di Fabrizio Casari

Si chiama Caterina Simonsen, ha venticinque anni. Vegetariana, studia per diventare veterinaria. Dall'età di nove anni deve la sua sopravvivenza ai farmaci e ai ricoveri. Perché Caterina è vittima di un dramma che le ha reso la vita un calvario difficilmente immaginabile. Si sarebbe portati a pensare che una vicenda come la sua dovrebbe portare ad un istintivo moto di solidarietà, ma far di conto con la solidarietà ai tempi dei social idiots non è così semplice.

Succede infatti che Caterina, dalla sua pagina di Facebook, si rivolge alle persone che le vogliono bene e a coloro che la seguono, ringrazia ed elogia il Servizio Sanitario Nazionale e ricorda di essere viva grazie ai farmaci con i quali si cura. Ricorda anche che gli stessi farmaci sono in commercio in virtù della loro efficacia, raggiunta anche grazie alla sperimentazione animale che ha permesso indovinare la miscela chimica giusta.

Ma Caterina non aveva fatto i conti con gli animalisti. Sì, esistono anche loro, gli animalisti. Che svolgono una funzione utile nell’educare al rispetto e alla cura per gli animali e si rendono decisivi nel salvare molti randagi da un destino crudele ma che diventano ridicoli quando presumono di poter elevare gli animali a precetto divino, una sorta di Alfa e Omega dei comportamenti che dovrebbero regolare le umane attività.

L’animalismo è una corrente di pensiero più che rispettabile, degna comunque di considerazione, persino etica, che parte dalla decisa messa in discussione dell’antropocentrismo. Propone l’abolizione non solo dei farmaci ma anche dei cibi realizzati con componenti animali e, forse troppo spesso, tende a sovrapporre sperimentazione con vivisezione.

Chiede comunque agli uomini, auspicandone l’assoluta assenza di comportamenti sopraffattori verso gli animali, d’interrompere la catena naturale alla quale  ogni animale, in virtù del suo istinto, non rinuncerebbe mai. La forza, la sopraffazione, il possesso, la logica del controllo del territorio e le gerarchie di branco, il bisogno di uccidere per sfamarsi, elementi presenti nella catena naturale di ogni animale, non consentirebbero nemmeno al più docile degli stessi rinunciare all’istinto e alla caratteristica genetica della quale è formato.

Ma la serietà delle argomentazioni animaliste s’infrange contro le estremizzazioni dei suoi concetti. L’estremismo di alcune posizioni, del resto, annullando in radice la ragionevolezza delle argomentazioni, incide sulla loro stessa autorevolezza, insudicia anche le posizioni più coerentemente intelligenti e fa apparire la sensibilità per gli animali una sorta di manicomio a chi vi si avvicina. Il caso è emblematico: detti animalisti, mentre si dicono contrari alla morte per gli animali, senza indugio si augurano la morte per Caterina.

Dal web piovono insulti deliranti: “dovresti morire”, “sarebbe stato meglio che fossi morta nove anni fa” e via farneticando. Molti di coloro che hanno inviato messaggi auguranti la morte di Caterina si sono probabilmente curati in infanzia o adolescenza (e hanno probabilmente curato i loro figli) con farmaci i cui test sono stati effettuati su animali, ma ora l’odio prevale. L’accusa è quella di adoperare farmaci testati su animali, pratica considerata criminale. E non si chiede mai come siano stati sperimentati gli stessi farmaci veterinari.

Ovviamente, non si sta parlando della vivisezione, barbaro accanimento pseudoscientifico inutile ai fini farmacologici; si sta parlando di sperimentazione dei farmaci sugli animali. Che vengono utilizzati come cavie in quanto specie vivente più simile all’uomo. E su chi andrebbero altrimenti sperimentati? Su altri uomini? Tesi stravagante, comunque cara a Mengele.

A Roma ci sono oltre trecento milioni di topi. Rappresentano una delle emergenze ambientali della città. Non sono certo una razza a rischio di estinzione, mentre continuano a rappresentare un pericolosissimo veicolo di malattie molto serie. Quale sarebbe il crimine di una sperimentazione sui topi dei farmaci?

Gli idioti ci sono sempre stati e il problema non è risolvibile. Statisticamente c’è chi sostiene che ogni 10 esseri umani vi siano un malvagio e uno stupido, e che quasi mai siano la stessa persona. Il generale De Gaulle, dopo la liberazione di Parigi, a chi gli chiese di fare qualcosa conto l’idiozia rispose che si trattava di “un programma troppo vasto”. Ma nel 1945, almeno, gli idioti non si esprimevano se non nella loro ristretta cerchia di simili. Non avevano la possibilità di postare, twittare e quant’altro all’intero cyberspazio le proprie imbecillità.

Forse sono i limiti oggettivi della democrazia, che comunque preferiamo imperfetta ma vigente. Ma per stasera, l’unico intento è quello d’inviare un abbraccio forte a Caterina e dirgli che siamo con lei, la vogliamo viva e, per quanto difficile, felice di esserlo.

di Rosa Ana De Santis

A poca distanza dalla giornata dedicata al femminicidio, ai diritti di genere calpestati, all’invisibilità di tanta sudditanza delle donne agli uomini, le dichiarazioni e tutti i “dietro le quinte” delle baby prostitute dei Parioli, quartiere bene della Capitale, rappresentano una ferita gravissima per tutta la cultura femminile e per le donne italiane: madri e figlie. Il caso, ormai noto, assume connotati drammatici se si pensa che dietro c’era una madre connivente, un liceo, una situazione sociale non certo di estremo disagio e degrado.

Irrompe la normalità più insospettabile che diventa una coltre di banalizzazione assoluta del male più irrimediabile specie per un’adolescente: la vendita e l’alienazione del proprio stesso corpo per una merce qualsiasi, dalla scheda telefonica, alla cocaina, alle scarpe nuove.

Il caso rappresenta la punta di un iceberg, il titolo ad effetto di una prassi che vede ragazzine spigliate e disinibite sempre più diffusamente alle prese con il porno web e non solo, con prestazioni sessuali occasionali e spot che non hanno più a che vedere con le normali esplorazioni erotiche adolescenziali, questo il vero dato nuovo sociologico, ma con l’acquisto di un bene di consumo qualsiasi. Caso analogo a Salerno, l’inchiesta si apre alle città del Nord. Le ragazze lo fanno per comprare.

L’inchiesta giudiziaria fa il suo corso scavando nell’organizzazione degli appuntamenti, nella clientela delle prostitute minorenni, nell’analisi di sms e telefonate, nella morbosità degli sfruttatori. Quello che emerge è che le due ragazzine sono consapevoli della loro situazione e della gravità di essere minorenni mentre lavorano da prostitute. Non sono tenute a forza e non sono prive di capacità di auto comprensione. Il che, ovvio, non equivale a non vederle come vittime di questo squallore.

La vicenda illumina però uno spaccato della condizione femminile giovanile da cui non ci si può sottrarre, specie se in parallelo istituzioni e opinione pubblica si spendono per promuovere una tutela speciale per le donne e un impegno militante per l’adeguato riconoscimento della specificità e dei diritti di genere. Nel paese Italia, con complicità colpevole di vuoto televisivo, di inconsistenza dei modelli familiari e di un modello prostituivo barattato per un paradigma distorto di libertà e autonomia femminile, è stata allevata una generazione di Ruby.

L’accostamento di questa cronaca di prostituzione di figlie “normali” con le donne vittime di machismi violenti, arcaici e ancora persistenti nelle mura domestiche restituisce un quadro della condizione femminile sconfortante.

Difficile stabilire se siano le famiglie a dover ripartire e se questo sia possibile in una società ormai pervasa dal modello “Arcore” che prima della cronaca giudiziaria è stata diffuso attraverso fiction, tv, carriere pseudo artistiche e tutti i canali attraverso cui una nuova generazione è stata allevata negli ultimi venti anni in un brodo di sottocultura di genere.

Tutto questo mentre le famiglie hanno tenuto sempre di meno, mentre le mamme sono uscite sempre più fuori dalla vita di cura domestica, mentre la rivoluzione delle donne è stata trasferita da madri a figlie in una traduzione approssimativa del concetto di libertà che, va riconosciuto, si è rivelata deteriore e sminuente. Per questo il machismo berlusconiano è il male, ma per questa stessa ragione Ruby non è solo una vittima.

La responsabilità delle nuove donne è la stessa di queste ragazzine della Roma bene che, pur minorenni, sanno bene ciò che fanno e i motivi per cui lo fanno. La facilità con cui si diventa grandi almeno nell’apparenza delle forme e dei costumi sociali è il primo grande male dei giovani e se la violenza sulle donne è un problema degli uomini, la banalizzazione della rivoluzione femminile trasformata sovente in una rude mercificazione del corpo è stata, consapevoli o no, un’abdicazione delle madri.

di Rosa Ana De Santis

La giornata mondiale dell’infanzia, il 20 novembre scorso, ha restituito - tra i vari fronti su cui occorrerebbe intervenire con urgenza e maggiore impegno - i numeri, in netto calo, delle adozioni e degli affidi. Proprio i minori, che più di altri dovrebbero essere tutelati, patiscono ritardi e inadempienze, spesso di natura tristemente burocratica. Il lavoro della Commissione conferma tra il 2007 e il 2011 una flessione del 33% per le domande nazionali, del 22% per quelle internazionali e un calo degli affidi temporanei del 14%. Proprio il rilancio delle adozioni è stato il tema guida della Giornata per l’Infanzia.


Michela Vittoria Brambilla, presidente della Commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza, ha dichiarato che non può esserci disparità tale tra la genitorialità biologica e quella adottiva, per cui in questo secondo caso bisogna dimostrare di avere qualità eccezionali per essere degnamente madri e padri.

Le esperienze e testimonianze di numerose famiglie candidate all’adozione raccontano di percorsi tortuosi, di procedure macchinose spesso contaminate quasi da un “sospetto” di fondo verso la coppia che vuole adottare. Tempi lunghissimi e molte rinunce, spesso anche il ricorso a strade extra legali, mai giustificabili ma figlie di un percorso che non incentiva di fatto chi vuole adottare. Un paradosso che denuncia una cultura poco preparata alla cultura dell’adozione.

Se è evidente che la genitorialità biologica e naturale non richiede da parte di alcuna autorità una legittimazione legale e formale - purtroppo potremmo aggiungere - è pur vero che su coppie che vogliono adottare non può essere per principio applicata una regolamentazione che assomiglia alla ricerca morbosa di un‘anomalia di qualsivoglia natura.

L’accanimento non fa che ribadire una sottocultura per cui essere genitori non per sangue, ma per adozione è come essere di serie B quando invece in una società ampiamente evoluta, sul piano dei diritti e della cultura, l’adozione dovrebbe rappresentare la forma più consapevole di genitorialità, nascendo totalmente da una scelta  non mediata da un atto naturale che non sempre coincide con un maturo percorso decisionale sulla volontà di diventare madre o padre.

L’accusa sotto traccia è che si decide di adottare per sopperire a un’infertilità o un problema di salute. Viene da domandarsi perché questo non desti stupore o limiti di sorta quando le coppie ricorrono, per risolvere uno dei due problemi, a pratiche, spesso anche rischiose per la salute, di fecondazioni assistite. E poi forse esiste una garanzia di non egoismo nelle coppie che naturalmente riescono a mettere al mondo figli?

Il discrimine di valutazione di un tratto comportamentale e morale è nei geni? E quelle donne che non si curano per mettere al mondo figli rischiando la propria pelle e lasciando magari orfani al mondo sono egoiste o irresponsabili? Un approccio culturale che rivendica priorità alla biologia ha un sapore primitivo del tutto inadeguato ad affrontare degnamente, anche sul piano della legge e delle Istituzioni preposte, la volontà di adottare che dovrebbe invece essere apprezzata e tutelata come patrimonio di civiltà di una società.

Incentivare e sburocratizzare dovrebbero essere le parole d’ordine. E forse, oltre a discutere giustamente di adozione ai gay, alle coppie di fatto e ai single - fronti che devono legittimamente entrare nella discussione ma che portano con sé problematiche del tutto nuove che non possono essere banalizzate - si potrebbe pensare a quante coppie con tutti i criteri formali del caso attendono da anni l’arrivo di un figlio e di una figlia che rischia, mentre il tempo passa, di diventare grande in una casa famiglia. Lì dove il danno dell’abbandono non finisce mai.


di Rosa Ana De Santis

I numeri della social card in arrivo per le famiglie italiane fanno da specchio al ritratto della povertà. Quasi 8.500 domande dalle quali manca Roma, che però sarà destinataria di ben un quarto di fondi. Sono 50 i milioni in arrivo per una sperimentazione che parte con 12 città italiane. La social card ricorda la carta acquisti lanciata dal Ministro Tremonti nel 2009 e ancora attiva e diffusa.

Il bando è stato pubblicato su quasi tutti i siti dei comuni e al momento sono città come Catania e Palermo ad aver già registrato un boom di richiesta. Nella lista comuni come Firenze, Napoli, Bologna, Genova, Verona, Bari, Milano, Torino e Venezia. Attraverso la card le famiglie “reclutate” riceveranno dai 230 e i 400 euro mensili, molto di più quindi della card Tremonti.

Il Ministro del Welfare, Giovannini, rassicura sull’applicazione definitiva di questo programma di sostegno. Inevitabile, laddove il numero delle domande è già esorbitante, che molte famiglie rimangano tagliate fuori. Si tratta di una manovra eccezionale pensata appositamente per la povertà assoluta con incrocio di dati ISTAT e INPS. La nuova carta serve a sanare le inadempienze della precedente che ha raggiunto solo 1/3 delle famiglie indigenti.

La misura, un autentico pronto soccorso assistenziale, è di assoluta necessità soprattutto in una fase in cui la crisi economica non sembra ancora mollare la società italiana e in modo particolare le famiglie, anche quelle del ceto medio-basso di un tempo. L’auspicio è che l’impegno del governo sul fronte di una povertà, ormai più estesa e anche più cronica, sia concreto e più efficace. Nel 2012 i beneficiari della vecchia carta sociale sono stati 533 mila italiani a fronte di un esercito di 1,7 milioni di poveri.

Se il governo delle grandi intese, quello del rilancio e della crescita annunciata, non riuscisse adeguatamente a portare avanti questa cordata del welfare, in certa misura solidaristica, e a tenere dentro gli argini il numero dei poveri, l’invocazione da più parti ribadita sulla necessità di tenere in piedi l’esecutivo a tutti i costi perderebbe di credibilità. Questo passaggio rappresenta infatti un’ipoteca serissima sul futuro politico del sistema Italia. Un’ipoteca che prima ancora che dalle urne e dai sondaggi e per una volta dal giudizio europeo, nasce dalla tenuta della società, dai diritti assistenziali di base  negati e rosicchiati progressivamente sempre di più, dai numeri reali del lavoro.

La social card, nella nuova versione più estesa e più efficace economicamente, rappresenta più un importante aiuto assistenziale temporaneo che aldilà dei fondi necessiterà di controlli, monitoraggi, misure di verifica assidue sia sul suo corretto funzionamento che sui soggetti titolari di diritto.

Certo, sarebbero necessarie inversioni di tendenza nel sostegno pubblico, quindi decisive modifiche nel flusso della spesa pubblica di fronte ad una crisi economica che ha ormai assunto le sembianze di un dramma sociale.

Quello della nuova sociald-card è dunque un provvedimento minimo e non risolutivo per affrontare l’emergenza socioeconomica dei settori popolari più colpiti dalla crisi. Ma è comunque un segnale nella direzione giusta, un modo per destinare risorse alle necessità del paese più che a quelle dei mercati.

La speranza è che per una volta una misura di interventismo welfare non si trasformi in un sussidio permanente per sgravare la politica della sua valenza morale e per evitare che i tarli storici delle inadempienze e della corruzione, come per pensioni di invalidità varie, diventino il solito boomerang che destituisce il welfare del nostro Paese di adeguati fondi e attenzione o, più tragicamente da parte dei cittadini in difficoltà seria, di riconosciuto valore.

di Rosa Ana De Santis

E’ arrivata la condanna, dal tribunale di Alessandria, a dieci anni di reclusione con rito abbreviato per l’uxoricida William Holmes, che uccise la moglie Patricia Ann, gravemente malata. Una forma dolorosa e senza scampo di artrite reumatoide l’aveva convinta - questo ha sempre sostenuto Holmes - a non voler proseguire l’agonia di attesa di una morte sicura e dolorosa, solo protratta nel tempo.

Il caso potrebbe far pensare a un tipico caso di suicidio assistito, non riconosciuto in alcun modo dalla legge dello Stato Italiano. Ma non è propriamente cosi, dal momento che la cronaca dell’episodio in questione proponeva indubbiamente delle caratteristiche anomale.

La moglie ammalata non venne infatti accompagnata alla morte con la forte dose di tranquillante, in autonomia e con aiuto medico esterno come ci aspetterebbe e come accade altrove in cliniche specializzate, ma ulteriormente pugnalata una volta addormentata dalle medicine. L’atto del pugnale altera moltissimo il quadro della pietà che spesso convince pazienti e familiari e intraprendere questa strada. Il marito era rimasto peraltro in casa con il corpo della moglie già morta e avvolta in un telo sudario prima di costituirsi. Una scenografia certamente particolare.

Il suicidio assistito differisce dall’eutanasia perché la persona mette fine alla propria vita con assistenza specializzata, ma in autonomia e questo avviene, per l’Europa, in Belgio, Lussemburgo, Olanda e Svizzera. Una casistica tutto sommato anche più lineare sul caso della gestione giurisprudenziale rispetto al caso tipo “Eluana Englaro” e alle persone che versano in stato vegetativo persistente cronico. La consapevolezza della scelta e il pieno possesso delle proprie facoltà mentali rende possibile un consenso informato immediato e confermato fino all’ultimo.

Il caso Holmes, ancora una volta e aldilà del preciso merito giuridico della responsabilità penale del marito omicida, ricorda in ogni caso l’indecenza italiana di un testo di legge sul testamento biologico rimasto impaludato nella paura culturale di esplorare un terreno etico certamente complesso, ma ormai ineludibile con i traguardi delle cure e della medicina.

Per una paziente affetta da una patologia cronica e degenerativa come Patricia Ann può diventare determinante esprimere un parere sulle cure e sulla loro efficacia e più probabilmente sull’accanimento terapeutico rimasto, ad oggi, una decisione di quasi esclusiva proprietà intellettuale dei medici e degli operatori sanitari. Tanto più vero se pensiamo al paternalismo medico ancora molto presente in Italia.

Il testamento biologico è anche un modo per affrontare degnamente, anche dal lato delle Istituzioni, in tutti gli ospedali la cosiddetta terapia del dolore e le cure palliative, spesso relegate alle sole fasi terminali di persone che si ritrovano a sopportare per lungo tempo dolori fisici invalidanti in strutture ospedaliere non attrezzate come necessario.

Probabilmente, come il difensore di Holmes ha cercato di dimostrare, si è trattato di un “omicidio consenziente”: una definizione bizzarra che bene mostra le contraddizioni e i limiti di una legge che non ha bandito, ma ha preferito non normare la fine della vita. Il caso è analogo a quello dell’embrione con la fecondazione e la legge 40. Sono stati i casi singoli e gli appelli ai tribunali europei a svuotare quella legge di senso e esigibilità. Non è bastata Eluana invece a convincere il Parlamento a lavorare sulla fine della vita.

Oggi un cittadino non può rilasciare un DAT (Dichiarazione Anticipata di Trattamento ndr) a norma di legge: ma può finanziarsi un viaggio della morte in Europa, o chiedere a un familiare o a un medico un aiuto emotivo in clandestinità. O soffrire fino a spegnersi in un hospice. Perché così vuole un Paese che sceglie al posto di tutti la vita che si deve vivere ad ogni costo. La violenza che voleva tenere Eluana contro la sua volontà in quel letto. Contro l’amore sommo che ha portato un padre ad onorare quella decisione.

Il caso Holmes, certamente di tutt’altro genere, ricorda lo stesso conflitto tra sentimenti e legge. Tra Stato e famiglia. Tra il paese in cui la coppia viveva  che lo ha assolto da tempo e senza dubbi - e l’Italia dei tribunali e degli scranni che ancora una volta mostra la tradizionale paura di aprire un serio dibattito di coscienza. L’ancoraggio affezionato all’immutabilità di alcuni assiomi morali che fa macerie di bisogni, di nuovi diritti e ancora una volta dei cittadini più fragili.


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