di Rosa Ana De Santis

Su Lampedusa e sull’ultima tragedia umanitaria, la politica non ha potuto esimersi dell’intervenire. C’è l’umanità del dolore, il tema morale dell’accoglienza, ma c’è anche un imperativo ineludibile sul cosa fare, i provvedimenti, lo Stato. Le due facce del problema camminano insieme anche per dare risposte ad un sistema Italia collassante e sempre meno attrezzato a gestire adeguatamente questi flussi continui di immigrati.

Non si può pensare però seriamente alla politica sull’immigrazione senza fare i conti con la mafia. La stessa che flagella la storia italiana fin dall’Unità. La stessa che, stranamente silenziata, ricorda con episodi e casi giudiziari illuminanti di non esser stata sconfitta.

Il viaggio dei disperati è un succulento business che vede le mafie del Nord Africa, nel caso specifico delle rotte del mare, in combutta con quelle di casa nostra. Si paga il pizzo per lanciare barconi e scafisti, si falsificano i documenti e le richieste di lavoro. Sono sporchi anche gli appalti dei CIE dove i soldi arrivano, ma non finiscono a dare strutture dignitose agli stranieri trattenuti. Rette altissimi, servizi da denuncia. Tutti paghiamo, ma chi incassa?

A questo proposito, Padre Tonio dell’Olio, responsabile area internazionale di Libera, solleva l’urgenza di far nascere una speciale allerta su questa rete di mafie da parte della Commissione Parlamentare che vede a capo adesso Rosy Bindi. Anche il discorso sulla malavita dovrà quindi aggiornarsi se davvero la politica vuole affrontare il dramma, in primis umanitario, dell’immigrazione clandestina.

Notizia ultima la morte di stenti di 92 migranti nel deserto del Niger, tra cui 52 bambini. Questo è uno dei luoghi da cui inizia il viaggio verso la Libia e l’Algeria. Innumerevoli i resti di corpi umani essiccati al sole in quella terra di mezzo che prepara le traversate disperate. L’ecatombe non è solo Lampedusa, il cimitero dei disperati inizia da lontano e la sequela di notizie tragiche ci restituisce tra i tanti sentimenti, la certezza di quanto sia inarrestabile questa disperata necessità di esodo.

Sappiamo per certo che la fuga da paesi infernali non si fermerà e che su questa disperazione banchetta una globalizzazione illegale e mafiosa. Intervenire su questa carneficina e ripristinare legalità è un modo, forse il primo e ineludibile, di fare una politica seria sull’immigrazione e un passo, comprensibilmente scomodo, per non fare sconti sui carnefici e sulla loro “identità’”.

di Rosa Ana De Santis

In un volo a picco di undici piani, a Roma in zona Casilina, muore un giovane di 21 anni. Il suicidio, su cui le indagini sono in corso, è avvenuto nella notte del 26 ottobre. Una lettera indirizzata ai genitori per confessare l’identità sessuale, il tormento, il “non stare bene in questa vita”. Tutto da dimostrare se avesse subito angherie o vessazioni a causa del suo orientamento sessuale. L’allarme c’è in ogni caso dato che si tratta di un ennesimo episodio, il terzo suicidio in un anno in una fitta costellazione di episodi discriminatori e di vera e propria violenza.

Si è subito levata la voce di Sel e dell’Arcigay per rammentare, sull’onda di questo triste fatto di cronaca, come la questione sull’omofobia sia ancora del tutto aperta, a partire da un testo di legge che è riuscito a procurare forse più problemi di quanti fosse chiamato a risolverne.

La questione dell’omosessualità in un orizzonte culturale come quello italiano è certamente ancora un tema aperto e non pienamente metabolizzato nella cultura familiare prima e quindi sociale poi per derivazione diretta. Proprio in virtù di questo, in attesa che alcuni processi di integrazione si compiano, la norma deve intervenire a sanare e prevedere speciali tutele per una categoria di persone di fatto più deboli.

Si tratta di un tipico caso in cui è la legge e il sistema politico che possono, in una fase di emergenza sociale, sanare ferite drammatiche sul piano personale e privato. Ancor più drammatiche se le vittime sono giovanissimi e adolescenti.

La legge sull’omofobia, con primo firmatario Scalfarotto del Partito Democratico, è di fatto un allargamento della legge Mancino del ‘93 che condanna le istigazioni alla violenza perpetrate per motivi etnici, razziali e religiosi. La fattispecie introdotta sulle questioni sessuali e sulla comunità Lgbt ha subito però un’insidiosa rivisitazione con l’emendamento di Gitti di Scelta Civica che spiega gli atti discriminatori come quelli portati avanti da organizzazioni e associazioni.

Una sorta di difesa sacra della libertà di pensiero che però autorizza, di fatto, chiunque ad insultare un omosessuale senza che questo rappresenti un’aggravante. Se siamo a questo punto risibile figurarsi parlare di altri diritti quale il riconoscimento delle unioni e coppie gay. Distanze siderali con l’Europa.

La storia di questo giovane che probabilmente era segnata da un turbamento tutto privato ed intimo, magari pur non necessariamente aggravato da episodi di abusi e discriminazione, rappresenta in ogni caso un monito per la vita pubblica di un paese. I drammi psicologici privati, anche nel contesto familiare, possono incappare in solitudini senza scampo, in incomunicabilità, in depressione

La legge dello Stato, il Super Io come lo definirebbe Freud, può assolvere, sul piano simbolico del Padre, non soltanto una funzione di repressione e di speciale tutela, ma anche di educazione e ancor prima di visibilità. Normare è dare un nome, assegnare un’identità a persone ancora invisibili.  Dare loro un luogo. Quello che forse questo giovanissimo faticava a trovare anche dentro le mura di casa o nei luoghi dei suoi affetti.

Per questo smarrimento la legge può fare molto. Per sanare le ingiustizie, qualora questo ragazzo nel silenzio ne avesse patita alcuna, o più semplicemente per attestare la legittima esistenza delle differenze, per non trasformarle in anomalie, per dire a quel cittadino che oggi è minoranza “Io ti difendo”.

A volte è possibile e utile tracciare questo percorso dal fuori al dentro, dalla legge dello Stato a quella dell’affetto per riuscire a verbalizzare, al posto di quel cittadino oggi più debole di altri,  che lo stato è pronto a difenderlo non perché è gay. Ma che in quanto gay, in quanto di pelle scura, in quanto ebreo, in quanto straniero, in quanto donna, lo Stato lo riconosce nella differenza e nell’eguaglianza dei diritti.

La difesa giuridica non è quindi presupposta da un’assimilazione ad un presunto canone neutro di normalità, ma all’opposto sul riconoscimento della sua irriducibilità. Quella che alla fine dei conti, forse un giorno saremo pronti a vederla, ci separa tutti dai tutti. E’l’assoluta differenza che ci fa esistere e ci rende titolati a riscuotere diritti. E’ l’assoluta differenza che può diventare un peso troppo grande sulle spalle di un giovane che non aveva ancora trovato le parole per esprimere nemmeno ai suoi cari la sua idea di vita felice.

di Silvia Mari

Ancora una volta è un tribunale a smentire la mano del legislatore sul tema della fecondazione assistita e della contestatissima legge 40 che ha lasciato a piedi numerose coppie e penalizzato fortemente la salute delle donne. Tra i pilastri del testo il divieto all’eterologa, il numero massimo di embrioni da impiantare e il secco no alla diagnosi pre-impianto dell’embrione per le coppie portatrici di malattie.

E’ soprattutto quest’ultimo aspetto ad aver inflitto un’ulteriore penalizzazione verso quelle coppie portatrici di malattie genetiche che come tali hanno un rischio variabile di trasmissione ereditaria. Il caso riguarda una coppia fertile affetta da fibrosi cistica e la diagnosi avverrà, come intimato dal Tribunale all’Asl, nel centro ospedaliero pubblico S. Anna, presso l’unità diretta dal Prof. Calicchia.

Una vittoria per questa coppia di genitori che pretendono di essere messi a conoscenza sull’identità dell’embrione per ragioni sacrosante di salute e non certo per effimeri risvolti di estetica, come tanti insinuano adducendo con semplificazioni televisive lo spauracchio dell’eugenetica che scatena sempre, doverosamente, una buona dose di panico nella coscienza della società civile. Un viatico per non ragionare.

Si tratta infatti di salute e di diritto alla salute, soprattutto per una coppia già segnata da una condizione di patologia. Forse la legge di uno stato autenticamente democratico a queste persone, già discriminate e colpite dalla vita, dovrebbe prestare maggior riguardo piuttosto che abbandonarle su un diritto di conoscenza tanto fondamentale, dato che in precedenza, una beffa bella e buona,  la diagnosi era possibile solo su coppie non fertili. Come se la non fertilità fosse la malattia e non la microcitemia o altre patologie ben più gravi e invalidanti.

In un Paese pienamente evoluto in termini di diritti individuali e cultura liberale questa coppia non avrebbe l’obbligo dell’impianto dell’embrione, una volta accertata la presenza o meno della patologia. Il sadismo della legge prevede infatti che la donna sia costretta a farsi impiantare l’embrione malato, salvo poi poter ricorrere all’aborto (peraltro in questo caso terapeutico) secondo i criteri della legge 194. E’ facile intuire che vietare la diagnosi pre impianto è funzionale a inficiare la scelta delle donne in materia di interruzione di gravidanza o, ancor peggio, a veicolarla come una colpa da scontare, con buona dose di sadismo aggiuntivo, entro i tre mesi post impianto.

Se la legge italiana prevede come legittimo il diritto all’aborto, se lo ha normato anche nella sua variante terapeutica, non si capisce perché non debba prevederlo quando la diagnosi pre impianto fosse correlata ad una scelta di questo tipo, soprattutto di fronte una diagnosi di malattia conclamata.

Il dubbio è se si tratti di una piena contraddizione al limite dello scivolone o se, come pare più probabile, non siamo di fronte ad un ennesimo condizionamento culturale che vuole togliere alle donne il diritto pieno di scegliere o di tollerarlo a patto che la libertà riconosciuta dalla norma sia sempre accompagnata da una dose intrinseca di educativa riprovazione morale. Ad oggi la legge 40 questo ha fatto, danneggiando il corpo delle donne, il loro equilibrio psichico ed emotivo e specialmente quello delle donne che avevano problemi di salute severi.

A Roma si è aperta un’importante finestra di possibilità e di rivoluzione. Certo è che questa legge ha cambiato volto a suon di casi singoli e di tribunali. Tutto perché la politica non ha avuto il coraggio di mettere al centro il diritto, ma il dovere di strizzare l’occhio all’etica cattolica, come se quella fosse la moralità tout court. Come se non fosse un orrore costringere con la forza della legge una donna a farsi impiantare un embrione malato, senza doverne sapere nulla e senza potersi rifiutare.

La legge 40 è da rifondare, suggeriscono i fatti,  e sarebbe una luce di civiltà vederla rinascere in Parlamento e non nei tribunali dove protagoniste sono le storie di diritti negati. Battaglie che in una democrazia evoluta non dovrebbero essere i cittadini da soli a combattere. E mai, comunque, i più deboli tra loro.



di Giovanna Musilli

Siamo a ottobre inoltrato, è passato un mese dall’inizio dell’anno scolastico. La situazione delle scuole, quando va bene, è avere strutture fatiscenti, classi sovraffollate, insegnanti anziani, stanchi e demotivati. Quando va male, invece, gli insegnanti non ci sono proprio: quelli anziani sono andati in pensione sfruttando una delle ultime occasioni per farlo, le cattedre rimangono scoperte perché il provveditorato non nomina i supplenti annuali e i presidi non hanno soldi per nominare quelli temporanei. Il risultato è che l’insegnamento di alcune materie non è ancora iniziato, non solo nelle prime classi, ma anche nelle classi che dovranno affrontare l’esame di stato a fine anno.

E poi naturalmente ore di buco, uscite anticipate, entrate posticipate, docenti di altre materie e di altre sezioni costretti a lavorare di più per coprire le ore scoperte (ovviamente allo stesso stipendio). Per non parlare dei numerosi docenti (magari da vent’anni) che, come può accadere ogni anno, si sono ritrovati sovrannumerari, per via del fatto che non si sono riformate le classi nel proprio istituto.

Questo caso sfortunato comporta che si vada in DOP (dotazione organico provinciale), il che equivale ad essere mandati a caso in qualsiasi scuola della provincia di appartenenza. Questo peraltro mostra l’enorme conflitto d’interesse che in Italia coinvolge perfino la scuola: se le classi non si riformano, i docenti perdono il posto. Va da sé la conclusione.

Quanto ai supplenti temporanei, abilitati, spesso addottorati e adesso magari perfino vincitori di un (inutile) concorso, per la maggior parte sono disoccupati, a parte quei pochi fortunati che hanno ricevuto l’incarico dal CSA. Questo evento ormai quasi miracoloso ha coinvolto una minoranza di privilegiati con punteggi altissimi, cioè docenti che sono precari da molti anni. I cosiddetti giovani, che ormai hanno ampiamente superato i trent’anni, precari da “soli” sei o sette anni, possono solo sperare in qualche chiamata dei presidi più giudiziosi (che non vogliono lasciare classi scoperte).

Questo tipo di supplenze, quando va bene, arrivano a due o tre mesi, e spesso non sono neppure a orario pieno. Il che implica l’inevitabile atroce speranza che i titolari di cattedra si assentino il più possibile. Dopodiché, da un giorno a un altro, il benservito. E si torna a sperare in qualche altra assenza. Il culmine di tutto ciò è che le chiamate dei presidi arrivano via mail, spesso da un giorno all’altro: se per un caso sventurato non si controlla la posta elettronica proprio quel giorno, o se non si hanno colleghi solerti che passano la voce, si rischia di perdere la convocazione e di essere considerati rinunciatari.

Per non parlare della discrezionalità dei presidi nel permettere ai precari di accettare spezzoni orari: se si è già impegnati in un’altra scuola per poche ore, è normale aspirare al completamento dell’orario (e dello stipendio), ma il preside della scuola dove si è convocati può scegliere di non concederlo, soprattutto dopo il 31 gennaio. Di per sé lo stesso concetto di graduatoria d’istituto è sbagliato, perché affida alla fortuna la vita lavorativa dei precari. Ciascuno infatti sceglie venti scuole della provincia e ogni scuola elabora la propria graduatoria in base al punteggio della graduatoria permanente.

Questo meccanismo balordo rende possibile che insegnanti con punteggio inferiore lavorino prima e per più tempo rispetto a chi ha un punteggio più alto, semplicemente perché hanno scelto scuole con un tasso di assenteismo maggiore. Insomma, bisogna scegliere le scuole in cui i/le titolari sono più cagionevoli di salute, o in odore di maternità. Pena, la disoccupazione.

Sarebbe indubbiamente più corretto che tutte le scuole della provincia chiamassero da un’unica graduatoria, quella a esaurimento, per ordine di punteggio, lasciando ai precari la facoltà di accettare o rifiutare le supplenze. Il precario svogliato indisponibile a prendere il treno alle 6,30 del mattino per andare a lavorare, liberissimo di farlo, rinuncerà al punteggio e allo stipendio di quella supplenza, mentre quello più meritevole maturerà alla fine dell’anno un punteggio maggiore.

In questo modo davvero la graduatoria permanente rispecchierebbe il merito, oltre che l’età, come è giusto. Oggi invece per tutti quei precari che non ricevono l’incarico annuale dal provveditorato, ma solo quelli temporanei dei presidi, le possibilità di lavorare (e dunque di accumulare punti, oltre che di avere uno stipendio) sono totalmente casuali, affidate all’arbitrio assoluto della sorte.

Queste e molte altre sono le conseguenze della cosiddetta “riforma Gelmini” che ha falcidiato i precari tagliando otto miliardi, demotivato i docenti titolari costretti a lavorare di più per lo stesso (misero) stipendio e reso ancora più caotici i cicli scolastici. Non che prima fosse tanto meglio, per intenderci, ma evidentemente si può sempre peggiorare. Alemo però potremmo evitare il falso stupore nello scoprire che l’Italia è all’ultimo posto in Europa per capacità dei ragazzi di leggere e interpretare un testo.

di Silvia Mari

Lo scandalo delle multinazionali produttrici di chemioterapici è ormai scoppiato grazie anche a medici coraggiosi e a stampa non addomesticata, in testa l’inchiesta di Jon La Pook della CBS News. Sarebbero moltissime le aziende che per ragioni di affari avrebbero smesso di produrre farmaci antitumorali di lungo corso, economici ed efficaci per lanciare prodotti di punta che sono invece costosissimi.

La denuncia arriva in Italia anche dallo Sportello dei Diritti che documenta la mancanza anche nel nostro Paese di farmaci considerati efficaci per diverse tipologie di tumore. Sono diventati difficili da trovare medicinali come la carmustina, utile nei trapianti di midollo, il 5- fluoro uracile per i tumori dell’apparato gastrointestinale e poi ancora la bleomicinasata per i tumori del testicolo e linfomi e la doxorubicina liposomiale utilizzata nel cancro dell’ovaio e nel mieloma.

Se è vero soprattutto nella ricerca medica che la sperimentazione e la ricerca debbano andare avanti alla ricerca di farmaci sempre più mirati e con meno effetti collaterali, è vero altrettanto che le cure sperimentali non possono diventare di colpo l’unica prescrizione possibile per i pazienti, soprattutto se questo implica che i colossi produttori guadagnino enormemente dalla manovra.

Stando così le cose infatti, il confine tra deontologia e affari salta del tutto a scapito dei soli ammalati. Un po’ come è già accaduto sull’interferone e su alcuni suoi dosaggi ormai commercializzati solo oltre confine, perché riservati a una quota troppo ristretta di popolazione. E’ per questo che sono molti gli oncologici e le associazioni che si sono mobilitati per chiedere un intervento del Ministero della Salute e dell’AIFA.

C’è chi propone addirittura l’interruzione di produzione dei nuovi farmaci biologici per fare spazio a quelli “tradizionali”. Si tratterebbe forse, in questo caso, di una misura eccessiva, con il rischio di ostacolare le novità farmacologiche che pure è giusto lanciare e sondare. La stranezza è che per le multinazionali del farmaco possano valere delle logiche di ricambio della linea di prodotto al pari, se non peggio, di chi produce cellulari o televisioni come se gli utenti finali non fossero dei pazienti da curare ma persone che consumano.

La logica del business di chi produce cure può non essere quella di una fondazione caritatevole, ma l’affare non può essere a scapito del valore morale che è intrinseco al fatto che il prodotto finale rappresenta una cura per vivere. E lo scandalo della speculazione è quindi doppiamente grave.

La bandiera delle novità di cure è una facciata ipocrita al business, tant’è che non vale più tanto quando presunte cure efficaci e nuove non vengono dai laboratori occidentali e non fanno guadagnare i soliti colossi. Non c’è bisogno di scomodare l’Escoazul cubano, ma basta arrivare in Germania e Svizzera dove da tempo ai pazienti ammalati di cancro vengono proposte cure parallele di tipo fitoterapico complesso che in Italia non solo sono impossibili da reperire, ma vengono accompagnate da una pessima pubblicità. La novità di cura quindi vale la pena, a quanto pare, solo  quando promette picchi di profitto, ancor più promettenti se estesi a larga scala.

Non importa se intanto i vecchi farmaci, ormai quasi irreperibili, fossero ancora in grado di curare tante neoplasie con successo e a costi bassi per i governi. Le multinazionali del farmaco non accettano rischi di investimento e sulla malattia del secolo tentano la scalata numero uno. Quindi vogliono il business senza rischi e pretendono di farlo sulla vita e la morte di tante persone, visto che il cancro è tutto tranne che una malattia rara. Cosi come è stato per l’HIV del resto, salvo poi prendere una sonora bocciatura dagli indiani e dalla loro farmacia sostenibile per il Sud del mondo.

La parola spetta alla politica e ai governi. Per ricordare che il guadagno sui farmaci ha dei limiti etici invalicabili. Gli stessi che, trasgrediti, hanno fatto nascere migliaia di bambini focomelici con il Talidomide. Gli stessi che ci danno il legittimo sospetto di pensare che tra la ricerca e le aziende del farmaco ci sia più che un’alleanza, una gerarchia di comando. Che diventa pericolosa e fatale per la libertà dove le Istituzioni non ricordino con sufficiente chiarezza che in un sistema di civiltà la salute non è - e non potrà essere mai - una voce di bilancio.


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