di Rosa Ana De Santis

Negli ultimi anni in Europa, e senz’altro in Italia, si è smesso di parlare di Hiv come se il contagio fosse stato debellato da una maggiore consapevolezza sessuale che sono invece proprio le nuove generazioni a mostrare drammaticamente di non avere. Si crede erroneamente che il flagello del virus incurabile rappresenti un’epidemia per l’Africa, dove senz’altro lo è, ma che non riguardi la ricca vita dell’Occidente se non per “categorie speciali”.

Ed è in questo scenario che si inseriscono invece i nuovi numeri documentati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla London School of Hygiene and Tropical Medicina in uno studio su Europa e Asia che dimostra quanto il virus che porta all’AIDS stia tornando anche in Europa, lì dove la povertà dovuta alla crisi è aumentata.

E’ certamente vero che sono prostitute, tossicodipendenti e omosessuali i gruppi sociali più infettati, ma con delle percentuali in netto aumento (oltre 1,5 milioni di nuovi casi), tutte legate alle regioni del Sud Europa. Guarda caso quelle che vivono una stagione di pesantissima recessione e crisi economica. La quota di popolazione a rischio di esclusione sociale, dovuta principalmente alla perdita di occupazione, oscilla in questa regione d’Europa dal 9 al 22%, e la povertà economica trascina dietro di sé problemi e di ordine educativo, di istruzione e spesso di autentico disagio psicologico.

Il legame tra emarginazione e salute è, come ormai ampiamente dimostrato nei paesi in via di sviluppo e non solo, molto forte se non di vera e propria causalità. Un’alimentazione povera, condizioni di vita promiscua, abitudini errate dovute al disagio di vivere in povertà nel tempo diventano rischi per la propria salute. Non è un caso che anche la misura certamente necessaria dell’uso del profilattico vista da chi vive e opera in Africa rappresenti un pronto soccorso immediato e non una strada per superare il problema del contagio facile fintanto che le condizioni di vita rimangono quelle del sotto sviluppo.

Certo è che aldilà del caso italiano che paga anche il prezzo di un certo oscurantismo culturale cattolico, in Europa la conoscenza e i mezzi per avere una buon profilassi esistono. L’unica variabile nuova rispetto al passato - ed è la geografia del contagio a mostrarlo - è quella dei nuovi poveri: cittadini che hanno perduto ruolo e collocazione sociale, occupazione e reddito, abbassato consumi e spesso perduto previdenza e abitazione.

E’ in questa povertà tutta occidentale, in cui non manca il cibo a tavola e le scarpe ai piedi, che l’uomo della crisi occidentale ha perduto senso più che denaro. E in questa perdita di senso le abitudini di vita, i rischi e l’esclusione possono diventare speculari a fenomeni sociali come la prostituzione, la tossicodipendenza e in generale a comportamenti di vita disordinati e privi di controllo.

E’ in questa debolezza che una malattia come l’AIDS sta diventando di nuovo tragicamente protagonista mostrando come anche a Nord dell’Africa si possa essere sempre più poveri, magari in un modo diverso e tanto più insidioso quanto più si è sicuri di non poterlo essere mai.

Il circolo vizioso, come spiegato anche da Martin Donoghoe, è quello secondo il quale chi è già disagiato esponendosi al rischio del contagio non fa che aggravare la propria condizione di esclusione sociale anche sul versante delle cure e dell’adeguata prevenzione.

di Rosa Ana De Santis

Si è picchiato da solo evidentemente. Si sarà ridotto da solo e volontariamente in condizioni drammatiche, con un corpo ridotto ad uno spettro pestato e piagato da ematomi e ferite. Questo, deve aver pensato il tribunale di Roma, deve essere capitato a Stefano Cucchi, figlio di una famiglia che non è parte di nessuna lobby, che non ha entrature e avvocati di grido, e per il quale dunque la giustizia è sostanzialmente poco più che una superstizione.

La sentenza sul caso di Stefano Cucchi è arrivata nel tardo pomeriggio di ieri, dopo ore di camera di consiglio. Condannati (ma solo per omicidio colposo) i sei medici imputati, assolti i tre infermieri e i tre agenti di Polizia Penitenziaria. Nell’aula di tribunale i presenti urlano “assassini” e invocano giustizia.

Davanti all’aula bunker di Rebibbia durante tutto il pomeriggio erano molte le persone che avevano espresso solidarietà alla famiglia Cucchi. Tra loro altre sorelle, madri e figlie in attesa di giustizia. Lucia Uva, la sorella di Giuseppe morto nel giugno 2008 dopo essere stato fermato dai carabinieri. E ancora Domenica Ferrulli, figlia di Michele, morto a 51 anni nel giugno 2011 a Milano appena fermato dai poliziotti. Grazia Serra nipote di Francesco Mastrogiovanni, morto nell'agosto 2009 dopo essere rimasto per 82 ore legato mani e piedi a un letto in un ospedale psichiatrico e Claudia Budroni, sorella di Dino, ucciso a luglio 2011 da un colpo di pistola durante un inseguimento con la Polizia.

Il processo per la morte del giovane Stefano Cucchi era iniziato nel marzo del 2011. Dodici gli imputati: 6 medici dell'ospedale 'Sandro Pertini', tre infermieri e 3 agenti di Polizia penitenziaria. Parti civili la famiglia Cucchi, il Comune di Roma e il Tribunale del malato.

Ilaria Cucchi parla alla stampa di pene ridicole e di una sentenza che calpesta la verità e la memoria del fratello. La madre dice che oggi è morto la seconda volta. Le foto impietose che la famiglia aveva deciso di mostrare, oltre ad un corpo affamato e assetato, ritraevano una schiena distrutta. Era violaceo e gonfio il volto di Stefano in aula di Tribunale la mattina del processo per direttissima  in cui lo vide suo padre.

Ai familiari era stato negato di vedere il figlio in ospedale pur stando in quelle condizioni gravissime, la morte era sopraggiunta lasciandolo in agonia sotto un lenzuolo dimenticato in una stanza, la lettera che aveva preparato per chiedere aiuto al suo referente di comunità non era mai stata inviata. Un accanimento violento e feroce che non viene riservato nemmeno ai detenuti nel 41bis.

Oggi viene data ragione a chi, come Giovanardi, addebitò senza decenza quella magrezza mortale alla droga di cui Stefano era caduto vittima anni prima. Peccato che prima dell’arresto, sono le foto segnaletiche a dirlo, non le supposizioni, il giovane Cucchi era in piedi, non era ridotto ad un corpo da lager, e non aveva ematomi.

Oggi lo Stato italiano dice che Stefano non l’hanno picchiato gli agenti di Polizia o che forse, leggeremo poi nelle motivazioni, non lo ha picchiato nessuno. C’era stato anche un rimpallo di responsabilità tra l’Arma dei Carabinieri - che aveva fermato il giovane - e la Penitenziaria che lo aveva preso poi in custodia nelle celle di Piazzale Clodio. Stefano arriva malmenato? Pare di no. Stefano è stato picchiato solo dopo o prima e dopo fino ad arrivare ad una frattura più grave delle altre che ne compromette la salute e la vita, grazie anche all’orrore commesso dai medici?

Oggi, questo è certo, c’è solo una metà della colpa. Di coloro che hanno mancato moralmente e deontologicamente al loro dovere di medici. Manca il nome di colui o coloro che hanno ridotto Stefano a un mantello di sangue. L’uniforme che lo restituisce picchiato agli occhi di un padre.

Non è, purtroppo, una sentenza che fa rumore nell’anestesia della giustizia italiana verso gli uomini in divisa. Nessuno riflette, pare, su quanto questa abitudine all’assoluzione plenaria delle uniformi sia un doppio danno per le Istituzioni e per la loro credibilità, soprattutto per quanti prestano il loro onorevole servizio con serietà e senso di giustizia.

Un reato nel nostro Paese non si paga con la vita, quale che sia il reato. E la tortura peraltro, quale quella subita dal giovane Stefano in vario modo, non esiste ancora nel corpo delle leggi, giacchè l’Italia rifiuta d’inserire nel suo codice penale il reato di tortura.

Chissà se Stefano non abbia detto una parola di troppo, se l’avversione per la sua vita problematica non abbia stimolato animi violenti e sicuri di impunità, chissà se essere un ragazzo come tanti, trovato di notte con la droga in tasca, non abbia assicurato salvacondotti alle mele marce che lo ha colpito e percosso e che oggi riscuotono un’assoluzione che suona come un insulto a chi crede, anche senza indossare una divisa, che la legge sia uguale per tutti.

A Stefano Cucchi è toccato in sorte lo stesso trattamento disumano e bestiale che subì in un parco a Federico Aldovrandi, un “pischello” si direbbe a Roma, morto sotto le luci di una volante accerchiato da divise violente. Come testimoniato da quelle foto mostrate da una madre coraggio. Le stesse con cui anche oggi Stefano continua a parlare ad occhi chiusi e a labbra serrate, tetro e viola dall’obitorio in cui è finito, come vengono a raccontare, senza un perché.




di Rosa Ana De Santis

Produrre sostanze nocive che uccidono e omettere controlli per procurarsi ulteriori margini di profitto, non rimane impunito. Per quanto questo paese sia ancora in preda ai deliri d’onnipotenza del turbo liberismo, ci sono ancora giudici capaci di obbligare le aziende alla responsabilità sociale che le compete.

E c’è poco da ricorrere dinanzi all’evidenza. La sentenza di appello, arrivata nel pomeriggio, ha infatti aumentato di due anni la condanna per il manager elvetico Stephan Schmidheiny. Si passa da 16 a 18 anni di reclusione per disastro doloso ai danni dei lavoratori contagiati dal veleno dell’amianto. Un risarcimento super di oltre 30 milioni per il Comune di Casale Monferrato e 20 alla Regione.

La sentenza non riguarda altri siti coinvolti dallo stesso tipo di disastro ecologico e di salute, come quello di Bagnoli (Napoli) e non tocca gli anni per i quali fu responsabile il barone belga Jean-Louis de Cartier, ormai deceduto. Ciò nonostante l’aumento della pena e la sonora condanna arrivano come un sollievo e una speranza per l’associazione dei parenti delle vittime che da anni, instancabile, porta avanti questa battaglia.

Una vittoria che fa scuola - o giurisprudenza, come si dice - e che assolve un po’ la funzione non solo simbolica di una possibilità concreta di vittoria anche per casi analoghi come il più recente sull’Ilva di Taranto.

L’azione legale è iniziata quarant’anni fa e l’epilogo indica senza tentennamenti il modello culturale da cui non si può prescindere né fare eccezione in nome della produttività. Un monito visti i tempi della crisi e della disperazione in cui tutto sembra diventare legittimo e come anestetizzato dalla normalità. Quella per cui un operaio di Taranto deve domandarsi se portare lo stipendio a casa o ammalarsi di tumore.

Per monitorare da questo momento in poi la gestione dei risarcimenti il governo potrebbe assolvere un ruolo attivo, come mai finora avuto nelle fasi processuali. Questo l’appello invocato da Sinistra, Ecologia e Libertà  e da altre forze politiche che parlano alla Corte d’Appello di Torino per guardare a Taranto.

L’amianto è ancora una vera emergenza in Italia.. Abbiamo nel nostro Paese ancora 2,5 miliardi di metri quadri di coperture di Eternit pari a 32 milioni di tonnellate di cemento-amianto, lasciate a morire e a far morire cittadini ignari. Mancano indagini epidemiologiche a riguardo e la volontà di farle seriamente. A dirlo è Angel Bonelli, presidente dei Verdi.

La sentenza di Torino è certamente illuminante sul tema della salute e delle malattie legate all’amianto (dall’ asbestosi al mesotelioma pleurico fino a varie forme tumorali maligne) che finalmente in questa sede legale trovano riconoscimento nel loro rapporto di causalità e non supposizioni e discettazioni a vuoto. Ma è anche una sentenza preziosa per il tema del lavoro e del suo intrinseco valore, cosi orribilmente svilito nel tempo della disperazione sociale e della crisi.

La dignità di lavorare, di svolgere una funzione sociale e onorare un servizio e di ricevere un compenso per esso, non una moneta di scambio per la propria vita, è un principio tanto elementare quanto disatteso ormai nel mercato del lavoro. Se si arriva all’orrore di morire per lavorare è la Costituzione di questo paese che viene tradita. E’ il senso profondo di ogni uomo. E’ ben oltre quello che teorizzava Marx con la sua teoria del plus valore. Siamo alla contraddizione del lavoro che uccide l’uomo per il denaro.

Un conflitto che racconta di un’antiumanità insidiosa e pericolosamente normalizzata, il cui contrappasso quasi spirituale, aldilà della legge di un tribunale e dei risarcimenti pecuniari, è fatta di una pena che pesa 18 anni di vita.

di Rosa Ana De Santis

Nel giorno in cui la madre di Fabiana Luzzi, la sedicenne uccisa dal fidanzatino e bruciata ancora viva, dal balcone di casa grida il proprio dolore, la Camera dei Deputati ascolta, tra troppi banchi vuoti, la relazione di  Mara Carfagna, l'ex ministro delle Pari opportunità, sul ddl della Convenzione di Istanbul, il trattato del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia a Strasburgo nel settembre scorso.

Si complimenta con la relatrice la Presidente, Laura Boldrini, e si rammarica dei troppi scranni deserti. La polemica si accende subito però con le parole via Facebook della deputata Cinque Stelle, Ruocco, che infiamma gli animi accusando l’ex ministro di non essere un interlocutore credibile sui temi della tutela del corpo femminile e della non strumentalizzazione svilente da parte dei media. Perché anche di questo ha parlato la Carfagna, andando proprio a caccia di critiche e ilarità, viene da pensare, come infatti accaduto nel dibattito scatenato dalla deputata Ruocco.

La difesa non si è fatta attendere e l’ex Ministro ha risposto denunciando le modalità aggressive e preconcette di attacchi che sono, a suo avviso, figli di una cultura sessista e maschio-dominante, come a dire che le donne parlano un’altra lingua. Ora, se è vero che l’attacco Cinque Stelle nel contesto di una relazione cosi importante può esser stato fuori luogo - il che è in linea con la modalità piazzaiola dei grillini - ben buffo è che la Carfagna respinga al mittente il dileggio parlando di preconcetti.

Non è un preconcetto, ma un fatto, che la Mara nazionale facesse la valletta in bikini, abbia fatto calendari svestita utilizzando il suo corpo per conquistare notorietà e incamerando a dovere tutti i canoni che vogliono le donne in una posizione estetico-sessista a servizio del piacere dei maschi. L’evoluzione politica dell’ex velina che ne è seguita, inoltre, e che l’ha vista arrivare a tutta velocità da deputata a ministro, non è stata proprio quella tradizionale di chi ha mangiato pane e politica nei comitati, nelle piazze, sul territorio e tantomeno priva di dubbi e misteri visto che il mentore della novella Mara non era un capo di partito come un altro, ma l’uomo al centro degli scandali del sesso e delle discutibili procedure di allocazione professionale di avvenenti ragazzine. Insomma la storia dei riscatti personali e delle evoluzioni solitamente è fatta di altro. E non é un caso che, da ministro delle Pari opportunità e da esponente di rilievo del PDL, non si ricorda una sola parola di condanna della Carfagna in relazione ai riti delle "cene eleganti" del suo capo, alle sue battute da osteria e ai suoi comportamenti sessisti e volgari.

L’urgenza però di intervenire sul fenomeno che vede le donne italiane vittime, con  numeri da capogiro, della violenza dei maschi, soprattutto in famiglia, esige in ogni caso un impegno istituzionale totale in cui non c’è spazio né tempo per mettere al centro la storia della Carfagna. Non soltanto perché davvero non importa un caso personale ampiamente dibattuto e forse già archiviato, ma perché diventa l’ennesimo pretesto perché le donne parlino tra di loro o contro altre donne impedendo di vedere da quale parte della società siedono i veri protagonisti di questo triste fenomeno. Grave, quindi, che la Camera fosse quasi vuota.

La questione, aldilà del pregevole strumento normativo della Convenzione di Instabul, deve uscire fuori dal gineceo e diventare principalmente patrimonio degli uomini. Da quelli di Stato, ai padri, ai mariti, ai figli. Sono loro i protagonisti di una società maschile che uccide per cultura più che per natura.

Vorremmo fosse dedicata a loro la nuova pubblicità progresso. Non una, come quella lanciata dalla Carfagna contro l’omofobia, in cui non importava il sesso (discutibile peraltro), ma una nuova in cui il sesso e la differenza biologica siano rimessi al centro e compresi nell’assoluta disparità che non è diseguaglianza. A questo dovrebbe tendere l’evoluzione culturale di una società legata ancora ad arcaismi d’ignoranza e a parametri di forza. Intanto riconoscersi per quello che si è.

La legge e la mano dura delle forze dell’ordine (fronte su cui gravano altrettanti gravi lacune) dovranno poi diventare lo strumento indispensabile e parallelo per arginare la mattanza. La cronaca ci racconta di pene scontate, di centri anti-violenza senza fondi, di un  60% delle donne uccise tra coloro che denunciano perché non protette abbastanza.

L’emergenza che vivono le donne italiane ha bisogno di teste all’altezza e di esempi, di paradigmi. Sarà questo a fare la differenza, quella che tornerà a rappresentare un valore e un modello di pensiero per mano, questo certamente, non di dilettanti esperte di genere a seconda dei casi.

di Silvia Mari

A Bologna vince, con un epilogo che assomiglia un po’ a quello di Pirro almeno nei numeri di partecipazione, la scuola pubblica: questo l’esito del quesito referendario dello scorso 26 maggio. La proposta di rimettere la parola ai cittadini sulla destinazione dei fondi pubblici per le scuole private era stata fortemente voluta dal “Comitato articolo 33”, sostenuto da Cinque Stelle e Sel in opposizione alla santa alleanza tra Pd e cattolici.

La partecipazione al voto è stata scarsa, con sonora sconfitta quindi dei partiti che non sono riusciti a rendere sentito il voto, trattandosi in effetti solo di un’espressione consultiva. Unico giudice poco severo sulla scarsa affluenza (28,71%) è Romano Prodi, che di questo sistema di condivisione pubblico-privato ne è stato propositore ai tempi dell’Ulivo.

Il caso nasceva dai soldi che ogni anno partono dalle casse comunali per le scuole materne private, ma certamente il tema politico sotteso al referendum voleva essere più esteso e su questo terreno di massimi sistemi la sciagurata presa di posizione del PD è un’utile lente per valutare lo stato di salute di tutto il partito, anche sul piano nazionale aldilà di chi ora frettolosamente plaude alla sua rinascita solo perché al primo turno nella Capitale il fiacco Marino supera il disastro Alemanno.

Il sindaco di Bologna, Virginio Merola, ha messo in campo tutte le forze del partito per convincere i cittadini a votare l’opzione B, che voleva pervicacemente l’integrazione di pubblico-privato a carico delle tasche dei contribuenti, stringendo la mano a Curia e Pdl.

Seppure nel flop dell’affluenza ha vinto invece l’opzione A che, Costituzione alla mano, crede che i soldi pubblici debbano andare solo ed esclusivamente alle scuole di Stato e che le altre, come vuole il più classico sistema liberale, non i soviet, debbano vivere di rette e di fondi privati.

Se il Partito Democratico riesce ad imitare così bene i finti liberali del Pdl che vogliono il privato sulle spalle del pubblico è evidente che non soltanto è cessata la fine di una tradizione di sinistra che nell’istruzione e nella sanità non può ammettere sconti al diritto per censo, ma anche ogni possibilità di diventare, magari fosse, liberali sul serio. Né l’uno, né l’altro quindi in nome di una rete di interessi con le lobby cattoliche che disonora un po’ tutti. Vale la pena ricordare che 25 delle 27 scuole private materne convenzionate sono quelle di sacerdoti e suore.

La vera vittoria di Bologna, alla resa dei conti e chiusi i seggi del voto, è fatta di due momenti. Il primo è quello di aver scelto di interrogare direttamente i cittadini, restituendo alla loro voce l’adesione e il parere su un diritto costituzionale fondamentale quale quello dell’istruzione. Il secondo è quello che sancisce ufficialmente la fine di un partito che voleva essere di sinistra, ma che è slittato terribilmente al centro, non da oggi e non su questioni di contorno.

I cittadini, gli elettori storici lasciati per strada dall’investitura ufficiale della “sinistra compatibile” continuano, come l’esito del voto conferma al netto della disaffezione di chi non ha votato perché non toccato direttamente dal problema, ad esprimere la sopravvivenza di una cultura che su alcuni diritti fondamentali non accetta desistenze né inquinamenti di pensiero.

Il referendum di Bologna non è utile solo a ribadire che sui diritti fondamentali non ci possono essere contiguità di convenienza tra sistemi di valore diversissimi, né accomodamenti. L’istruzione di un popolo è compito dello Stato e, seppure sono possibili interventi dei privati, essi non possono mai essere finanziati con fondi della collettività che vanno invece indirizzati al sostegno alla scuola pubblica. E un’assurdità che i soldi dei cittadini finanzino scuole che costano, che non sono alla portata di tutti e che hanno obiettivi culturali non pienamente e in toto sovrapponibili a quelli dello Stato. Esattamente come accade tra ospedali pubblici e cattolici o privati in generale.

Forse il voto di Bologna ci dice anche che è un bene che i figli, specialmente negli anni della materna e delle elementari, frequentino le scuole pubbliche per assicurarsi una formazione “neutra” e non orientata e che solo dopo per loro le famiglie scelgano percorsi in istituti privati.

La sinistra democratica italiana, in una rimozione che non può essere perdonata, avallando questo meccanismo per cui il pubblico finanzia il privato ha buttato all’aria quel principio di sussidiarietà che pretende doverosamente il contrario, ovvero che gli abbienti paghino per quei servizi fondamentali di cui tutti hanno diritto, senza distinzione di censo. Questo fa la differenza tra uno Stato giusto e democratico e una aggregazione di interessi particolari. Lo dice Rousseau alla lezione numero uno sulla democrazia. E lo dice il buon senso che la scuola privata destinata ai più abbienti non può essere sul conto di tutti.


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