di Rosa Ana De Santis

La pioggia delle notizie di cronaca lo dice chiaramente: le donne nel nostro Paese sono, molto più spesso di quanto non si sappia, vittime di violenze e abusi di ogni sorta, con dei numeri che, come ha ribadito il Presidente del Senato Aldo Grasso intervenuto alcuni giorni fa all’Audit nazionale sulla violenza di genere, sono quelli di una vera e propria “emergenza sociale”.

C’è un tema culturale alla radice di questo fenomeno, ma c’è anche l’urgenza di provvedimenti che non possono attendere i tempi di una vera e propria rivoluzione culturale. Perché la violenza, bene ricordarlo, affonda le proprie radici nelle relazioni private, nel tessuto della famiglia, nelle pareti di casa e racconta di rapporti uomo-donna non paritetici, di ruoli sociali atavici mai superati, di un ritardo culturale italiano che mina la tentazione, in voga persino tra i leghisti quando parlano di immigrati, di sentirsi modello di civiltà.

Le norme ci sono, ma vanno attuate, ha ribadito Grasso. E forse c’è bisogno anche di misure nuove, aggravanti ad hoc. Occorre mettere in campo  azioni di tutela a tappeto per le donne in pericolo, per coloro che denunciano e che poi vengono uccise (circa il 60%). E infine inutile invitare alla denuncia senza stanziare risorse adeguate per le case antiviolenza, come ha ribadito il ministro delle pari opportunità Josefa Idem.

Incoraggiare le donne alla sacrosanta ribellione, alla denuncia dei carnefici non riuscendo però a garantire loro adeguato supporto è come chiedere alle vittime di pagare da sole tutto il prezzo della propria salvezza. Prezzo che per una persona che vive sotto vessazioni fisiche e psicologiche diventa colpa, magari desistenza alla legittima rivendicazione di un diritto. Non serve una lezione di psicologia per comprenderlo.

Nascerà una commissione parlamentare sul femminicidio per adeguare l’ordinamento giuridico e fare una ricognizione puntuale delle mancanze e inadempienze che ad oggi hanno portato a morire quelle donne che avevano trovato il coraggio di denunciare.

Il tema culturale, su cui Grasso è tornato più volte nel suo discorso, è certamente il terreno su cui si dovrà lavorare a lungo e intensamente. Per essere più precisi è agli uomini di questo paese che a partire dalla scuola, prima ancora che dalla famiglia, si dovrà insegnare a conoscere la differenza di genere,  che è qualcosa di più e di diverso che ragionare di eguaglianza e di diritti.

L’emergenza sociale vera è quella dei carnefici di sesso maschile. Mariti, padri, compagni che diventano armati alla rottura di una relazione o che ne alimentano la sopravvivenza in un regime di patologico controllo. Quando una ragazza, la bellissima Miss di Caserta, arriva a perdonare da un letto di ospedale il fidanzato che le ha spaccato a calci una milza in nome dell’amore che prova per il suo Antonio ci dice che le donne, anche loro, sono prive di una consapevolezza di genere.

Non importa l’età e la generazione cui appartengono. E che questo è un paese di maschi che nello scorso anno ogni due giorni hanno assassinato una donna. Una fidanzata, una moglie, una ragazza desiderata. Una come Rosaria che il suo Antonio dovrebbe mandarlo in un centro di recupero per violenti (quei pochi che ci sono, ad esempio in Trentino) ed andarsene con una denuncia alle spalle e non con le botte sulla faccia del prossimo episodio. Per dare a se stessa la dignità di essere donna e ad un maschio pericoloso l’unica chanche che ha di salvarsi e imparare ad essere un uomo.


di Rosa Ana De Santis

Il Ministro dell’integrazione, Cecilie Kyenge, ha annunciato ormai da tempo di voler rivedere il reato di clandestinità e i criteri necessari per acquisire lo stato di cittadini italiani ad oggi negato ai numerosi immigrati regolari che in Italia lavorano, pagano le tasse e sono perfettamente integrati da numerosi anni. Al solo annuncio la Lega Nord ha minacciato battaglia senza nemmeno troppo disturbo di negare la propria xenofobia,  manifestata del resto con linguaggio da stadio contro lo stesso Ministro.

Il segretario nazionale Matteo Salvini con i probiviri del Carroccio ha iniziato una raccolta firme per avviare un’interpretazione ancor più  restrittiva della legge Bossi-Fini. Difficile intuire cosa di peggio possa produrre la campagna in questione dal titolo “Clandestino è reato”: forse i ceppi ai piedi nei Centri di espulsione che sono già dei lager o magari fucilazioni di stato sui barconi alla deriva. La legge infatti nei riguardi dei clandestini è assurda giuridicamente e mette in campo già misure severe la cui inefficacia è peraltro conclamata, con buona pace dei leghisti. Ma la mancata applicazione delle norme stesse è da attribuire all’inadempienza di mezzi e risorse nelle procedure di controllo, non certo nell’impostazione normativa, che fa dell’Italia un paese in chiusura libera agli stranieri che arrivano.

Certo è che l’Italia non può prescindere dalla propria collocazione geografica che la rende di fatto corridoio dell’Europa (la vera meta di moltissimi immigrati che qui passano senza rimanere a lungo). Né tantomeno da un tempo storico che il fenomeno dell’immigrazione dalle zone disperate del Sud del Mondo non può fare altro che gestirlo, salvo ritrovarsi a costruire norme, balzelli e divieti che oltre che indecenti sarebbero impossibili da applicare fino in fondo, come ampiamente dimostrato (la legge Bossi - Fini nelle sue velleità di azzerare i clandestini, che invece abbiamo ovunque). La Lega nostalgica dell’Europa dei popoli che non esistono più, si agita ancora nell’esprimere rifiuto alla società multirazziale che esiste ormai da un pezzo anche nel loro cortile padano e nelle adorate fabbrichette del triangolo della ricchezza. Un lapsus che significa clandestini no, schiavi si.

Il Ministro parla di cittadinanza secondo Ius Soli, esattamente come è negli Stati Uniti d’America e di un prossimo ddl. Testimonial della campagna istituzionale potrebbe essere proprio l’italianissimo beniamino del calcio: Mario Balotelli, vittima spesso di insulti dagli spalti alle strade di Roma e che si è detto subito disponibilissimo. Il tema, annunciato in tv dal Ministro, intervistata da Lucia Annunziata, arrivò come una sorpresa in mezzo ad un governo che ancora oggi faticosamente riesce a tenersi in piedi sull’ovvio e sull’emergenza, figurarsi quanto inadeguato per la sfida di un dialogo e di una mediazione politicamente cosi elevata e complessa. Governo che ha per Ministro degli Interni il braccio destro di Berlusconi che, ricordiamolo, chiese ai medici di denunciare gli stranieri immigrati dopo, durante o subito dopo averli curati in pronto soccorso.

La proposta di rivedere lo status di cittadinanza è legata mani e piedi all’anima di una società diversa in cui si appartiene allo Stato per cui si lavora, cui si pagano le tasse, nelle cui scuole si mandano i figli a studiare e anche ad apprendere una cultura, un modo di vivere e di pensare che mai come nel caso italiano è fatto di contaminazioni culturali, di popoli diversissimi, di fasi storiche incalzanti e sovrapposte.

Forse sarebbe giusto pensare ad uno ius soli legato anche a questo termometro di crescita e formazione e non solo all’atto di nascita in sé, forse un modo più esaustivo e autenticamente in linea con la società di oggi di sentirsi cittadini di uno Stato che è qualcosa di più che esserlo e basta come per acquisizione meccanica, non mediata da una scelta.

Difficile pensare che questo governo così fragile possa imbarcarsi in una svolta tanto epocale. Più facile continuare a dare il voto a quegli italiani di due generazioni fa che vivono altrove da almeno 100 anni e non hanno più niente da offrire all’Italia se non un voto elargito per affezione ideologica e poco altro.

In ogni caso ad un Ministro che ha scontato sulla propria pelle nera il prezzo dell’insulto e della discriminazione, fin da giovane studentessa di medicina in Italia, va riconosciuto il merito di aver ricordato all’agenda del Palazzo che il tema degli stranieri, il peso del razzismo, l’ingestibilità di quanti sotto clandestinità delinquono, facendo scontare a tutti gli immigrati quest’onta, è la prova di un’inadempienza politica grave “tutta nostra” e di un ritardo che come su tutti gli altri fronti ci rende poveri.

Forse anche nelle tasche, se tutti coloro che non sono ancora cittadini smettessero di pagarci la scuola o la sanità. Forse non solo nelle tasche se la soddisfazione di essere italiani si misura con il gusto di negare diritti a un uomo, a una donna o a un bambino solo perché sono nati, senza chiederlo e forse senza volerlo, da Lampedusa in su.

di Silvia Mari

La storia di Angelina Jolie mi raggiunge una mattina, mentre sono seduta alla mia postazione, pronta per iniziare la consueta giornata di lavoro. Sono stupita e sconvolta come se in fondo avessi la sensazione che certi problemi di vita non possano colpire le celebrità e le loro vite fortunate. Un secondo dopo lo stupore provo gioia perché vedo già lo tsunami mediatico che si consuma in queste ore e me ne rallegro perché, pur con tutte le insidie e i rischi, accendere la luce su un tema che ancora fatica ad essere trattato degnamente è un merito ed è un’occasione.

Il clamore raggiunge anche me che, come la Jolie, il 13 dicembre 2007 ho scelto, a 28 anni, di togliermi il seno perché portatrice di una mutazione genetica, nel mio caso BRCA2 che espone all’altissimo rischio di sviluppare il cancro del seno in giovane età (intorno all’80%) e il cancro dell’ovaio secondo percentuali ridotte. Da questa esperienza era nato un libro documento “Il Rischio” che questa testata, con cui collaboro da tempo, ha ospitato sulla propria home page dal 2010 ad oggi e che numerose donne, dal Nord al Sud del paese, ha raggiunto e ha informato. E’ difficile essere rapiti dal frastuono dei media e cercare di dare risalto ai mille volti di storie come la mia.

Il coro dei pareri, i favorevoli e i contrari, rischiano spesso di ridurre e semplificare una scelta che non può che essere complessa e ricca di tanti aspetti da considerare e, purtroppo, la tentazione di dire “è giusto o sbagliato” prima di capire è dietro l’angolo. Ho deciso di rivolgermi alla chirurgia preventiva dopo aver seguito un lungo ed articolato percorso multidisciplinare di sostegno e preparazione, dopo aver vissuto anni nella sorveglianza speciale riservata ai mutati e soprattutto dopo aver avuto in mano una diagnosi del mio rischio genetico che è cosa ben diversa dalla vaga familiarità.

Slegare la decisione da questa evidenza clinica e associarla alla paura del cancro, come ho letto in qualche titolo d’assalto, snatura completamente l’analisi di questa condizione di predisposizione genetica. Alle persone come me la medicina oggi può offrire la sorveglianza, la chemio prevenzione – peraltro poco caldeggiata perché non da garanzie chiare di protezione nel tempo - , la chirurgia.

Pensare che una donna giovane e in salute possa decidere di rinunciare al proprio seno come ho letto o sentito, non un organo neutro come tanti altri, solo per paura o perché ha avuto qualche caso di tumore in famiglia, significa non voler parlare con rigore di cosa sia il rischio genetico. Peraltro le donne che portano in dote una mutazione di questa natura vengono da famiglie che sono state colpite duramente dal cancro e hanno vissuto pienamente – ahimè - nella conoscenza e consapevolezza della malattia.

Nel mio caso decidere di togliere il seno che aveva questo altissimo rischio di ammalarsi è stato anche un modo per non attendere, come una certa cultura fatalista impone, inoperosa il probabile arrivo della malattia. Ho voluto agire, essere protagonista, utilizzare la conoscenza come un vantaggio e liberarmi o ribellarmi. Era questa la mia sola possibilità di riscatto.

La mastectomia preventiva è prevista nelle Linee Guida del Ministero della salute italiano e forse, grazie anche all’outing di una donna celebre, è venuto il momento di parlarne di più e meglio di quanto non sia avvenuto finora, abbandonando pregiudizi e dogmi anche da parte di molti medici.

Ancora una volta l’Italia, che pure prevede questa tipologia di intervento, rispetto ad altri paesi europei e agli USA fatica a vedere in questa opzione una strada da presentare alle donne interessate senza offuscarla con atteggiamenti di resistenza culturale o di rifiuto pregiudiziale in nome della prudenza, dell’attesa, spesso della non reale comprensione di cosa significhi vivere sotto monitoraggio con un rischio di ammalarsi che sfiora la certezza.

Di mettere sul tavolo i numeri del rischio e le armi a disposizione per arginarlo, di entrare nel merito dell’intervento chirurgico e parlare di chirurgia plastico-ricostruttiva contestuale, di tecniche e di innovazioni, dalle protesi ai tessuti autologhi, elementi fondamentali per l’elaborazione di una scelta consapevole e per restituire ad una donna la propria integrità e la propria immagine. Ma significa anche parlare di Breast Unit, di centri specialistici dove recarsi, di informazione a tutti i livelli.

Oggi a 34 anni rifarei tutto quello che ho fatto. Una scelta tanto radicale e irreversibile non può mai essere il frutto di un’emozione. Ho deciso che raccontare poteva essere d’aiuto ad un’altra ragazza come ero io allora. A quella ragazza ho pensato quando ho scritto Il Rischio e quando ho parlato con i colleghi della stampa.

Non ho mai propagandato la mia scelta come una ricetta valida per tutti, ma ho sempre preteso che venisse restituita alla sua validità anche scientifica. Sono la prima a desiderare che la ricerca ci consenta di avvalerci di soluzioni meno invasive,  che la medicina possa offrirci di più che non l’attesa medicalizzata del cancro o l’asportazione di un seno.

Ma per oggi, per questo presente che non ce lo offre, il coraggio di una donna che racconta se stessa, il dolore di perdere una madre, che offre la conoscenza dei suoi geni va riconosciuto come un vero e proprio inno alla speranza. La stessa che ancora prima dei miei 30 anni mi ha fatto scegliere come lei.

di Rosa Ana De Santis

La notizia esce fuori in questi giorni in cui sta venendo allo scoperto che nella Germania dell’est le multinazionali occidentali, tra il 1983 e il 1989, avrebbero sfruttato cittadini ignari o bisognosi per i propri studi e per sperimentare farmaci. L’orrore, che puzza di nazismo, riguarda nomi del calibro  Bayer e Schering, Hoechst (oggi Sanofi), Boehringer Ingelheim e Goedecke (Pfizer), Sandoz (Novartis).

Non è la prima inchiesta giornalistica sul tema, basti pensare ai numerosi casi avvenuti nel silenzio generale nei paesi in via di sviluppo.

A quanto pare, questa l’ultimissima scoperta, il fenomeno è presente anche nel cuore dell’Europa, nella nostra Italia votata al valore sacro della vita, dove le cavie non sono cittadini ignari, come accaduto in passato, ma persone disposte a vendere la propria salute e incolumità per bisogno economico. Sono soprattutto studenti universitari che vanno nelle cliniche Svizzere per 1.200 euro e 6 ricoveri. I numeri parlano di una media di 750 cittadini all’anno, soprattutto del Nord Lombardia.

L’accesso al mercato delle cavie per i farmaci è libero e mentre gli svizzeri rifuggono dalla pratica, sempre più italiani accettano e cercano questa strada per guadagno, anzi per sopravvivenza. I test clinici sui soggetti sani in Svizzera sono regolamentati da tempo e, come è ovvio, non è dato sapere in quali danni per la propria salute incorrano i volontari.

Il reclutamento, questo l’altro dato significativo, è difficile stabilire se sia sempre regolamentato secondo criteri selettivi e rigidi – il che ha conseguenze anche sulla valenza terapeutica del farmaco, con piena informazione delle persone che vi aderiscano e soprattutto quanto in piena libertà di scelta.

Tenuto conto che è quasi impossibile immaginare che delle persone sane decidano di correre un minimo rischio per amore della ricerca scientifica, è sacrosanto dedurre che sia il compenso l’unico principale motivo della decisione. Ed è questa l’immagine piu crudele della nostra crisi economica. Arriveremo, o siamo arrivati, al mercato clandestino degli organi.

Se i numeri crescono è perché l’impoverimento generale aumenta, anche dentro il cortile di casa. In un paese in cui i donatori di organi sono ai minimi previsti, e persino quelli di sangue, questo mercato dell’orrore che baratta la vita per centinaia di euro e poco più ci racconta la disperazione circolante.

Le case farmaceutiche, che protagoniste di scandali sono spesso, arrivano a colpire anche qui dove nessuno si è mai accorto delle vittime di vaccini e farmaci sperimentali lasciati ad ammalarsi o a morire in qualche luogo sperduto del sud del Mondo.

Le cavie adesso partono dall’Italia: persone impoverite che almeno hanno il lusso di scegliere, sapendo tutto o quasi e conoscendo il prezzo all’asta della loro vita.

di Rosa Ana De Santis

Nella data della festa della mamma, domenica 12 maggio, nell’anniversario dell’uccisione della studentessa Giordana Masi, a Roma è andata in scena un’altra commemorazione. Dal Colosseo una marcia di 30 mila persone, con foto e immagini di embrioni e feti, ha manifestato per ricordare il valore sacro della vita e il rispetto dell’embrione. Che tradotto significa rimettere in discussione il diritto all’aborto sancito con la legge 194. Fedeli, parrocchie, religiosi e laici hanno attraversato Roma con un corredo quasi macabro di immagini che il sindaco della Capitale, proprio lui, ha interpretato come le prove di una attuale “strage degli innocenti”. Al calcolatore Alemanno deve esser sfuggito che le donne votano.

Se la questione morale sollevata dai manifestanti è certamente complessa e meritevole di analisi, l’uso pretestuoso e strumentale che senza dubbio ne fa un candidato alle elezioni comunali è tanto evidente quanto più grave. Avallare in fatti attraverso il peso del proprio status un’idea morale piuttosto che un’altra è profondamente insidioso perché compromette quel distinguo inviolabile tra laicità dello Stato e fede che è l’unica possibilità di sopravvivenza di uno Stato Moderno.

In nome del rispetto della vita, papa Francesco ha accolto i manifestanti, ribadendo la necessità di “proteggere” l’embrione. Già l’uso di un termine diverso da quello prettamente giuridico, aspro e conflittuale nel rapporto con la donna, della “tutela giuridica” e del “diritto” rimanda ad un approccio se non diverso nel merito, magari più attento alle problematiche vissute da una donna che deve scegliere se far nascere un figlio o meno. In ogni caso che la Chiesa esprima la tutela della vita dal concepimento e con essa i fedeli non stupisce. Ma che ci fossero numerosi esponenti del Pdl, da Gasparri e Giovanardi, cattolici solo nella censura dei diritti, e un candidato sindaco che dai gatti passa agli embrioni per raccogliere voti, non  stupisce lo stesso, ma risulta epidermicamente poco nobile.

Alemanno spiega la sua partecipazione alla marcia accostando la strage dell’aborto alla battaglia contro la pena di morte e l’eutanasia. Un minestrone concettuale che tradisce l’impreparazione politica, non solo sua ahimè,  a trattare temi diversissimi che sovrapponibili proprio non sono.

Intanto perché l’aborto coinvolge il diritto integrale di un’altra persona, la donna, unica protagonista della scelta in condizione di massima libertà possibile e rea di nulla; in secondo luogo perché l’embrione non può essere assimilato, secondo scienza, ad una persona. Chi crede che lo sia, appunto lo crede, ma non può dimostrarne la fondatezza scientifica e, dunque, manifesta niente altro che l’adesione ad una fede. Figurarsi poi accostarlo alla pena di morte (da qui la scelta simbolica del Colosseo) dove viene pianificato un omicidio di Stato contro una persona rea di colpe misurate secondo una procedura di giudizio.

Ignazio Marino, il candidato PD che si contende nei sondaggi il primato dei voti con il sindaco uscente, si dice per la vita, ma doverosamente lontano da questioni che attengono alle scelte etiche private degli individui e richiama Alemanno a rispondere su che tipo di investimenti siano stati fatti per aiutare le donne a far nascere i propri figli e a non trasformare i consultori in abortifici, comunque fondamentali nel ridurre il dramma dell’interruzione di gravidanza effettuata in clandestinità.

Anche questa giustificazione “sociale” dell’aborto non è propriamente corretta verso una questione che dovrebbe recuperare anzi conquistare una sua dignità nel ragionamento sui diritti di scelta delle donne, ma questo del resto è un po’ lo spirito dell’impianto della stessa legge 194.

Alemanno, a onor del vero, era stato alla marcia “pro life” anche l’anno scorso, ma forse adesso a pochi giorni dal voto capitolino, il peso del consenso fa la sua parte e in tempo di comizi vale più un corteo d’effetto che la misura del proprio lavoro. L’invisibile embrione diventa così una facile bandiera per chi non saprebbe spiegare cosa sia stato fatto davvero per sostenere la maternità e la famiglia. Come se far nascere equivalesse a far vivere. Un tema decisamente troppo grande per le vecchie oche del Campidoglio.


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