di Rosa Ana De Santis

E’ nata la banca delle mutazioni genetiche umane. Al momento vi sono 3.396 geni classificati nelle loro mutazioni e il numero è destinato a crescere. A coordinare il progetto è Sebastian Nijman, del Centro di Medicina Molecolare dell’Accademia Austriaca delle Scienze. Di questa novità si è occupata la rivista scientifica Nature Methods e non vi è dubbio che il valore autentico risiede nello studio di tutte le mutazioni e della correlazione con le patologie possibili.

Sembra un romanzo di fantascienza, ma è questo il traguardo che oltre dieci anni fa si è spalancato agli scienziati con il sequenziamento del genoma umano.  I circa 20.000 geni sequenziati sono ancora ignoti nel loro meccanismo di funzionamento ed è in questa incognita che risiede il limbo non del tutto chiarito tra alterazioni e polimorfismi, tra mutazioni  e predisposizioni alla malattia o patologie conclamate.

Il clamore anche ingenuo che aveva portato a pensare che bastasse dare un nome ai geni per avere in pugno il dna è ormai superato dalla consapevolezza che le migliaia di osservazioni sul funzionamento della comunicazione cellulare saranno fondamentali per dare un vero senso di utilità alla genetica rispetto alla salute delle persone e alla prevenzione. La banca in questione va in questa direzione specialmente per quanto riguarda lo studio delle mutazioni e delle malattie che ne conseguono: cellule identiche con geni mutati all’interno rappresentano il tesoro custodito.

La frustrazione più grande che vive la medicina oggi, sul confine della cosiddetta medicina predittiva, è di aver individuato la correlazione, con stime percentuali, tra mutazioni e malattie o rischi di malattie, senza aver però colto il modo in cui inibire questa relazione con terapie geniche, a volte impedite dalla legge, o farmacologiche, spesso mai tentate per mancanza di fondi adeguati alla ricerca.

Il limite è quindi di natura conoscitiva, ma non solo e non sempre. Se è velleitario pensare di poter arrivare ad una mappa completa di queste mutazioni, è anche lecito supporre che potrebbe diventare scomodo su più fronti, non tutti di ordine morale, pensare di poter arrestare malattie e impedirne preventivamente la comparsa.

Fatto è che la genetica, ormai riconosciuta come regina della medicina, è ancora vittima tanto di pregiudizi e timori di ordine morale, quanto di semplificazioni come quelle di chi pensa che la natura umana e le sue deviazioni patologiche abbiano nei geni la loro unica risposta e ragione.

In termini filosofici potremmo dire che l’uomo è anche i suoi geni, ma che in essi non risolve pienamente se stesso. Esistono tutta una serie di cause e azioni cosiddette epigenetiche che intervenendo sul corredo di partenza possono scatenare malattie o caratteristiche di adattamento e magari anche, questa la frontiera della scienza, correttivi.

Dare un nome a tutte le mutazioni o prefiggersi di farlo è in ogni caso un salto di evoluzione per la conoscenza e la scienza. Per aiutare le persone a difendersi, sempre che alla ricerca sia consentito di andare avanti e che  uomini e donne non siano abbandonati  ad un referto genetico che non prevede una cura. Tutto questo può aiutare la civiltà umana a comprendere, prove di laboratorio alla mano, che non esistono nature rette e nature deviate, come il termine mutazione indurrebbe a credere scatenando, come spesso è accaduto, trattamenti discriminatori per i portatori.

Ma esistono nature diverse, con assoluti e multiformi scambi di comunicazione e comportamento, molti dei quali ancora ignoti, che spiegano soltanto la profonda differenza tra le persone. Ognuna della quali prima o poi saprà di avere in quella banca la sigla del suo tallone di Achille.

Non un destino ineluttabile scritto nelle stelle, ma un’identità infinitamente piccola per cui speriamo, e la scienza deve aiutarci a farlo, di trovare rimedi e cure secondo un preciso riferimento morale che ci obblighi a trattare queste mutazioni come differenze inclusive e non come penalizzazioni discriminante. Perché “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”, avrebbe scritto anche oggi Kant allo scienziato del DNA.



di Rosa Ana De Santis

Il dossier sulla spesa sanitaria e la diffusa difficoltà ad accedere a cure e medicinali è stato presentato al Meeting di Rimini dalla Fondazione Banco Farmaceutico e dalla Caritas Italiana. La povertà sanitaria, che non risparmia neppure regioni virtuose come l’Emilia Romagna, è aumentata del 97%. E’ questo il volto più violento e ingiusto della crisi economica e delle lacune del sistema di welfare.

Per moltissimi cittadini (pensionati, famiglie monoreddito, stranieri) è diventato impossibile acquistare medicinali, anche con prescrizione medica; e questo nel caso di malattie lunghe e croniche rappresenta una menomazione pesantissima del diritto di cura come stabilito e normato dalla nostra Costituzione. Il lavoro di questa ricerca va avanti dal 2006 e tiene conto anche dei numeri della raccolta annuale legati alla Giornata Nazionale del Farmaco.

Sono i centri d’ascolto delle Caritas o delle comunità come Sant’Egidio a intercettare il disagio proveniente dalle categorie sociali impoveritesi negli ultimi anni. L’aumento di richiesta di medicine negli ultimi tre è stato del 57%. A questo proposito, tanto per cominciare, sarebbe urgente approvare la proposta di legge ferma al Senato che prevede la donazione di farmaci da parte delle aziende produttrici. A rinnovare l’invito è il presidente del Banco Farmaceutico onlus, Paolo Gradnik.

E’ in Centro italia, seguito dal Nord comunque in testa per i numeri del bisogno assistenziale, che il trend di richiesta assistenziale di farmaci è cresciuto in modo esponenziale. Un aumento che sta a significare che laddove la richiesta anni fa era al minimo, ragioni economiche e impoverimento delle famiglie hanno letteralmente stravolto lo scenario.

Sono confortanti i dati che documentano la solidarietà e i numeri delle donazioni, ma non c’è dubbio che l’emergenza richiede organizzazione preventiva e programmata. Nel suo blog don Vinicio Albanese, presidente della Comunità di Capodarco, commenta questo dossier come una ferita grande e insidiosa del nostro sistema sanitario e del diritto alla cura.

Quando oltre alle spese di vita, dalla casa al vestiario, le persone iniziano a rinunciare a curarsi è evidente, prosegue nelle sue riflessioni, che si sta scendendo verso la povertà assoluta.

Vuoti legati alla fiscalità, business delle case farmaceutiche e indolenza politica rappresentano nodi da sciogliere. La solidarietà non risolve l’ingiustizia che ormai penalizza gli italiani colpiti dalla crisi e le famiglie cosiddette “normali”.

Anche per questo sentire un Brunetta che fa il tifo affinché l’IMU, per citare uno dei più attuali titoli dell’estate politica italiana, sia abolita per tutti, anche per i ricchi e i ricchissimi, mette in luce un dato drammatico, che poco ha a che vedere con l’identità di una politica e di un partito. La miopia e l’impreparazione di chi non coglie nei numeri dei nuovi poveri  l’affacciarsi di una pagina diversa della storia italiana.

Di una rivoluzione che bolle sotto la cenere e che continua a non essere letta e vista, ad eccezione, questo va riconosciuto, solo di Grillo e dei suoi. La pace sociale non si regge sulle larghe intese di questo governicchio o sulla sorte giudiziaria di un leader in naftalina, ma sulle case, sul pane, sul lavoro e sulla dignità di un Paese che vede la Grecia a poche miglia di mare.

di Antonio Rei

Magari vi siete visti una volta soltanto, ma ormai siete amici. Conoscete l'uno dell'altro dati sommari e intimi al tempo stesso: dove siete, cosa fate, con chi, cosa v'interessa, cosa v'indigna, cosa vi fa ridere. Lo sapete perché postate. Che si tratti di un editoriale del Corriere o di una foto scattata con lo smartphone (i piedi a mollo nel mare sono un classico), voi postate. E pensate che vi faccia sentire meglio? Vi sbagliate, è il contrario.

"In teoria Facebook fornisce una risorsa inestimabile per soddisfare il basilare bisogno umano di connessione sociale, ma piuttosto che migliorare il benessere, provoca il risultato opposto: lo mina". Parola di Ethan Kross, coordinatore di una ricerca pubblicata dalla rivista Plos One sulle connessioni fra il più popolare social network e il livello di felicità degli utenti. Insieme ai colleghi del’Università del Michigan, Kross ha dimostrato empiricamente che ad ogni click il benessere cala. Poco, ma cala.

I ricercatori hanno dato uno smartphone a 82 giovani adulti e hanno chiesto loro di utilizzare Facebook come da abitudini (ovvero spesso, visto che gli iscritti intorno ai 20 anni sono i più attivi). Nell'arco di due settimane, i partecipanti hanno risposto quotidianamente a cinque domande inviate attraverso altrettanti sms: "Come ti senti in questo momento? Quanto sei preoccupato adesso? Quanto hai usato Facebook dall’ultima volta che te lo abbiamo chiesto? Quanto hai interagito direttamente con altre persone dall’ultima volta che te lo abbiamo chiesto? Quanto sei soddisfatto?".

Risultato: minore era il tempo trascorso dall'ultimo accesso a Facebook, peggiore era la risposta degli intervistati. Chi ha usato con maggior frequenza la creatura di Sua Maestà Zuckerberg ha subito i peggiori cali nel livello di soddisfazione personale fra l'inizio e la fine del test. E, al termine dell'esperimento, alcune delle cavie hanno avuto perfino il coraggio di commettere la grande empietà: abbandonare il social network dei miracoli, la rete che vanta oltre un miliardo di account sparsi per il pianeta.

"Dallo studio è emerso che Facebook non è servito da valvola di sfogo quando le persone si sono sentite depresse o tristi - ha spiegato ancora Kross -. I partecipanti erano meno propensi a collegarsi a Facebook se si sentivano giù. Mentre le probabilità di utilizzo diventavano più alte se le persone si sentivano sole".

D'altra parte, è stato dimostrato anche che le "interazioni dirette" con altri esseri umani, sia telefoniche sia di persona, portano benefici all'umore. Magari non era proprio necessario un pool di scienziati del Michigan per arrivare a questa illuminata conclusione. Da che mondo è mondo "esci un po' di casa" è il consiglio della nonna per i nipotini melanconici.

Sia come sia, qual è la morale? Lunga vita alle "interazioni dirette"? La deduzione sembra un po' banale. "Beh, dipende con chi", viene da rispondere. Anche perché ci sono persone con cui non si vuole o non si può più interagire. Persone che però non cancelleremmo mai dagli amici di Facebook, un po' per orgoglio, un po' perché ci interessa ancora spiare la loro vita. Ammettiamolo: nessun buco della serratura è mai stato così comodo per sbirciare cosa ne è stato di chi una volta chiamavamo "Amore", a voler citare quel gran poeta di Moccia. 

In effetti, secondo un altro studio - meno recente del primo ma altrettanto geniale - chi ha appena chiuso una relazione sentimentale si ritrova spesso a spulciare il profilo online dell'amore perduto. La ricerca - firmata dalla psicologa Tara C. Marshallo e pubblicata sulla rivista online Cyberpsychology, Behavior, Networking - dimostra che mantenere l'amicizia virtuale con il vecchio partner rende più difficile accettare la separazione.

"L'amicizia su Facebook con un vecchio partner è associata a un sentimento di angoscia, di emozioni negative, di desiderio sessuale e di aspettative verso l'ex, nonché di basso sviluppo personale - si legge nello studio -. Superare la perdita di una relazione implica non solo la necessità di mettere da parte qualsiasi eventuale risentimento e staccarsi dall'altro, ma anche di costruire nuove esperienze che rendano possibile la maturazione personale".

Insomma, non c'è proprio nulla da fare: lunga vita alle "interazioni dirette". E'inevitabile. La nonna - che sia del Michigan o meno - ha sempre ragione.

di Rosa Ana De Santis

E’ accaduto a poche ore dal ferragosto, sulla spiaggia di Pachino, in provincia di Siracusa. I bagnanti, dopo che la segnalazione ha raggiunto la Guardia Costiera per un barcone arenatosi a poca distanza dalla riva, si sono uniti in una catena umana e hanno aiutato i 160 migranti a salvarsi, tra loro anche donne incinte e 50 bambini.

E’ diventata persino la foto di prima pagina del Los Angeles Times quella che ritrae questi italiani generosi in mare, impegnati nei soccorsi accanto alle motovedette. Gente in vacanza che ha abbandonato lettino e pedalò alla vista dell’ennesimo barcone e delle persone che annaspavano tra le onde. Immagini di una solidarietà senza retorica che “fanno onore all’Italia” come ha dichiarato il Presidente della Repubblica Napolitano.

La foto risponde meglio di tante declamazioni alle parole della chiusura e del pregiudizio razziale che hanno infiammato il dibattito politico estivo tra la Lega e il Ministro Kyenge, contribuendo a dare del nostro Paese un’immagine affatto nobile nel contesto europeo. L’azione spontanea e umana di questi italiani restituisce un po’ di valore e di sostanza al tutto ricordando che il tratto di umanità e di moralità non può mancare nella gestione di un problema tanto complesso quale quello della migrazione, che con sé porta drammi umani fatti di guerre, persecuzioni, malattie e fame. Se si può e si deve ragionare sulla gestione migliore dei flussi, non si può disattendere il principio del soccorso e dell’accoglienza a chi patisce un dramma umanitario.

Mentre nella memoria è ancora fresca la foto che ritraeva i sei migranti morti sulla spiaggia di Catania tra le file  degli ombrelloni e delle sdraio, questa notizia ribalta la scena e i migranti si salvano restituendo a tutti una vittoria, perché in tanti hanno deciso che aiutarli era anche un loro dovere.

Si fa presto a cadere nella tentazione di credere che quello della solidarietà sia il vero spirito degli italiani, il tratto più autentico e quasi un capitale storico e atavico del tricolore. La verità è che quella fotografia ci sorprende e ci meraviglia perché racconta di un’Italia accogliente che non si trova più. Inasprita dalla crisi, da politiche per l’immigrazione che fanno acqua, dall’abbandono del welfare per le classi più povere e impoverite. è di fatto un paese che vorrebbe alzare i confini nell’illusione, avallata da certi partiti, che questo basti a fermare l’emigrazione verso l’Occidente.

Non basterà, così come la campagna d’odio xenofobo perpetrata da tanti non è bastata ad impedire che molti italiani si buttassero in mare per aiutare uomini, donne e bambini. E a nessuno importa più che siano clandestini. Soprattutto agli italiani degni di essere chiamati tali.

di Rosa Ana De Santis

C’erano due bambini sul barcone dei migranti soccorsi una settimana fa alle porte di Lampedusa: ben 103 strappati alle onde, tranne loro due, dispersi in mare. E c’era un adolescente tra i sei corpi distesi sul lungomare catanese. Sono sempre di più i migranti minori: bambini, adolescenti spesso non accompagnati. I dati di Save The Children, da gennaio a luglio di quest’anno, stimano 1.257 contro i 628 dell’anno passato. Si tratta in maggioranza di egiziani, eritrei e afghani e la Sicilia, con Lampedusa, rappresentano l’approdo principale.

Molti di questi, peraltro, spesso non vengono riconosciuti come minori e sono trattati, dalla detenzione nei CIE al resto, come maggiorenni a tutti gli effetti. Il fenomeno dei minori non accompagnati rappresenta un’emergenza nell’emergenza di cui finora lanciano segnali di fortissima preoccupazione soltanto le associazioni coinvolte.

Sono intervenuti Vincenzo Spadafora, Garante dell’Infanzia e il Ministro Kyenge a ricordare l’urgenza di azioni politiche di maggior controllo su questo esodo inarrestabile di migranti, profughi e rifugiati, chiedendo all’Europa una maggiore partecipazione e un coinvolgimento operativo nell’accoglienza di questi flussi della disperazione.

Esiste una proposta di legge promossa da Save The Children che ha raccolto pareri favorevoli dalla politica italiana in modo trasversale. Una legge ispirata alla Convenzione di New York, del resto recepita già dalle nostre Istituzioni, in cui si chiede di mettere in campo risorse e piani di programmazione e non misure emergenziali ed estemporanee per l’accoglienza dei migranti bambini.

Una informazione delle procedure di identificazione, una banca nazionale di dati per indirizzare i giovani nei centri giusti di tutte le regioni, un sistema nazionale con un fondo ad hoc ed un piano di interventi omogenei che si assicuri anche sul livello e la qualità delle collocazioni di questi minori: dalla scuola alla salute ad ogni tipo di supporto, specialmente per quanti vittime di abusi e sfruttamento.

Importante la figura dei “tutori volontari” fondamentali anche nel passaggio dalle strutture di accoglienza alle varie forme di affido familiare. La tutela speciale per l’infanzia non risponde soltanto ad un imperativo morale, ma anche alla possibilità - nel caso di bambini ben più semplice e realizzabile- di formare queste future generazioni come figli italiani a tutti gli effetti.

Se tutto il problema dei migranti rappresenta una voragine normativa ancora aperta e drammaticamente insoluta nella storia politica non solo italiana, ma europea in generale, l’emergenza dei bambini è prima di tutto un’omissione insostenibile in un sistema di civiltà democratica. I bambini detenuti nei CIE, abbandonati a se stessi in condizioni di totale promiscuità con gli adulti, senza strumenti di accoglienza e integrazione, senza scuola sono la ferita aperta più dolorosa per un paese come il nostro.

Un’infanzia in emergenza che non può attendere le leggi sulla cittadinanza e l’accordo dei nostri governi traballanti e stagionali. Serve un piano tecnico che adotti misure di buon senso e di programmazione sul lungo periodo, che tiri fuori soldi o che, ancor meglio, giacché i soldi vengono spesi lo stesso per interventi di soccorso una tantum, li investa in un piano sensato e organico ad hoc che riconosca ai fanciulli, quale che sia la loro provenienza, il diritto all’infanzia.

Non sono immigrati, non sono rifugiati, non sono clandestini, ma bambini e per giunta soli. L’ultimo dei quali è venuto a morire sulla spiaggia di uno stabilimento esclusivo ed elegante, alle porte di un ferragosto, vinto dalla fatica dell’ultima bracciata in mare. Come Se fosse un uomo.


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