di Tania Careddu

Metti un giorno qualunque del 2015. Metti il ‘palinsesto’ di radio, televisione, stampa e web. Risultato: le donne sono sottorappresentate. E, sebbene gli ultimi cinque anni abbiano segnato un lento miglioramento, diventando, da argomento per poche addette ai lavori a questione di dominio pubblico, l’informazione italiana è ancora lontana da una bilanciata rappresentazione di donne e uomini. Non giustificabile se si pensa ai significativi mutamenti intervenuti nella società del Belpaese durante l’ultimo decennio, in particolare quelli attinenti alla partecipazione politica delle donne e all’aumento, fra la popolazione femminile, delle competenze. Pressoché invisibili sui media, vecchi e nuovi.

Secondo il Global Media Monitoring Project 2015, curato in Italia dall’Osservatorio di Pavia, nei media tradizionali, nonostante a fare notizie continuino a essere gli uomini, la presenza femminile è cresciuta (con riserva): marginalizzate nelle notizie di politica, più considerate in quelle relative a salute e scienza; con una visibilità mediatica ‘anonima’, cioè indipendente dal loro ruolo sociale o dalle loro esperienze professionali e invitate molto poco a commentare un evento.

Ben una donna su quattro fa notizia in quanto vittima, il 28 per cento è presentato sulla base di una relazione famigliare - madre, figlia di, moglie - piuttosto che sulla base di un’identità autonoma e individuale. Più segnalate nell’informazione estera e locale che in quella nazionale dove, sebbene facciano meno notizia dei maschi, hanno maggiore probabilità di essere ritratte in fotografia sui quotidiani.

Quanto ai media digitali, internet risulta il mezzo di comunicazione, in assoluto, più inclusivo per le donne che sulle pagine on line monitorate raggiungono il 29 per cento: ci compaiono soprattutto come oggetto di notizia e come portavoce di enti, istituzioni, associazioni, partiti.

E chi decide le notizie? Le centosettantasei registrate nel corso della giornata monitorata (precisamente, il 25 marzo 2015) sono state scritte, redatte o presentate da duecentoquarantuno giornalisti, il 36 per cento dei quali di sesso femminile, una proporzione prossima alla componente femminile reale nella categoria professionale (l’INPGI stima il raggiungimento del 40 per cento delle donne giornaliste). Ma, nonostante ciò, non si può certamente considerare gender-sensitive l’agenda del giorno: le notizie dedicate alle donne, infatti, hanno coperto solo l’8 per cento dell’informazione.

Giornaliste giovani, di una fascia d’età compresa fra i trentacinque e i quarantanove anni, quelle dei vecchi mezzi di comunicazione ma invisibili nell’informazione digitale la quale, però, è quella più attenta a questioni di pari opportunità ma, paradossalmente, che più di tutte tende a rinforzare gli stereotipi attraverso il linguaggio, le immagini o la costruzione delle notizie, raccontando un mondo ancora molto convenzionale rispetto alle relazioni di genere.

Conseguenze: la continua sottorappresentazione delle donne nei media, in particolare in quelli tradizionali, da un lato rispecchia una società non ancora in grado di includere a pieno titolo le donne, specialmente nella vita pubblica, dall’altro, questa sottorappresentazione contribuisce a consolidare un’attitudine culturale incapace di promuovere una conoscenza e un approccio bilanciato alle problematiche di genere. Tirando le somme, “l’immaginario collettivo promosso dai media italiani relega le donne a un limitato numero di ruoli convenzionali: la donna come oggetto sessuale e la donna come madre casalinga”. Che negazione.

di Vincenzo Maddaloni

BERLINO. Papa Francesco ricorda ai fedeli che, «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Sicuramente qui in Germania la confusione non c'è, e da anni. A volte, è sufficiente anche il varo di una legge per misurare le distanze culturali tra le nazioni. Quella sulle Unioni civili ci separa dai tedeschi anni luce, conferma che ci sono concezioni diverse d'intendere la democrazia. Il Belpaese non ci fa una bella figura. Come sempre, o quasi.

I tedeschi hanno da quindici anni la legge sulle Unioni civili. La Eingetragene Lebenspartnerschaft (così in tedesco) venne approvata nel 2001 dal Governo Rosso-Verde di Schöder e Fischer, e nel corso degli anni ha subito molte modifiche grazie alla Corte Costituzionale e alla consapevolezza tedesca che la politica deve favorire e sostenere i cambiamenti sociali. Infatti, la legge è sempre cambiata in meglio, ampliando ogni volta i diritti delle coppie omosessuali.

In Italia invece, soltanto giovedì 28 gennaio 2016 tornerà in aula il disegno di legge sulle Unioni civili, la Cirannà Bis, dal nome della senatrice Pd Monica Cirinnà che l'ha promossa. Le Unioni civili sono un diritto riconosciuto in gran parte dei Paesi dell’Unione Europea. Alcuni dei paesi comunitari, come la Germania, arrivano a equiparare le unioni civili al matrimonio. Insomma dei ventotto stati membri della UE, quelli che ancora non hanno legiferato in merito sono: Bulgaria, Cipro, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, e naturalmente l’Italia.

Sicché se il Cirannà Bis non sarà approvato, l’Italia continuerà ad essere uno dei pochi Stati europei che non riconoscono in alcun modo le famiglie di persone omosessuali. I segnali che possa accadere ci sono, perché proprio l'altro giorno il vescovo Nunzio Galantino, segretario della Cei, ha nuovamente criticato la possibilità di adozione per le coppie gay. E così la sentenza dell'autorevole prelato diventa una  benedizione per il raduno - il prossimo 30 gennaio in Piazza san Giovanni a Roma - del Family Day che è organizzato da molte associazioni di cattolici conservatori che al grido di “non toccate i bambini”, si oppongono, appunto, al riconoscimento delle Unioni civili.

Per la cronaca, risale al 1986 la prima proposta di legge sul riconoscimento delle coppie di fatto. Dopo trent'anni di disegni di legge nel vano tentativo di riportarli in esame nel Parlamento Italiano, finalmente il 28  gennaio si voterà sulle modifiche del cosiddetto Cirinnà Bis, che riguardano la distinzione della regolamentazione tra le coppie civili di diverso orientamento sessuale. Per la prima volta s’inserisce nell’ordinamento giuridico italiano, l’istituzione delle Unioni civili per quelle formate da persone dello stesso sesso che assumeranno la definizione di coppie di «specifica formazione sociale» cancellando così ogni riferimento al matrimonio.

Va pure precisato che la legge Cirinnà, nella sua ultima versione, stabilisce che le coppie dello stesso sesso unite civilmente non potranno adottare bambini che non siano già figli di uno dei componenti della coppia. E quindi tutta la discussione attorno al cosiddetto “utero in affitto” che la legge Cirinnà si appresterebbe “a promuovere”, come i suoi avversari sostengono si fonda su premesse che non esistono, poiché il ddl non dicendo nulla a riguardo, lascia quindi in vigore i divieti della legge 40 del 2004.

Concludendo, non essendoci alcuna equiparazione con il “matrimonio”, le coppie di «specifica formazione sociale» hanno soltanto la possibilità di accedere a una adozione particolare: l’adozione del figlio dell’altro componente della coppia, compiuta con il consenso di entrambi i genitori, oppure la possibilità di adottare un minore che ha un solo genitore, quello interno all’Unione civile, perché l’altro è irreperibile, ignoto, defunto o ritenuto incapace di esercitare la potestà genitoriale, cioè non idoneo ad occuparsene.

Tutt'altra aria spira in Germania. Ancora una volta il sano pragmatismo tedesco non soltanto nei contenuti ma anche nei metodi ha dato i suoi frutti, che aiutano anche a  capire il baratro che separa il Belpaese dalla Germania.

Perché i tedeschi hanno pensato davvero a tutto. Da due anni hanno pure una legge che prevede l'equiparazione del trattamento fiscale tra famiglie omo e etero. Essa ha comportato una revisione complessiva della fiscalità delle famiglie tutte, distinguendo solo le famiglie con o senza figli. Così operando è nato un modello fiscale che ha arricchito le entrate allo Stato tedesco e ampliato i diritti delle coppie omosessuali.

Ritorniamo in Italia. Le notizie della vigilia del voto parlano di circa seimila emendamenti sono stati presentati al disegno di legge Cirinnà. La stragrande maggioranza - circa cinquemila - sono stati presentanti dalla Lega Nord e sono in gran parte emendamenti studiati soltanto per fare ostruzionismo alla legge. Forza Italia ne ha presentati altri 300 e il PD in tutto circa 60, di cui una decina - nove,secondo il Corriere della Sera - sono stati presentati dal gruppo di cattolici interno allo stesso PD ostile alla nuova legge.

Secondo Rainews, il nuovo emendamento presentato dai Cattdem stabilisce che il giudice del tribunale dei minori potrà disporre “verifiche e indagini” dopo la richiesta di adozione inoltrata da parte dell’unione civile di persone dello stesso sesso. Una fonte di Repubblica precisa che in materia di stepchild adoption «non c’è alcun automatismo». 

Quel che si fa fatica a capire è perché, una volta chiarito che le Unioni civili non debbono definirsi matrimonio bensì «specifica formazione sociale» e quindi - lo ripeto ancora - non possono adottare bambini che, non siano già figli di uno dei componenti della coppia, non si capisce appunto perché l'approvazione del Cirinnà Bis debba creare tanti scrupoli  ai parlamentari del Pd, da indurre il Partito a lasciare ai propri parlamentari «libertà di coscienza», senza dare alcuna indicazione di voto. Si tenga a mente poi che la votazione si svolgerà a scrutinio segreto.

E' una decisione anche questa che mostra l'assoluto scollamento del Pd dalla società civile ogni volta che  c'è da votare una legge che contrasta con le posizioni delle gerarchie cattoliche. Dimenticando che in una democrazia i partiti nascono perché si confrontino le opinioni.

Il compito del partito è raccogliere i punti di vista, esprimere il sentimento della gente e, in casi come questi, dove in discussione è il principio costituzionale della libertà di religione e della separazione tra Stato e Chiesa, esso deve spiegare bene il proprio punto di vista e suggerire da che parte conviene stare, con quelle che si chiamano “indicazioni di voto”. Sicché lasciare ai propri parlamentari «libertà di coscienza» significa svilire profondamente la ragione di essere dei partiti.

Viene da chiedersi da che parte stanno questi parlamentari del Partito democratico che dichiarano con enfasi che l’Unione civile «non è un matrimonio», che «il matrimonio è una cosa diversa», che i bambini ne «soffriranno», come sostiene il Family Day assieme alla Chiesa tutta. Da che parte stanno? Da quella degli ipocriti, sicuramente.


di Tania Careddu

“Una nuova partenza”. “Colora il tuo futuro”. Lo suggerisce ai pensionati italiani una delle nuove agenzie nate per orientarli e supportarli - occupandosi delle pratiche burocratiche per il trasferimento di residenza, della pensione e del conto bancario, oltre che dell’individuazione dell’immobile più consono alle esigenze dei clienti - nella fuga dal Belpaese. Perché non vivere meglio? Perché si, ammoniscono dalle pagine del loro sito.

“Basta vivere in mezzo a tristi palazzi di cemento al freddo e umido”, pagando “affitti molto cari, bollette astronomiche, tasse sempre maggiori”. Tutte buone ragioni che, insieme al “costo della vita elevato, clima freddo e piovoso, criminalità crescente”, stanno rendendo sempre più massiccio l’esodo dei capelli grigi italiani.

Facendo due conti, in effetti, dal 2008 a oggi un pensionato italiano ha perso mille e quattrocento euro di potere d’acquisto, corrispondente a centodiciotto euro al mese, essendo soggetti a un prelievo doppio rispetto a quello spagnolo, triplo rispetto a quello francese e si va dagli oltre quattromila euro sopportati dal pensionato italiano ai trentanove a carico di quello tedesco. Tanto vale trasferirsi a Tenerife, Lanzarote, Bulgaria e Portogallo.

Perché sono “uno spettacolo della natura” o perché è “l’isola dove è sempre primavera”, oppure perché si respira “cultura, sole e mare a tasso zero”, e così “raddoppia la pensione e la serenità”. Soprattutto se si considera che in alcuni Stati si può chiedere all’INPS di ricevere la pensione lorda, cioè comprensiva delle tasse che non si pagheranno più in Italia, che un appartamento in buono stato, in affitto per una coppia, si trova a centocinquanta euro al mese e che la bolletta dell’energia elettrica, utilizzata anche per il riscaldamento (è il caso della Bulgaria), non supera i sessanta euro mensili.

Insomma, “non è mai troppo tardi per realizzare i propri sogni”, si legge nella home page di un’altra agenzia che fornisce assistenza per servizi amministrativi e tecnici, dalla consulenza fiscale o immobiliare all’organizzazione di eventi e corsi per chi già si è trasferito. In un Paese dove il regime fiscale è agevolato sia per il lavoro autonomo e dipendente sia per gli investimenti, dove l’IVA non esiste ed è sostituita da un’aliquota unica, corrispondente al 7 per cento e in cui il costo della vita è molto basso, dicono.

Dove la benzina costa poco più di un euro al litro, un pacchetto di sigarette due euro e sessantatre centesimi, il noleggio di una macchina per un mese, con un chilometraggio illimitato, trecentocinquanta euro. Dulcis in fundo, il sistema sanitario (in questo caso, delle Canarie) è eccellente.

Perché no, dunque? I numeri, dati INPS del 2014, parlano chiaro: in Europa si riscontra un incremento del 5,7 per cento rispetto all’anno precedente, passando da circa duemila e trecento pensionati, soprattutto fra i sessanta e i sessantaquattro anni, fuggiti nel 2010 a oltre cinquemila solo nel 2015. Per loro, l’importo medio mensile è più elevato, a rappresentare che emigrano titolari di pensioni medio-alte, tipo pensionati cessati al pubblico impiego che si trasferiscono all’estero per sfruttare la propria esperienza professionale Oltralpe.

Principalmente in Svizzera, Germania, Francia, Spagna, Belgio, Romania, Slovenia, Gran Bretagna e Polonia. Novità degli ultimi anni, l’esodo dei pensionati militari, i quali, dopo essere diventati titolari di pensione, sono ‘fuggiti’ dal Belpaese: rappresentano il 23,5 per cento del totale delle pensioni pubbliche pagate oltre i confini nazionali. Coraggiosi i pensionati dello Stivale, disposti a imparare una nuova lingua per vivere una nuova vita.

di Tania Careddu

Dal 2011 è in calo. Nel 2015, solo il 42 per cento degli italiani che sanno far di conto ha letto almeno un libro in un anno. Troppo pochi. Tanto quanto il numero di libri che possiedono: solo il 64,4 per cento ne conta al massimo cento nella libreria domestica e una famiglia su dieci non ne ha nemmeno uno. Sebbene i lettori più assidui abbiano fra i quindici e i diciassette anni, la scuola non basta: l’ambiente famigliare è un fattore determinante nella misura in cui i genitori leggono libri.

Se ne leggono, in media, uno al mese, sono ‘lettori forti’, pari al 13,7 per cento; quando ne leggono non più di tre all’anno, cioè il 45,5 per cento, sono ‘deboli’. Più forti le femmine dei maschi, i laureati rispetto a chi possiede la licenza media. Più al Nord, con il Nord Ovest da record, e nei comuni centro di aree metropolitane versus i comuni con meno di duemila abitanti, che al Sud. Dove meno di una persona su tre ha letto almeno un libro; nelle Isole, invece, sono in aumento rispetto all’anno precedente.

Una crescita che fa aumentare anche la partecipazione culturale: fra i lettori, infatti, sono più elevate le quote di quelli interessati pure ad altre attività culturali. Che praticano sport e navigano in internet, frequentano musei, teatri e cinema; ascoltano concerti e sfogliano un quotidiano almeno una volta alla settimana. Raggiungendo livelli più alti di soddisfazione per il proprio tempo libero e per la propria situazione economica.

A proposito della quale, nel 2014, le famiglie del Belpaese hanno speso per i libri, poco più di tre milioni di euro, cioè undici euro al mese, utilizzando lo 0,4 per cento della loro spesa complessiva (sic). Dirigenti, imprenditori, liberi professionisti, direttivi, quadri e impiegati raggiungono livelli di lettura superiori alla media contro operai, casalinghe e disoccupati. A conferma che la minore disponibilità di reddito riduce anche le opportunità culturali.

Proprio le disponibilità economiche sono le caratteristiche costitutive dei non lettori, che rappresentano la metà della popolazione in ben quattordici regioni italiane su venti, con un primato negativo per la Campania e la Puglia, le quali appaiono persistenti negli ultimi quindici anni e confermano fattori di disuguaglianza e di svantaggi di natura quasi strutturale. Per il superamento dei quali è certamente fondamentale la biblioteca, se non fosse però che nello Stivale, una su due di queste istituzioni chiave per la promozione della lettura (e quindi della cultura per tutti) ha sede nelle regioni settentrionali.

Da precisare che la non lettura coesiste con altre pervasive forme di esclusione e genera atteggiamenti pessimistici. Che non possono non cogliere anche chi legge il report dell’Istat “La lettura in Italia”, laddove c’è scritto che il Belpaese si trova in netto svantaggio rispetto alla media Ocse: ventunesimo posto per i giovani fra i sedici e i ventiquattro anni e ventesimo per la fascia d’età che va dai cinquantacinque ai sessantacinque anni.

Ultimi in classifica: i maschi, le persone con istruzione di livello universitario, i lavoratori qualificati e non e persino i madrelingua italiani. Parafrasando il titolo di un libro di Frank McCourt, ‘Che Paese, l’Italia’.

di Tania Careddu

“Se ti fu provato inequivocabilmente che Elio Prisco era in tale stato di furore da avere perduto ogni discernimento per un incessante delirio della mente e che non vi è sotto alcun sospetto che la madre sia stata da lui uccisa simulando follia, puoi trascurare la sua condanna, essendo egli punito a sufficienza dallo stesso furore; tuttavia, sarà da sorvegliare più attentamente e, se credi, anche da tenere in catene: dal momento che il carcere avrà come scopo non tanto la punizione, quanto la sua protezione e la sicurezza di coloro che gli sono più vicini”, risposero così Marco Aurelio e Commodo a Tertullio Scapula, nel libro primo dei Digesti.

Parte da qui - e vi è racchiuso tutto il controverso rapporto fra diritto e psichiatria - il concetto, tanto discusso, della capacità di intendere e di volere. Con furor, in cui vengono meno le capacità intellettuali e l’uomo che ne è colpito diventa irresponsabile, e insania, in cui prevale l’assenza di calma ed equilibrio. E con la pietas, che salva il malato di mente dalla pena. Che va assistito e non punito.

Secondo quanto racconta la psichiatra e psicoterapeuta Maria Rosaria Bianchi, in occasione del convegno ‘Diritto, Psichiatria e Società civile. Una convivenza difficile’, organizzato dall’associazione di promozione sociale Carminella e svoltosi alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, fra la demonologia, i tribunali della Santa Inquisizione Romana, per i quali i rei rompevano il patto con Dio, e i Philosophes, che non riusciranno a escogitare rimedi alternativi alla Bastiglia, si arriva al superamento della giustizia come vendetta.

Ma è, ovviamente, lungi da venire (almeno come idea embrionale) il superamento del carcere, il quale rappresenta la difficoltà di gestire fenomeni sociali dentro i quali c’è tutta la malattia mentale. Si faranno, ancora per lungo tempo, i conti con i metodi repressivi come il manicomio criminale e quello civile per l’internamento. Obbligatorio per qualsiasi malato di mente “pericoloso per sé, per gli altri o di pubblico scandalo”. La pericolosità sociale, con il Codice Rocco, assume una rilevanza giuridica: pur se il reo è riconosciuto infermo di mente e per questo prosciolto, non esce fuori dal circuito penale, stando in quello delle “misure di sicurezza personali detentive”.

Bisognerà attendere gli anni settanta per vedere realizzata l’abolizione dell’iscrizione dei malati mentali nel casellario giudiziario e riconosciuta agli psichiatri un’identità sanitaria al posto di quella di guardiania poliziesca che li aveva finora caratterizzati. Più tardi, i manicomi giudiziari diventano Ospedali Psichiatrici Giudiziari, a esaltarne l’identità sanitaria rispetto a quella (precedente) penitenziaria.

Con l’effetto, piuttosto, di “penalizzazione della malattia mentale e il conseguente sovraffollamento delle strutture giudiziarie”. Senza alcuna idea di cura, relegando i malati di mente alla custodia e al diritto penale. Che, invece, dovrebbe viaggiare verso lo scopo per il quale è nato: separare il concetto di vendetta da quello di giustizia.

Diritto e psichiatria dovrebbero parlarsi. E non relegare i loro rapporti alla storia dell’abitare gli stessi luoghi. E’ il parere della ricercatrice di Diritto Penale dell’Università Roma Tre, Antonella Massaro. La difficoltà di comunicare è legata sostanzialmente all’osticità di condurre un accertamento, già di per sé complesso, quale quello relativo al vizio di mente, secondo i meccanismi e i principi che caratterizzano il processo penale.

Di più: il giudizio normativo non può prescindere da quello scientifico che spesso, però, riconduce la malattia mentale a una matrice biologico-oggettiva, trascurando i fatti personali. Con il risultato che, sempre più frequentemente, l’ultima parola resterebbe affidata a un volontarismo giudiziario arbitrario, cognitivamente inadeguato e teleologicamente disorientativo.

Il delicato, sottile e labile rapporto tra giustizia e psichiatria (e tra crimine e follia) chiama in causa, a detta della consigliera della Regione Lazio, membro della Commissione Politiche sociali e salute, Marta Bonafoni, la ricerca di equilibrio tra il diritto alla sicurezza della società civile e i diritti umani. Di quei folli rei che non vanno solo custoditi ma curati. Come risarcimento alla società civile. Perennemente in bilico tra le esigenze di custodia e quelle di cura del soggetto internato, nella consapevolezza (di pochi) che la necessità di difesa sociale non possa condurre a un sacrificio della salute del singolo.

Per un reale (ora si può) superamento dell’istituto di pena, auspicato caldamente tanto nel mondo del diritto dal presidente della Commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi, quanto in quello della psichiatria dal professor Massimo Fagioli.


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