale: scarseggiano negli assessorati che gestiscono corposi fondi e le deleghe al bilancio sono quelle meno affidate alle donne. Quella alla sanità, per esempio, che gestisce la grande maggioranza del bilancio, è guidata da una donna solo in una Regione su quattro. Gli incarichi più adeguati (?): istruzione e formazione professionale, assistenza sociale e cultura.
La carica in cui si nota una maggiore parità è quella di assessore, con una presenza del 35 per cento di donne, versus quella di presidente, due donne su dieci. Sono in minoranza nei consigli regionali, presenti al 18 per cento, e più visibili nelle giunte, con il 35 per cento. Maglia nera al Molise con zero donne in giunta e alla Basilicata con nessuna donna in consiglio. Parità in Emilia Romagna, Toscana e Marche. La più virtuosa, la Campania con i tre quarti di assessore (donne). Sullo scranno di governatore, solo due donne, In Friuli Venezia Giulia e in Umbria, mentre presidenti e vicepresidenti di consiglio regionale sono donne, rispettivamente, nel 14 e nel 13 per cento dei casi.Ma la vera misura dell’accessibilità delle donne nelle istituzioni è data dalla loro presenza nella politica locale. Che svela: la loro difficoltà nel ricoprire ruoli apicali nelle amministrazioni comunali; la loro minore presenza nelle istituzioni di maggior prestigio; la più alta probabilità che accedano a incarichi politici tramite nomina del presidente o del sindaco piuttosto che attraverso il voto di preferenza; la loro presenza si riduce man mano che l’istituzione aumenta di importanza.
Quindi: i primi cittadini delle grandi città sono tutti uomini; nessun centro urbano con più di trecentomila abitanti è amministrata da un sindaco di sesso femminile, su centotto comuni capoluogo, quelli capeggiati da donne sono solo quattro - Alessandria, Ancona, Vercelli e Verbania -. Poi certo, maggiore è il comune, più grande è la quantità di assessore.
Bisognerà aspettare il 2017, quando tutti i consigli comunali si saranno rinnovati, per vedere se, con l’applicazione, estesa a tutti i comuni, della legge 215/2012, che ha introdotto la doppia preferenza di genere, la quota di donne nelle amministrazioni locali salirà.
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di Tania Careddu
Sono oltre centrotrenta le piattaforme di estrazione offshore attive nei mari italiani. Ma si ha notizia dei piani di monitoraggio, realizzati dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), con la committenza di ENI, solo di trentaquattro impianti che estraggono gas nell’Adriatico. I dati, riferibili al triennio 2012-2014, sono preoccupanti: le piattaforme con problemi di contaminazione ambientale sono tante e presentano livelli sempre costantemente elevati, superiori ai limiti di legge. Cromo, nichel, piombo, mercurio, cadmio, arsenico e idrocarburi, in grado di risalire la catena alimentare, minacciano i sedimenti nei pressi delle piattaforme.
Le quali generano un forte impatto sugli organismi che vivono a stretto contatto con i sedimenti durante le fasi di installazione delle piattaforme, collocate a partire dagli anni sessanta, e di realizzazione dei pozzi; causano un aumento del traffico di imbarcazioni; e producono molto materiale di risulta, di differente natura.
E cioè, fanghi di perforazione, a base di oli minerali o sintetici, contenenti molteplici additivi e sostanze chimiche, usati per l’asportazione di detriti dal fondo del pozzo, per il raffreddamento e la lubrificazione ma, soprattutto, acque di produzione. Volumi ingenti presenti nei pozzi, a contatto con giacimenti di idrocarburi per migliaia di anni, ricche di sostanze inquinanti, le acque di produzione, dopo vari processi, vengono o immesse in mare o iniettate in unità geologiche profonde.
Dai piani di monitoraggio, volti a verificare “l’assenza di pericoli per le acque e gli ecosistemi acquatici derivanti dallo scarico diretto a mare delle acque risultanti dall’estrazione di idrocarburi”, emerge che: nonostante i significanti fenomeni di diluizione a cui vanno incontro le acque di produzione, nei campioni di acqua prelevati in prossimità di alcune piattaforme monitorate è stata riscontrata la presenza di taluni composti nocivi. Talvolta no, ma, spesso, superando gli Standard di Qualità Ambientale, ossia le concentrazioni individuate dalla legge per tutelare la salute umana e l’ambiente, di cui fanno parte gli organismi, nello specifico i mitili.Dei questi, nel corso del triennio in esame, l’86 per cento ha superato il limite di mercurio identificato dagli SQA. Oltre che di cadmio, metallo altamente tossico che genera disfunzioni ai reni e all’apparato scheletrico nonché sostanza cancerogena; di bario, utilizzato durante le fasi di estrazione come costituente dei fluidi di perforazione; di mercurio e di zinco, derivanti dalla corrosione degli anodi sacrificali collocati in prossimità delle piattaforme al fine di proteggerle, appunto, dalla corrosione. Eccetera eccetera.
A prescindere dai grandi disastri che attirano l’attenzione dei media ma a fronte della dannosità delle piattaforme, almeno stando a quanto riporta lo studio Trivelle pericolose, redatto da Greenpeace sui dati del ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM), sarebbe opportuno fermare la proliferazione delle trivelle, caldeggiate dal governo italiano. E smettere di concedere alle attività estrattive, di sversare liberamente nel nostro mare.