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di Tania Careddu
In Italia, ogni anno, fra le donne lavoratrici si verificano duecentocinquantamila eventi lesivi che ne pregiudicano l’integrità psicofisica. Alla fine del 2012 si contano novantaseimila donne ‘disabili da lavoro’. Con lesioni, soprattutto, di natura motoria, derivanti dall’impatto traumatico che caratterizza l’infortunio, con danni agli arti inferiori o superiori e alla colonna vertebrale.
Diecimila donne sono affette da disabilità di tipo psicosensoriale, vedi ipoacusia o cecità, e circa quattromila riportano lesioni di natura cardiorespiratoria, risultanti dall’effetto subdolo e prolungato dell’insorgenza della malattia professionale. E seicento donne hanno un’invalidità assoluta. L’età media delle lavoratrici coinvolte è stimata intorno ai settanta anni e il 90 per cento di loro è ultracinquantenne.
Si ammalano, in particolare, le donne del Mezzogiorno, prevalentemente in Campania, in Sicilia e in Puglia, e del Centro, in Toscana e in Umbria, dove si riscontra la maggiore concentrazione di donne disabili da lavoro, meno quelle del Nord, in Emilia Romagna e Lombardia. Quelle che lavorano nei settori industria e servizi, agricoltura e professioni sanitarie, nell’ambito delle quali le infermiere detengono il primato, sono le più colpite. Ma gli infortuni più gravi, quelli che causano i maggiori gradi di menomazione, sono quelli ‘in itinere’. Ossia, quelli che hanno luogo nel percorso casa-lavoro-casa: per le donne che lavorano, il pericolo più reale e diffuso (ne sono colpite circa cinquecento ogni anno) è rappresentato dal percorso di andata o ritorno dal lavoro perché “si può considerare il segmento temporale in cui si concentrano tutti gli stress derivanti dalle molteplici difficoltà di conciliazione lavoro-casa-famiglia con inevitabili riflessi sul piano della lucidità e concentrazione e quindi della sicurezza”. Al di là dei grandi numeri, a contare, secondo quanto si legge nell’indagine dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi del Lavoro (ANMIL) ‘Tesori da scoprire: la condizione della donna infortunata nella società’, a contare è, appunto, la condizione della donna nella società dopo aver subito un infortunio sul lavoro, dimostrandosi una componente “fondamentale e solida”.
Dai dati emersi, infatti, si nota che tende a ricercare in se stessa le risorse per riprendere la propria vita quotidiana. Che continua a essere costituita dall’occuparsi della casa e della famiglia, dall’essere un punto di riferimento nell’ambito del proprio contesto famigliare, primo luogo di importanza per il processo di superamento del trauma, seguito dalla necessità di mantenere attiva e integra la sfera sociale. Ovviamente, non basta: il 42,5 per cento delle donne intervistate soffre ancora di angoscia o ansia e da qui il bisogno, per il 16,5 per cento di loro - che raggiunge il 36 per cento fra le donne sotto i cinquant’anni -, di un sostegno psicologico.
Per buona sorte, le donne infortunate non si sentono discriminate in quanto donne e, per di più, disabili. Anzi, i dati mostrano una buona integrazione nella sfera lavorativa sia nei rapporti con i colleghi sia nell’adeguamento alla (nuova)mansione professionale, anche se non può essere ignorato quel 23,5 per cento di donne che ha perso il lavoro perché spinto a licenziarsi in seguito alla persistenza di un comportamento illecito agito dai datori di lavoro che rifiutano di considerarle come una risorsa. Così come non può essere messa tra parentesi quella minoranza che, in seguito all’infortunio e con l’aumentare del grado di disabilità, subisce l’allontanamento del compagno, soprattutto fra le giovani e fra quelle del Nord, dove, però, è anche più facile costruire un nuovo rapporto sentimentale. Abbastanza autonome negli spostamenti fuori e dentro casa, facile accesso negli uffici pubblici, soprattutto nell’Italia settentrionale, e grande disponibilità fra la gente, quello che profondamente non va è la carente conoscenza e la poca consapevolezza, a prescindere dall’età, dal grado di invalidità e dall’area geografica, della proprie responsabilità e di quelle altrui riguardo al verificarsi o meno di un infortunio sul lavoro: solo il 25,5 per cento del campione, infatti, attribuisce la causa di quanto accaduto a qualcosa o a qualcun altro con un evidente ricaduta sulla propria distrazione o assenza. Manca la certezza che se le condizioni di lavoro fossero adeguate riuscirebbero a prevenire anche gli infortuni causati da distrazione.
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di Tania Careddu
Che il cohousing fosse un strategia di sostenibilità è risaputo, in Danimarca, dagli anni sessanta. Che l’Italia lo abbia ereditato, negli anni novanta, intuendone le potenzialità, pure. Che sia un piano strategico adatto ad affrontare positivamente crisi economica e mal di solitudine della terza età, invece, lo si scopre ora. In uno studio, curato dall’architetto e ricercatore del CRESME, Sandro Polci, che considerando le condizioni abitative degli anziani e abbinandole a quelle economiche, vede nel silver cohousing “una delle esperienze più innovative nel campo della residenzialità e dell’inclusione sociale.
Si tratta di uno strumento per l’approccio sistemico alle nuove forme di socialità, attraverso la costruzione e la realizzazione di comunità residenziali nelle quali i singoli soggetti collaborano, coabitano, condividono e cooperano insieme con un obiettivo comune”.
I dati parlano chiaro: la popolazione anziana è in veloce aumento, con un incremento del 155 per cento dal 1961 al 2011 e con la previsione di un incremento del 33 per cento per il 2050. La situazione economica è preoccupante giacché il 45,9 per cento dei pensionati percepisce una pensione inferiore ai mille euro mensili e un milione e rotti di loro ne ha una sotto i cinquecento euro al mese.
Arrivare alla fine del mese è un impresa, visto che l’80 per cento dell’assegno è speso per tre voci - casa, bollette, spesa. Infine, anche sul piano abitativo la situazione non è rosea: solo il 32,70 degli anziani vive da solo e in case di proprietà; nel 61,2 per cento dei casi l’abitazione ha un numero di vani superiore a quattro, è in condizioni mediocri, non ha un vero e proprio impianto di riscaldamento ed è priva di ascensore.
Va da sé che il silver cohousing è la soluzione per incrementare la capacità di spesa degli anziani, destinando le risorse rimanenti ad aumentare il loro benessere; utilizzare al meglio il patrimonio immobiliare mal distribuito; riscattare gli anziani dai problemi della solitudine, dell’isolamento e dell’esclusione, ovviando ai problemi di mancata assistenza; superare gli ostacoli legati alle cure sanitarie a favore di un’assistenza domiciliare meglio organizzata.L’indagine Silver cohousing nasce con l’intento di “stimolare la realizzazione di un programma sperimentale che favorisca la condivisione di alloggi esistenti tra due o più coinquilini consentendo la razionalizzazione nell’uso del patrimonio immobiliare esistente, soprattutto da parte di anziani che vivono soli, che sono numerosi e in costante aumento.
L’individuazione di condizioni di razionalizzazione del patrimonio immobiliare abitato dagli anziani consente di pensare anche a un’ottimizzazione delle risorse economiche legate alla quotidianità”. Generando una “liberalizzazione delle risorse” pari a 352 euro al mese a nucleo familiare per nucleo di due anziani fino a 1.028 euro per nucleo di quattro persone. E in un range esteso, da un minimo di 422 milioni di euro fino a un massimo di 2.466 di euro.
Quanto al patrimonio immobiliare, tale politica potrebbe reimmettere sul mercato da centomila a duecentomila alloggi oggi occupati da un solo anziano e da sessantamila a centoventimila abitazioni di grandi dimensioni. Anche se “bisogna evitare che il patrimonio degli anziani venga svalorizzato e perda le caratteristiche di risorsa”.
Parola della direttrice di “Abitare e Anziani”, associazione nazionale nata con l’obiettivo di migliorare le condizioni abitative della terza età, Assunta D’Innocenzo. La quale sostiene che il silver cohousing è “una risposta possibile ma va approfondita, cioè può essere una buona strada se si formano le occasioni, ossia se le istituzioni o le associazioni possano fare da filtro e governare questo processo”.
Nel senso che, a differenza del cohousing che consente di progettare insieme la propria vita, nella accezione silver il processo è piuttosto complicato: “Sono situazioni che si devono autopromuovere, è più difficile liberare un patrimonio perché persone anziane possano andare a vivere insieme”. Però accade, anche in barba ai pregiudizi: “Due consuocere - racconta D’Innnocenzo - hanno venduto le loro rispettive abitazioni e ne hanno acquistato una insieme, vicino ai figli”.
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di Rosa Ana De Santis
Basta percorre una strada statale come la Via Salaria, a dieci minuti dal centro di Roma e dai quartieri bene, anche all’ora di cena. Le troverete appostate, in accomodamenti di fortuna ma stabili, le prostitute. La maggior parte giovanissime, poco più di adolescenti, con accento dell’est. Non di rado capita di vedere qualcuna incinta. Una signora che le organizza e qualche uomo di guardia che spunta. Infine macchine di tutti i tipi e clienti che ogni notte vanno a caccia indisturbati. Non mancano saltuariamente carabinieri e polizia municipale, ma lo spettacolo la sera successiva torna a ripetersi con assoluta tranquillità.
Il convegno in corso a Torino del Gruppo Abele sul fenomeno della prostituzione prova a tracciare un ritratto sociologico dei clienti. E’ impossibile individuare una tipologia specifica dei 2,5 milioni di uomini che pagano per il sesso da strada. Italiani, sposati ma anche stranieri e uomini soli. Sacerdoti, maschi giovani ma anche anziani e molti anche con un titolo d’istruzione alto.
Varietà assoluta della clientela che corrisponde a modalità diverse di approccio con le prostitute. Molti preferiscono le straniere schiave perché con meno potere di negoziazione nello scambio di sesso e denaro e probabilmente più soggiogabili nel rapporto sessuale.
I due grandi sottogruppi sono rappresentati da coloro che nella prostituta cercano un rapporto complementare a una relazione stabile, l’altro da uomini soli che nel sesso mercenario vedono l’unica possibilità di appagamento e l’unica chance.
Il dramma italiano è aver respinto la coscienza del fenomeno della prostituzione, aver chiuso le case delle prestazioni, aver espulso dalla norma la questione - un tipico atteggiamento di rimozione culturale made in Italy - per aver permesso di tollerarlo in modalità squallide, pericolose, ben più plateali e spesso contigue a scellerate violenze, nonché alle mafie che proliferano nell’entrata di donne schiave, di clandestine, di anonime senza documenti lasciate alla mercè dei clienti.
Come le scene dei bordelli sotto al cielo siano tollerabili nel Paese del buon costume, della famiglia, delle leggi ad alto tasso di eticità è il segno della contraddizione assoluta che attraversa il rapporto tra legge e morale in Italia. La confusione tra i valori in cui credere e la necessità di una legge che intervenga su fenomeni dilaganti e criminali come quello della prostituzione, magari anche con finalità restrittive ed educative, è da sempre materia incandescente.Da una parte è prova di ipocrisia culturale annidata nel corredo genetico dell’italiano fintamente cattolico e di un problema mai risolto e metabolizzato rispetto al sesso e alla libertà delle donne; dall’altra un comodo alibi per i maschi fruitori dei corpi a pagamento per rimanere anonimi, non esibire un documento, non entrare nelle case del sesso e continuare indisturbati la recita dei padri di famiglia al mattino seguente.
La distinzione tra etica e morale è ciò che consente alla legge di essere valida a prescindere dai valori e disvalori di ognuno, di assicurare protezione alle vittime della tratta che sono senza dubbio l’anello più debole dell’oscena catena, ma anche alla moglie di quel cliente che rischia ogni giorno di essere contagiata dalle malattie del sesso.
Normare un fenomeno obbliga a vederlo e a prenderne atto. A inserirlo nel tessuto sociale, a condannarlo e reprimerlo anche, ma in parallelo ad educare, a prevenire, a informare. L’evoluzione morale e politica di un paese liberale non va mai avanti a colpi di esami di coscienza. E’ questa la scommessa che rischia di perdere la legge italiana sui fronti dei diritti individuali, delle scelte morali e dei valori.
Espellerli dalla legge non significa rinunciare a dire che a norma di legge è un reato acquistare sesso per strada da una ragazzina schiavizzata. Mentre non lo è entrare in una casa chiusa e comprare sesso a ore da una donna che sceglie di farlo. Il disvalore di questo secondo caso non è sovrapponibile all’immoralità e illegalità del primo. Quello scenario di macelleria squallidamente erotica che anche all’alba di oggi avrà lasciato agli angoli delle strade immondizie, rifiuti, calze, profilattici e file di bottiglie, mentre alla fermata in tanti aspettano l’autobus per andare a lavoro. O, peggio ancora, a scuola.
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di Tania Careddu
Sebbene il nostro sistema sanitario sia tra i pochi al mondo in grado di garantire gratuitamente ai cittadini un’efficace e capillare assistenza sociosanitaria, pur ammettendone una serie di criticità, in Italia dal 2006 al 2013, la povertà sanitaria, intesa come impossibilità di accesso ai farmaci, è aumentata del 97 per cento. Complice la crisi che, colpendo le famiglie, dapprima sulla capacità di acquistare gli alimenti, il vestiario, e i generi di consumo, ora mina anche quella di comprare le medicine.
A testimoniarlo, il primo Rapporto “Donare per curare” sulla donazione farmaci e povertà sanitaria, realizzato dalla Fondazione Banco Farmaceutico Onlus e da Caritas Italiana.
I numeri: le famiglie povere italiane spendono circa sedici euro al mese per acquistare i farmaci rispetto ai novantadue spesi in media dagli altri nuclei famigliari. Per colmare questa forma di povertà, la Fondazione Banco Farmaceutico ha donato 1.162.859 farmaci, le aziende 812mila confezioni e le farmacie 350mila, aiutando, solo nel corso del 2013, seicentottantamila persone. Fra le quali, quelle che fanno maggior richiesta sono le famiglie numerose, gli anziani con pensione minima, gli immigrati, soprattutto quelli irregolari. Ma anche gli italiani, la cui presenza, negli ultimi due anni, è diventata maggioritaria.
Perché, come ha dichiarato all’Agenzia Dire (che è stato il media partner della presentazione del Rapporto, avvenuta qualche giorno fa), il presidente del Banco Farmaceutico, Paolo Gradnik, “questo è un problema della popolazione italiana. Si nota che, nonostante l’aumento dell’impegno del no profit per dare il proprio contributo, si allarga la forbice tra bisogno e capacità di rispondere”. Un gap confermato anche dal presidente di Assosalute, Stefano Brovelli, il quale afferma che “il numero dei poveri è aumentato, il numero dei bisogni è aumentato e quindi occorre liberare il potenziale di donazione delle aziende che è molto alto”.
Mancando, però, una cultura formativa del privato sulla donazione dei farmaci, sarebbe indispensabile un corpo normativo unico. Che dal 2006 a oggi si è tentato, in maniera embrionale, di mettere a punto. Con il decreto legge 219 del 2006 nell’articolo 157 vengono “individuate le modalità che rendono possibile l’utilizzo, da parte di organizzazioni senza fini di lucro, di medicinali non utilizzati, correttamente conservati e in corso di validità”, con la legge 244 del 2007, introdotta poi nella Finanziaria 2008, all’articolo 2 si specifica che le residenze sanitarie, le asl e le organizzazioni no profit possono riutilizzare per i propri assistiti le confezioni di medicinali integri, in corso di validità e ben conservati.L’ultimo atto in materia è all’esame del Parlamento e consentirebbe, se approvato, alle aziende farmaceutiche di donare quei farmaci integri e pronti da consegnare che sono sottratti al circuito commerciale per diverse futili ragioni.
E Perciò, sostiene Gradnik, siccome “in alcuni casi si tratta di vera emergenza, è quanto mai urgente che la commissione Sanità del Senato approvi in via definitiva la proposta di legge che consentirebbe la donazione di farmaci da parte delle aziende farmaceutiche.
E’ ora che la politica dia segnali concreti sul fronte della povertà sanitaria”. Una condizione, questa, che muove necessariamente da una premessa intercettata già nel 2003 da un’indagine, volta a esplorare il legame tra povertà e accesso ai servizi sanitari, che ha preso il via a seguito della firma di un protocollo d’intesa tra la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG) e la Caritas Italiana.
E cioè che i gruppi sociali maggiormente svantaggiati, vedi i giovani, le donne, i malati cronici, i detenuti, gli immigrati, coloro che commercializzano il proprio corpo a scopi sessuali, i rimpatriati, presentano peggiori condizioni di salute rispetto alla popolazione ricca, con un indice di mortalità più alto, causa gli stili di vita, le condizioni poco favorevoli di lavoro, i fattori ambientali, la scarsa dotazione di risorse materiali. Le uniche a cui attingere: i medicinali donati gratuitamente. Forse.
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di Rosa Ana De Santis
Oggi, 27 gennaio, è giorno della memoria. La shoah e la questione ebraica rappresentano certamente il male assoluto da ricordare. Ma non sono meno impressionanti i numeri di un altro Olocausto. Zingari (rom e sinti), omosessuali, disabili, finiti nei campi di sterminio senza nemmeno numeri definitivi che possano dirci quanti siano caduti sotto la mattanza nazista. Oltre 10 mila omossessuali. Molti addirittura i sopravvissuti che furono arrestati nuovamente in Germania perché il paragrafo del codice penale che li voleva condannati rimase in vigore fino a molti anni dopo.
In Italia non vi era una norma specifica contro l’omossessualità, ma questo ha reso ancor più sommerso il fenomeno e le forme odiose di tortura, discriminazione e sterminio. Una nemesi che sembra accompagnare lungo tutto la storia le vicende del nostro Paese.
La Giornata della memoria, se vuole continuare a raccontare qualcosa dell’orrore del Novecento europeo, non può essere soltanto tappa simbolica o narrazione dei martiri sopravvissuti. Deve necessariamente assolvere ad una funzione demiurgica della realtà storica, esserne sentinella. Magari servirebbe anche allo Stato d’Israele nei confronti dei palestinesi?
Parlare dell’Olocausto “minore” è importante ancor più oggi che forme di ghettizzazione, privazione dei diritti, denigrazione persistono se pur acconciate in modo all’apparenza più bonario e meno violento. Persistono con fenomeni di violenza spot, con desistenza a riconoscere specifici diritti, a normare con sistemi di protezione speciale ed emergenziale quelle quote di popolazione che patiscono discriminazioni a vario titolo: la prima non essere nominati dalla legge.
Se non esiste una norma e un diritto viene negato, semplicemente quel fenomeno non esiste, né l’abuso, sia in termini ufficiali e legislativi che nella percezione generale del fatto. Ed è così che un sistema sociale non evolve e non impara ad includere le “differenze”, continuando a gestirle come anomalie se non vere e proprie devianze. Se il passato serve, serve ad andare avanti.
Le iniziative di commemorazione sono tante e inizia Bologna proprio ricordando lo sterminio degli omossessuali, come anche Firenze. Segue Roma con una serie di eventi dedicati alla persecuzione fascista di rom e sinti e con il racconto del nazismo con gli occhi dei sordo–muti: i bambini di allora che osservavano atterriti il massacro delle giornate di occupazione.Soprattutto in questa fase storica in cui il nostro Paese affronta sfide cruciali come i diritti degli omosessuali, l’integrazione su tutti i fronti e il nodo irrisolto delle comunità nomadi ricordare l’altra Memoria assolve una funzione importante di monito e di giudizio. In certa misura l’antisemitismo attraverso l’inferno della Shoah ha trovato un suo antidoto di ferro nella cultura e nella legge, come mai in passato quando spesso gli ebrei erano vittime di abusi e discriminazioni. Questo tipo di risarcimento commemorativo, omosessuali, zingari e disabili non l’hanno avuto perché meno narrati, più invisibili, meno contati e forse meno sopravvissuti.
L’orrore nazista di eliminare il diverso in ogni forma che si scostasse dal canone comune forse trova più in questo Olocausto che in quello degli ebrei, ancorato moltissimo anche a ragioni economiche e strategico-politiche, la sua affermazione più diabolica e immorale.
Un male che oggi è solo più sottile e infiltrato. Eppure anche quel male nazista, quel meccanismo burocratico di eliminazione a tappeto era, come scriveva Arendt, miseramente banale e per questo invisibile, fino a quando i soldati dell’Armata Rossa sovietica che aprirono i cancelli di Auschwitz resero noto al mondo il genocidio nazifascista, la peggiore tragedia della storia dell’umanità.