di Liliana Adamo

Nessuna obiezione è stata mossa, quando Laurent Fabius, ministro degli esteri francese, picchiando il martelletto a suggello degli esiti raggiunti, ha decretato la chiusura dell’assemblea plenaria per la CO21; ma il plauso generale a conclusione della Conferenza mondiale sul clima, tenuta a Parigi nel dicembre scorso, non ha placato le polemiche, soprattutto da parte di climatologi e associazioni, che chiedono risoluzioni più decise e politiche mirate.

La questione ruota tutta intorno a uno sparuto 0,5°? Sì: l’accordo prevede un margine che si ponga ben sotto i 2 gradi centigradi, aggiungendo quindi di perseverare “con ogni sforzo” affinché non si valichino i famosi 1,5°. Gli stessi, chiesti come “soglia massima”, da quei paesi resi più vulnerabili (in pratica, già a rischio d’estinzione), dall’innalzamento delle temperature globali.

Secondo i commentatori, che tale soglia sia stata “menzionata” nell’accordo, rappresenta di per sé, un mezzo successo. Ma vallo a dire a chi, per uno 0,5° in meno, si vede condannato a non sopravvivere sotto i colpi del global warming!

Per esempio, a Climate Action Network per le Isole del Pacifico, la cosa proprio non è andata giù e Krishneil Narayan, sua portavoce, dichiara “inaccettabile questo compromesso”; ne va di quelle aree del Pacifico (e dell’Oceano Indiano, arcipelago delle Maldive in primis), che saranno sommerse e letteralmente spazzate via.

Eppure, secondo Greenpeace International, se “la ruota del clima gira lentamente, a Parigi, almeno, pare abbia cominciato a girare…”, fino a che le lobbies del carbone e del petrolio temporeggiano in attesa della ratifica definitiva sull’accordo, prevista per la prossima primavera.

Al momento, ciò che si farà in concreto per pervenire agli obiettivi resta nel vago e nelle mozioni. Ci sono i famosi Indc, vale a dire, le “parole date” o gli “impegni sottoscritti” da numerosi governi (non da tutti), ancor prima dell’avvio ai lavori della CO21; ma per raggiungere il giusto, cioè ridurre le emissioni/gas serra, parole e promesse non bastano.

Queste consentiranno, secondo lo stesso governo francese, di spingersi fino a un +2,7°: un valore, in termini pratici, che produrrebbe una catastrofe planetaria. Urge un rafforzamento degli impegni previsti se il limite massimo di sopravvivenza sul pianeta è quantificabile ben sotto i 2° centigradi, come puntualizzano i più accreditati climatologi e le associazioni ambientaliste.

Dunque, la nostra civiltà tout court, la nostra struttura di conservazione, così come l’abbiamo finora conosciuta e finanche apprezzata (per una parte del mondo), è legata a “quell’irrisorio” 0,5° in meno.

Per lo stesso presupposto, Réseau Action Climat, le già citate Climate Action Network, Greenpeace International, e altre associazioni per i diritti al clima e all’ambiente, si sono ostinate sul concetto di “decarbonizzazione” (non presente nel testo stilato dalla Commissione, per i veti imposti da Arabia Saudita e India) chiedendo che ci fosse, quanto prima, un riesame dei cosiddetti Idnc e dei loro ripassi, in vista della ratifica definitiva.

Per indorare la pillola, si è deciso, in extremis, di prorogare questa modifica (da molti invocata), nel (lontano) 2025 e adeguarla ogni cinque anni da quella data!

A questo proposito, il climatologo americano James Hansen (docente presso il Department of Earth and Environmental Sciences della Columbia University, ex capo del Goddard Institute for Space Studies della NASA, unico, vero scopritore del fenomeno global warning), non ha usato mezzi termini: “It’s a fraud really, a fake” (E’ una truffa).

Intervistato dal The Guardian, ha ribadito il suo giudizio: “L’accordo di Parigi è una truffa. È assurdo dire poniamo l’asticella a 2 gradi e poi cercheremo di fare un po’ meglio ogni cinque anni. Si tratta di parole prive di significato, non ci sono azioni, solo promesse!”.

Sventolato come una vittoria, quello di Parigi sembrerebbe un processo troppo “morbido” e apatico, poco ambizioso, cui sorge il regolare, drammatico aspetto effimero di marketing gonfiato ad arte. Un vizio che si ripete a ogni appuntamento internazionale dove si “discute” di cambiamenti climatici senza avere coraggio e fermezza politica per “contenerne” gli effetti, frenando l’escalation delle alte temperature.

Delusione delle Ong anche per ciò che concerne i fondi; se a Copenaghen (nel 2009), si indicava la cifra di 100 miliardi di dollari da erogare entro il 2020 ai paesi in via di sviluppo, incoraggiando una politica che riduca le produzioni altamente inquinanti, a Parigi vale lo stesso leitmotiv: “Servono 100 miliardi di dollari entro il 2020…” (e questo era risaputo). L’unica differenza sottolineata equivale a “un limite minimo” apportato alla somma, sotto la quale non si può calare. Al solito, per una nuova correzione sarà opportuno attendere il fatidico 2025.

di Tania Careddu

Lentezza cronica e ingente mole di arretrato. È la situazione in cui versa, da decenni, il sistema di giustizia civile italiano. Molto carente sotto il profilo dei tempi di definizione dei procedimenti e poco accessibile sul piano dei costi. Con immaginabili ripercussioni sui principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Tanto per chiarire la portata della lungaggine dei processi, a Bologna, nel 2014, si è dovuto aspettare, mediamente, trentotto mesi per avere una sentenza, a Catania quarantaquattro, a Firenze trentanove, a Milano venticinque, a Napoli trentasette e a Taranto quarantaquattro.

L’efficienza dei tempi di definizione dei procedimenti va certamente correlata al numero dei magistrati in servizio: una scarsa copertura dell’organico che penalizza tutti i tribunali, i quali devono fare i conti anche con quella riguardante il personale amministrativo, coinvolto nello scarto tra i dipendenti previsti e quelli effettivamente in servizio.

E nonostante i giudici italiani abbiano dimostrato, nell’ultimo triennio, un’altissima capacità di smaltimento, il Belpaese vanta il triste primato in Europa, terza dopo Federazione Russa e Polonia, del maggior numero di affari civili pendenti in primo grado. Altri fattori che incidono sulla durata dei processi, secondo quanto si legge nel Report di CittadinanzAttiva Audit Civico nella Giustizia Civile, il tempo necessario al deposito di una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) e lo scarso ricorso alla mediazione.

Quanto ai costi, l’annosa questione dell’insufficiente destinazione di adeguate risorse trova la sua evidenza nella (spinosa) tutela dei soggetti a rischio di emarginazione sociale: la difesa dei cittadini meno abbienti rivela tutta la precarietà di tenuta del sistema del patrocinio a spese dello Stato, essendo stato omesso un corrispondente stanziamento di risorse da dedicare alla retribuzione degli avvocati difensori per ‘gratuito patrocinio’.

A ciò si aggiungano le complicazioni burocratiche che accompagnano l’emissione dei decreti di liquidazione e una quasi totale mancanza di informazioni sia relativamente alle modalità di accesso sia per quanto attiene ai requisiti di ammissibilità al ‘gratuito patrocinio’ (nelle motivazioni di rigetto della domanda, quella dominante è legata ai requisiti di reddito).

Un tassello che, spesso, penalizza gli utenti stranieri. Ai quali, in generale, la giustizia italiana rivolge scarsissima attenzione. Vedi l’assenza di servizi di interpretariato per le informazioni (con materiale informativo, appunto, redatto solo in lingua italiana) e, dove presente, a disposizione solo per le udienze.

Ma il supporto per l’orientamento, l’accoglienza e l’ascolto dei cittadini nelle strutture giudiziarie fa acqua anche per gli utenti italiani: nei tribunali di tutta la Penisola, infatti, sono pochi i luoghi deputati (URP) a svolgere questa funzione. Per fortuna, il livello di accessibilità fisica per i fruitori dei luoghi di giustizia è, tutto sommato, positivo. Segnaletica a parte.

di Tania Careddu

Diminuiscono ma aumenta il loro reddito: i pensionati, in Italia nel 2014, sono sedici milioni e poco più e la loro retribuzione media annua lorda è pari a circa diciassette mila euro. Aumentano gli ultrasessantaquattrenni, la cui elevata incidenza spiega il divario di istruzione rispetto al resto della popolazione: quasi la metà dei pensionati non ha un titolo di studio o possiede, al più, la licenza elementare, appena un quarto ha conseguito la licenza media superiore.

Se il pensionato possiede, invece, un titolo di studio corrispondente alla laurea, il suo reddito lordo è più che doppio rispetto a quelli sopracitati. Penalizzate come sempre le donne, che costituiscono quasi il 53 per cento della popolazione pensionata; sono più anziane - tre su dieci ultraottantenni - e ricevono mediamente importi di circa sei mila euro inferiori a quelli maschili.

Quasi la metà dei pensionati risiede nelle regioni del Nord, dove sono più frequenti le pensioni di vecchiaia, e poco meno di un terzo nel Mezzogiorno, in cui sono più elevate le quote dei percettori di trattamenti assistenziali o di invalidità ordinarie e dove l’importo netto mediamente percepito è del 15 per cento inferiore a quello del resto del Paese; ma a percepire i redditi pensionistici più alti sono gli anziani del Centro, mentre nelle Isole è forte l’incidenza delle pensioni sociali, cioè di quelle introdotte nel 1969 per garantire un reddito pensionistico minimo anche in assenza di pregresso contributo o di specifiche patologie.

E se al Settentrione i pensionati vivono per lo più da soli, nel Mezzogiorno sono in coppia e al Centro risiedono in famiglie di altra tipologia. Le quali, si stima, siano circa dodici milioni e quattrocentomila, più o meno una su due: per quasi sette milioni e ottocentomila di queste, le pensioni dei ‘nonni’ rappresentano oltre i tre quarti del reddito familiare a disposizione e per il 26,5 per cento è l’unica fonte di reddito.

Nonostante il valore medio del reddito delle famiglie con pensionati sia più basso di circa duemila euro rispetto a quello delle restanti famiglie, il rischio di povertà delle prime è ridotto rispetto a quello delle seconde. Perché la presenza di trasferimenti pensionistici rappresenta un’importante rete di protezione del disagio economico, tant’è che il contributo di un pensionato all’interno di nuclei famigliari vulnerabili, per esempio quelli di genitori soli, consente di dimezzare il rischio di povertà.

Se poi alla pensione si cumulano entrate provenienti da attività lavorativa, il rischio si riduce di oltre dieci punti percentuali e di sette punti percentuali qualora fosse presente il reddito di un altro componente della famiglia occupato. Le famiglie di pensionati del Sud e delle Isole vivono un rischio di povertà triplo di quello delle stesse famiglie del Nord e doppio di quelle del Centro.

Un rischio che mette in fuga i ‘capelli grigi’: secondo i dati INPS, che ha curato anche la ricerca “Le condizioni di vita dei pensionati”, negli ultimi cinque anni sono espatriati più di sedicimila e cinquecento pensionati, di cui cinquemila e trecento solo nel 2014. Da Tenerife a Lanzarote, dal Portogallo alla Bulgaria, luoghi in cui il costo della vita è il 40 per cento in meno di quello in Italia. In cerca di una vecchiaia più agiata, qualità dei servizi, sicurezza. E, perché no, di un clima migliore.

di Tania Careddu

Chi ha il potere e la capacità di influire sulle attività di Camera e Senato? Una manciata di parlamentari. Mettendo a confronto novecentocinquantuno parlamentari, contando circa ventiseimila e cinquecento votazioni elettroniche, spulciando più o meno quarantacinquemila atti non legislativi e cinquemila e settecento disegni di legge presentati, Openpolis, nel minidossier “Indice di produttività parlamentare 20152, lo conferma.

Aggiungendo che quelli con incarichi istituzionali battono tutti: rispetto ai quattrocentocinquantotto deputati e ai centosettantasei senatori senza incarichi, il loro peso è notevolmente più consistente. Se il 66,35 per cento dei deputati e il 62,93 per cento dei senatori è sotto la media di produttività, il potere di contribuire (determinare) alle attività dell’istituzione in cui siede è in mano al 3 per cento dei deputati e solo in cinque occupano la cima della classifica.

Tra i senatori, i soggetti più influenti corrispondono al 5,30 per cento e solo in sei trainano la lista dei più produttivi. Capigruppo di aula, di commissione e presidente di commissione hanno una produttività media fino a due volte superiore a quella del deputato ‘semplice’.

E, in questo caso, non serve la buona volontà per stabilire la produttività di un parlamentare. Cioè, non è produttivo il primo firmatario di innumerevoli ddl ma quello che porta a casa una legge e nemmeno chi protocolla centinaia di interrogazioni ma colui che riesce a ottenere una risposta da parte del ministro competente.

Non aiuta neppure la presenza per ottenere la nomination di produttivo perché la partecipazione alle votazioni elettroniche ha una portata decisamente inferiore rispetto all’incisività degli incarichi istituzionali e dei ruoli di potere all’interno dei gruppi: fra chi è stato presente oltre il 90 per cento delle volte, solo il 20 per cento dei deputati e il 43 per cento dei senatori supera la media della produttività. Fra i presenti, appunto, il più produttivo è l’onorevole della Lega Nord, Stefano Borghesi, e il senatore del Partito Democratico, Giorgio Pagliani.

Stesso discorso all’interno dei gruppi parlamentari: alla Camera dei deputati, il 70 per cento ha la maggior parte dei membri ‘scansafatiche’ e al Senato della Repubblica, il 90 per cento. Pollice su, sia a Montecitorio sia a Palazzo Madama, per la Lega Nord che annovera il 75 per cento dei membri sopra la media, portando alla ribalda una dinamica che fa spiccare chi, pur non sostenendo il governo, si è reso disponibile a contribuire a determinati provvedimenti, lasciando sullo sfondo i gruppi di maggioranza.

In fondo alla classifica della Camera, Scelta Civica, Partito Democratico e Forza Italia, quattro volte inferiore alla media del primo classificato; alla base di quella del Senato, Conservatori e Riformisti, Alleanza Liberalpopolare Autonomie, Grandi Autonomie e Libertà, tre volte inferiore alla media del gruppo in testa. Nella top ten della produttività alla Camera, l’80 per cento dei deputati fa parte dell’opposizione e al Senato, il 50 per cento.

Una mera curiosità: a Palazzo Madama, tre dei cinque senatori più produttivi sono donne. Pari produttività?


di Tania Careddu

Complessità delle prassi burocratiche, tempi biblici di realizzazione del progetto, alti costi, trasparenza del processo. Sono le criticità, secondo quanto riporta il documento del CARE (Coordinamento associazione famiglie adottive e affidatarie in rete), Dossier Adozioni. Stato dell’arte sulle adozioni nazionali e internazionali dal punto di vista delle famiglie adottive italiane, con le quali le famiglie adottive devono fare i conti.

Andiamo con ordine: il decreto di idoneità per procedere all’adozione è a discrezione del tribunale dei minorenni competente viene rilasciato in un periodo che varia da sei a dodici mesi e il tempo medio del percorso adottivo, dal conferimento dell’incarico all’ente competente fino al rilascio dell’autorizzazione all’ingresso (per le adozioni internazionali) del minore, si è stabilizzato intorno ai due anni.

Ma pare che, per molte coppie, i tempi d’attesa siano molto più dilatati. Causa il complicarsi delle tempistiche dopo l’ottenimento del decreto di idoneità: rallentamenti, blocchi e congelamenti hanno costretto varie coppie a cambi di direzione o ad attese protratte. Che diventano solitudine, ostacoli e traversie. Dati alla mano, più del 30 per cento di loro ha aspettato oltre ventiquattro mesi per portare a termine il percorso e il 16 per cento più di tre anni.

La mancanza di informazioni, poi, gravosa di per sé dietro tanti aspetti, diventa foriera di ulteriori difficoltà quando si tratta dello stato di salute del bambino: documentazione sanitaria carente e poco attendibile, certificati (quando recuperati) di difficile interpretazione, dossier medici scarni, cartelle cliniche nelle quali appaiono i sintomi piuttosto che la diagnosi. Cosicché alcune situazioni vengono accertate solo all’arrivo: nel 2012, sono stati quattrocentoventinove i bambini arrivati in Italia con bisogni speciali, il 13,4 per cento degli ingressi, di cui centottantacinque fra i cinque e i nove anni.

I costi sono eccessivi e non sempre giustificabili; fino al “sospetto di lucro”, se si pensa che negli ultimi dieci anni i costi per l’adozione internazionale sono andati progressivamente crescendo, arrivando a toccare cifre che vanno dai venti ai quarantamila euro.

E successivamente? Dopo l’adozione, spesso, è confusione e mancanza di mezzi e risorse: si scopre che la preparazione (quando viene effettuata) era solo sulla ‘carta’, le informazioni erano ridotte, la società può rivelarsi meno accogliente di quanto si era pensato, le criticità dei figli possono essere davvero ampie e non di rapida evoluzione e i genitori stessi non sono come immaginavano di essere. Una fase difficile, quella del post adozione, che, negli ultimi cinque anni nel Belpaese, è stata trascurata a causa del disinvestimento diffuso che ha coinvolto la rete dei servizi sociali.

Di quei servizi che, in passato più che oggi, si facevano carico dei nuovi piccoli arrivati solo nelle fasi precedente e immediatamente successiva all’adozione e che, attualmente, alla luce dei cambiamenti che l’adozione ha subìto in questi ultimi anni, devono invece tenere in considerazione bisogni che richiedono valutazione e sostegno anche negli anni successivi al primo anno post adozione.

Sarebbe doveroso investire risorse maggiori, visto che le coppie italiane sono in prima linea rispetto a quelle di tanti altri Paesi relativamente all’accoglienza di bambini più grandi e di quelli con bisogni speciali.


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