di Rosa Ana De Santis

I numeri della social card in arrivo per le famiglie italiane fanno da specchio al ritratto della povertà. Quasi 8.500 domande dalle quali manca Roma, che però sarà destinataria di ben un quarto di fondi. Sono 50 i milioni in arrivo per una sperimentazione che parte con 12 città italiane. La social card ricorda la carta acquisti lanciata dal Ministro Tremonti nel 2009 e ancora attiva e diffusa.

Il bando è stato pubblicato su quasi tutti i siti dei comuni e al momento sono città come Catania e Palermo ad aver già registrato un boom di richiesta. Nella lista comuni come Firenze, Napoli, Bologna, Genova, Verona, Bari, Milano, Torino e Venezia. Attraverso la card le famiglie “reclutate” riceveranno dai 230 e i 400 euro mensili, molto di più quindi della card Tremonti.

Il Ministro del Welfare, Giovannini, rassicura sull’applicazione definitiva di questo programma di sostegno. Inevitabile, laddove il numero delle domande è già esorbitante, che molte famiglie rimangano tagliate fuori. Si tratta di una manovra eccezionale pensata appositamente per la povertà assoluta con incrocio di dati ISTAT e INPS. La nuova carta serve a sanare le inadempienze della precedente che ha raggiunto solo 1/3 delle famiglie indigenti.

La misura, un autentico pronto soccorso assistenziale, è di assoluta necessità soprattutto in una fase in cui la crisi economica non sembra ancora mollare la società italiana e in modo particolare le famiglie, anche quelle del ceto medio-basso di un tempo. L’auspicio è che l’impegno del governo sul fronte di una povertà, ormai più estesa e anche più cronica, sia concreto e più efficace. Nel 2012 i beneficiari della vecchia carta sociale sono stati 533 mila italiani a fronte di un esercito di 1,7 milioni di poveri.

Se il governo delle grandi intese, quello del rilancio e della crescita annunciata, non riuscisse adeguatamente a portare avanti questa cordata del welfare, in certa misura solidaristica, e a tenere dentro gli argini il numero dei poveri, l’invocazione da più parti ribadita sulla necessità di tenere in piedi l’esecutivo a tutti i costi perderebbe di credibilità. Questo passaggio rappresenta infatti un’ipoteca serissima sul futuro politico del sistema Italia. Un’ipoteca che prima ancora che dalle urne e dai sondaggi e per una volta dal giudizio europeo, nasce dalla tenuta della società, dai diritti assistenziali di base  negati e rosicchiati progressivamente sempre di più, dai numeri reali del lavoro.

La social card, nella nuova versione più estesa e più efficace economicamente, rappresenta più un importante aiuto assistenziale temporaneo che aldilà dei fondi necessiterà di controlli, monitoraggi, misure di verifica assidue sia sul suo corretto funzionamento che sui soggetti titolari di diritto.

Certo, sarebbero necessarie inversioni di tendenza nel sostegno pubblico, quindi decisive modifiche nel flusso della spesa pubblica di fronte ad una crisi economica che ha ormai assunto le sembianze di un dramma sociale.

Quello della nuova sociald-card è dunque un provvedimento minimo e non risolutivo per affrontare l’emergenza socioeconomica dei settori popolari più colpiti dalla crisi. Ma è comunque un segnale nella direzione giusta, un modo per destinare risorse alle necessità del paese più che a quelle dei mercati.

La speranza è che per una volta una misura di interventismo welfare non si trasformi in un sussidio permanente per sgravare la politica della sua valenza morale e per evitare che i tarli storici delle inadempienze e della corruzione, come per pensioni di invalidità varie, diventino il solito boomerang che destituisce il welfare del nostro Paese di adeguati fondi e attenzione o, più tragicamente da parte dei cittadini in difficoltà seria, di riconosciuto valore.

di Rosa Ana De Santis

E’ arrivata la condanna, dal tribunale di Alessandria, a dieci anni di reclusione con rito abbreviato per l’uxoricida William Holmes, che uccise la moglie Patricia Ann, gravemente malata. Una forma dolorosa e senza scampo di artrite reumatoide l’aveva convinta - questo ha sempre sostenuto Holmes - a non voler proseguire l’agonia di attesa di una morte sicura e dolorosa, solo protratta nel tempo.

Il caso potrebbe far pensare a un tipico caso di suicidio assistito, non riconosciuto in alcun modo dalla legge dello Stato Italiano. Ma non è propriamente cosi, dal momento che la cronaca dell’episodio in questione proponeva indubbiamente delle caratteristiche anomale.

La moglie ammalata non venne infatti accompagnata alla morte con la forte dose di tranquillante, in autonomia e con aiuto medico esterno come ci aspetterebbe e come accade altrove in cliniche specializzate, ma ulteriormente pugnalata una volta addormentata dalle medicine. L’atto del pugnale altera moltissimo il quadro della pietà che spesso convince pazienti e familiari e intraprendere questa strada. Il marito era rimasto peraltro in casa con il corpo della moglie già morta e avvolta in un telo sudario prima di costituirsi. Una scenografia certamente particolare.

Il suicidio assistito differisce dall’eutanasia perché la persona mette fine alla propria vita con assistenza specializzata, ma in autonomia e questo avviene, per l’Europa, in Belgio, Lussemburgo, Olanda e Svizzera. Una casistica tutto sommato anche più lineare sul caso della gestione giurisprudenziale rispetto al caso tipo “Eluana Englaro” e alle persone che versano in stato vegetativo persistente cronico. La consapevolezza della scelta e il pieno possesso delle proprie facoltà mentali rende possibile un consenso informato immediato e confermato fino all’ultimo.

Il caso Holmes, ancora una volta e aldilà del preciso merito giuridico della responsabilità penale del marito omicida, ricorda in ogni caso l’indecenza italiana di un testo di legge sul testamento biologico rimasto impaludato nella paura culturale di esplorare un terreno etico certamente complesso, ma ormai ineludibile con i traguardi delle cure e della medicina.

Per una paziente affetta da una patologia cronica e degenerativa come Patricia Ann può diventare determinante esprimere un parere sulle cure e sulla loro efficacia e più probabilmente sull’accanimento terapeutico rimasto, ad oggi, una decisione di quasi esclusiva proprietà intellettuale dei medici e degli operatori sanitari. Tanto più vero se pensiamo al paternalismo medico ancora molto presente in Italia.

Il testamento biologico è anche un modo per affrontare degnamente, anche dal lato delle Istituzioni, in tutti gli ospedali la cosiddetta terapia del dolore e le cure palliative, spesso relegate alle sole fasi terminali di persone che si ritrovano a sopportare per lungo tempo dolori fisici invalidanti in strutture ospedaliere non attrezzate come necessario.

Probabilmente, come il difensore di Holmes ha cercato di dimostrare, si è trattato di un “omicidio consenziente”: una definizione bizzarra che bene mostra le contraddizioni e i limiti di una legge che non ha bandito, ma ha preferito non normare la fine della vita. Il caso è analogo a quello dell’embrione con la fecondazione e la legge 40. Sono stati i casi singoli e gli appelli ai tribunali europei a svuotare quella legge di senso e esigibilità. Non è bastata Eluana invece a convincere il Parlamento a lavorare sulla fine della vita.

Oggi un cittadino non può rilasciare un DAT (Dichiarazione Anticipata di Trattamento ndr) a norma di legge: ma può finanziarsi un viaggio della morte in Europa, o chiedere a un familiare o a un medico un aiuto emotivo in clandestinità. O soffrire fino a spegnersi in un hospice. Perché così vuole un Paese che sceglie al posto di tutti la vita che si deve vivere ad ogni costo. La violenza che voleva tenere Eluana contro la sua volontà in quel letto. Contro l’amore sommo che ha portato un padre ad onorare quella decisione.

Il caso Holmes, certamente di tutt’altro genere, ricorda lo stesso conflitto tra sentimenti e legge. Tra Stato e famiglia. Tra il paese in cui la coppia viveva  che lo ha assolto da tempo e senza dubbi - e l’Italia dei tribunali e degli scranni che ancora una volta mostra la tradizionale paura di aprire un serio dibattito di coscienza. L’ancoraggio affezionato all’immutabilità di alcuni assiomi morali che fa macerie di bisogni, di nuovi diritti e ancora una volta dei cittadini più fragili.

di Rosa Ana De Santis

Su Lampedusa e sull’ultima tragedia umanitaria, la politica non ha potuto esimersi dell’intervenire. C’è l’umanità del dolore, il tema morale dell’accoglienza, ma c’è anche un imperativo ineludibile sul cosa fare, i provvedimenti, lo Stato. Le due facce del problema camminano insieme anche per dare risposte ad un sistema Italia collassante e sempre meno attrezzato a gestire adeguatamente questi flussi continui di immigrati.

Non si può pensare però seriamente alla politica sull’immigrazione senza fare i conti con la mafia. La stessa che flagella la storia italiana fin dall’Unità. La stessa che, stranamente silenziata, ricorda con episodi e casi giudiziari illuminanti di non esser stata sconfitta.

Il viaggio dei disperati è un succulento business che vede le mafie del Nord Africa, nel caso specifico delle rotte del mare, in combutta con quelle di casa nostra. Si paga il pizzo per lanciare barconi e scafisti, si falsificano i documenti e le richieste di lavoro. Sono sporchi anche gli appalti dei CIE dove i soldi arrivano, ma non finiscono a dare strutture dignitose agli stranieri trattenuti. Rette altissimi, servizi da denuncia. Tutti paghiamo, ma chi incassa?

A questo proposito, Padre Tonio dell’Olio, responsabile area internazionale di Libera, solleva l’urgenza di far nascere una speciale allerta su questa rete di mafie da parte della Commissione Parlamentare che vede a capo adesso Rosy Bindi. Anche il discorso sulla malavita dovrà quindi aggiornarsi se davvero la politica vuole affrontare il dramma, in primis umanitario, dell’immigrazione clandestina.

Notizia ultima la morte di stenti di 92 migranti nel deserto del Niger, tra cui 52 bambini. Questo è uno dei luoghi da cui inizia il viaggio verso la Libia e l’Algeria. Innumerevoli i resti di corpi umani essiccati al sole in quella terra di mezzo che prepara le traversate disperate. L’ecatombe non è solo Lampedusa, il cimitero dei disperati inizia da lontano e la sequela di notizie tragiche ci restituisce tra i tanti sentimenti, la certezza di quanto sia inarrestabile questa disperata necessità di esodo.

Sappiamo per certo che la fuga da paesi infernali non si fermerà e che su questa disperazione banchetta una globalizzazione illegale e mafiosa. Intervenire su questa carneficina e ripristinare legalità è un modo, forse il primo e ineludibile, di fare una politica seria sull’immigrazione e un passo, comprensibilmente scomodo, per non fare sconti sui carnefici e sulla loro “identità’”.

di Rosa Ana De Santis

In un volo a picco di undici piani, a Roma in zona Casilina, muore un giovane di 21 anni. Il suicidio, su cui le indagini sono in corso, è avvenuto nella notte del 26 ottobre. Una lettera indirizzata ai genitori per confessare l’identità sessuale, il tormento, il “non stare bene in questa vita”. Tutto da dimostrare se avesse subito angherie o vessazioni a causa del suo orientamento sessuale. L’allarme c’è in ogni caso dato che si tratta di un ennesimo episodio, il terzo suicidio in un anno in una fitta costellazione di episodi discriminatori e di vera e propria violenza.

Si è subito levata la voce di Sel e dell’Arcigay per rammentare, sull’onda di questo triste fatto di cronaca, come la questione sull’omofobia sia ancora del tutto aperta, a partire da un testo di legge che è riuscito a procurare forse più problemi di quanti fosse chiamato a risolverne.

La questione dell’omosessualità in un orizzonte culturale come quello italiano è certamente ancora un tema aperto e non pienamente metabolizzato nella cultura familiare prima e quindi sociale poi per derivazione diretta. Proprio in virtù di questo, in attesa che alcuni processi di integrazione si compiano, la norma deve intervenire a sanare e prevedere speciali tutele per una categoria di persone di fatto più deboli.

Si tratta di un tipico caso in cui è la legge e il sistema politico che possono, in una fase di emergenza sociale, sanare ferite drammatiche sul piano personale e privato. Ancor più drammatiche se le vittime sono giovanissimi e adolescenti.

La legge sull’omofobia, con primo firmatario Scalfarotto del Partito Democratico, è di fatto un allargamento della legge Mancino del ‘93 che condanna le istigazioni alla violenza perpetrate per motivi etnici, razziali e religiosi. La fattispecie introdotta sulle questioni sessuali e sulla comunità Lgbt ha subito però un’insidiosa rivisitazione con l’emendamento di Gitti di Scelta Civica che spiega gli atti discriminatori come quelli portati avanti da organizzazioni e associazioni.

Una sorta di difesa sacra della libertà di pensiero che però autorizza, di fatto, chiunque ad insultare un omosessuale senza che questo rappresenti un’aggravante. Se siamo a questo punto risibile figurarsi parlare di altri diritti quale il riconoscimento delle unioni e coppie gay. Distanze siderali con l’Europa.

La storia di questo giovane che probabilmente era segnata da un turbamento tutto privato ed intimo, magari pur non necessariamente aggravato da episodi di abusi e discriminazione, rappresenta in ogni caso un monito per la vita pubblica di un paese. I drammi psicologici privati, anche nel contesto familiare, possono incappare in solitudini senza scampo, in incomunicabilità, in depressione

La legge dello Stato, il Super Io come lo definirebbe Freud, può assolvere, sul piano simbolico del Padre, non soltanto una funzione di repressione e di speciale tutela, ma anche di educazione e ancor prima di visibilità. Normare è dare un nome, assegnare un’identità a persone ancora invisibili.  Dare loro un luogo. Quello che forse questo giovanissimo faticava a trovare anche dentro le mura di casa o nei luoghi dei suoi affetti.

Per questo smarrimento la legge può fare molto. Per sanare le ingiustizie, qualora questo ragazzo nel silenzio ne avesse patita alcuna, o più semplicemente per attestare la legittima esistenza delle differenze, per non trasformarle in anomalie, per dire a quel cittadino che oggi è minoranza “Io ti difendo”.

A volte è possibile e utile tracciare questo percorso dal fuori al dentro, dalla legge dello Stato a quella dell’affetto per riuscire a verbalizzare, al posto di quel cittadino oggi più debole di altri,  che lo stato è pronto a difenderlo non perché è gay. Ma che in quanto gay, in quanto di pelle scura, in quanto ebreo, in quanto straniero, in quanto donna, lo Stato lo riconosce nella differenza e nell’eguaglianza dei diritti.

La difesa giuridica non è quindi presupposta da un’assimilazione ad un presunto canone neutro di normalità, ma all’opposto sul riconoscimento della sua irriducibilità. Quella che alla fine dei conti, forse un giorno saremo pronti a vederla, ci separa tutti dai tutti. E’l’assoluta differenza che ci fa esistere e ci rende titolati a riscuotere diritti. E’ l’assoluta differenza che può diventare un peso troppo grande sulle spalle di un giovane che non aveva ancora trovato le parole per esprimere nemmeno ai suoi cari la sua idea di vita felice.

di Silvia Mari

Ancora una volta è un tribunale a smentire la mano del legislatore sul tema della fecondazione assistita e della contestatissima legge 40 che ha lasciato a piedi numerose coppie e penalizzato fortemente la salute delle donne. Tra i pilastri del testo il divieto all’eterologa, il numero massimo di embrioni da impiantare e il secco no alla diagnosi pre-impianto dell’embrione per le coppie portatrici di malattie.

E’ soprattutto quest’ultimo aspetto ad aver inflitto un’ulteriore penalizzazione verso quelle coppie portatrici di malattie genetiche che come tali hanno un rischio variabile di trasmissione ereditaria. Il caso riguarda una coppia fertile affetta da fibrosi cistica e la diagnosi avverrà, come intimato dal Tribunale all’Asl, nel centro ospedaliero pubblico S. Anna, presso l’unità diretta dal Prof. Calicchia.

Una vittoria per questa coppia di genitori che pretendono di essere messi a conoscenza sull’identità dell’embrione per ragioni sacrosante di salute e non certo per effimeri risvolti di estetica, come tanti insinuano adducendo con semplificazioni televisive lo spauracchio dell’eugenetica che scatena sempre, doverosamente, una buona dose di panico nella coscienza della società civile. Un viatico per non ragionare.

Si tratta infatti di salute e di diritto alla salute, soprattutto per una coppia già segnata da una condizione di patologia. Forse la legge di uno stato autenticamente democratico a queste persone, già discriminate e colpite dalla vita, dovrebbe prestare maggior riguardo piuttosto che abbandonarle su un diritto di conoscenza tanto fondamentale, dato che in precedenza, una beffa bella e buona,  la diagnosi era possibile solo su coppie non fertili. Come se la non fertilità fosse la malattia e non la microcitemia o altre patologie ben più gravi e invalidanti.

In un Paese pienamente evoluto in termini di diritti individuali e cultura liberale questa coppia non avrebbe l’obbligo dell’impianto dell’embrione, una volta accertata la presenza o meno della patologia. Il sadismo della legge prevede infatti che la donna sia costretta a farsi impiantare l’embrione malato, salvo poi poter ricorrere all’aborto (peraltro in questo caso terapeutico) secondo i criteri della legge 194. E’ facile intuire che vietare la diagnosi pre impianto è funzionale a inficiare la scelta delle donne in materia di interruzione di gravidanza o, ancor peggio, a veicolarla come una colpa da scontare, con buona dose di sadismo aggiuntivo, entro i tre mesi post impianto.

Se la legge italiana prevede come legittimo il diritto all’aborto, se lo ha normato anche nella sua variante terapeutica, non si capisce perché non debba prevederlo quando la diagnosi pre impianto fosse correlata ad una scelta di questo tipo, soprattutto di fronte una diagnosi di malattia conclamata.

Il dubbio è se si tratti di una piena contraddizione al limite dello scivolone o se, come pare più probabile, non siamo di fronte ad un ennesimo condizionamento culturale che vuole togliere alle donne il diritto pieno di scegliere o di tollerarlo a patto che la libertà riconosciuta dalla norma sia sempre accompagnata da una dose intrinseca di educativa riprovazione morale. Ad oggi la legge 40 questo ha fatto, danneggiando il corpo delle donne, il loro equilibrio psichico ed emotivo e specialmente quello delle donne che avevano problemi di salute severi.

A Roma si è aperta un’importante finestra di possibilità e di rivoluzione. Certo è che questa legge ha cambiato volto a suon di casi singoli e di tribunali. Tutto perché la politica non ha avuto il coraggio di mettere al centro il diritto, ma il dovere di strizzare l’occhio all’etica cattolica, come se quella fosse la moralità tout court. Come se non fosse un orrore costringere con la forza della legge una donna a farsi impiantare un embrione malato, senza doverne sapere nulla e senza potersi rifiutare.

La legge 40 è da rifondare, suggeriscono i fatti,  e sarebbe una luce di civiltà vederla rinascere in Parlamento e non nei tribunali dove protagoniste sono le storie di diritti negati. Battaglie che in una democrazia evoluta non dovrebbero essere i cittadini da soli a combattere. E mai, comunque, i più deboli tra loro.




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