di Rosa Ana De Santis

 Mentre le lancette degli orologi sembrano essere tornate indietro di un anno esatto, così come testimoniano i titoli dei giornali o i numeri delle piazze d’affari, in perfetto allineamento i numeri dell’ultimo rapporto ISTAT sull’indice di povertà nel nostro Paese non solo confermano i tristi record del passato, ma non lasciano presagi d’ottimismo sull’anno che verrà.

Nel 2011 quasi il 30% degli italiani era a rischio di povertà e di esclusione sociale. Una quota che risulta in aumento di ben 4 punti rispetto al 2010 e che difficilmente potrà diminuire, dato che si tratta di un censimento strettamente collegato alle possibilità occupazionali e quindi ad ogni opzione possibile di sviluppo: tutto ciò che la politica di rigore e di risanamento senza crescita e sviluppo ha sostanzialmente negato ad intere classi sociali del paese.

L’Italia ricorda la favola dell’asino di Burano e mentre i conti sono risanati e l’Europa applaude, gli italiani diventano sempre più poveri. E’ soprattutto la quota della cosiddetta “severa deprivazione”, quella che oltre al dato economico include una generale forma di esclusione sociale, ad essere in aumento con una media più alta rispetto agli altri paesi Europei. Questo dato, oltre a dirci che nessuna politica di sviluppo è stata messa in campo, ci conferma anche che il welfare ha rappresentato la grande e comoda cassa di risparmio del governo dei professori. Lo sanno i precari, i licenziati, i pensionati, i professori e i pazienti del sistema sanitario nazionale.

Il Mezzogiorno e le famiglie, specialmente quelle monoreddito, hanno pagato il prezzo più alto. Il 19,4% delle persone che vivono al Sud risultano “deprivate”, con una differenza fortissima rispetto al Centro e al Nord del Paese. Un dato allarmante che riguarda soprattutto famiglie con diversi figli, membri aggregati e con fonte di reddito totalmente legato al lavoro. Vanno meglio, sul fronte della deprivazione, quelle che si basano su lavoro autonomo, rispetto a quello dipendente o a chi percepisce pensione.

Anche laddove non ci si misura con questa crescente forma di estrema povertà ed esclusione, in generale aumentano le famiglie che stanno impoverendosi e che non possono permettersi di scaldare la propria casa nei mesi invernali, che non fanno più nemmeno una settimana di ferie all’anno, che non possono permettersi un pasto proteico ogni due giorni o affrontare una spesa imprevista anche solo di meno di 1.000 euro.

E’ cosi che si spiega quel dato, all’apparenza poco credibile, che il Censis ha diffuso nel suo Rapporto 2012 sul Paese, e che dice che sempre più italiani vendono oro e preziosi per vivere, tagliano consumi e sprechi, preferiscono le due ruote e i mezzi pubblici alla macchina o le file domenicali per risparmiare qualcosa.

Gli intervistati del rapporto sono convinti che nessuno dei tagli necessari alla spesa pubblica sia stato operato per una reale lotta agli sprechi, pensiamo alla sanità, alla scuola o alla previdenza, ma per trasformare il volto del paese fin nei principi e nella tradizione politico-sociale che lo fonda.

Sono altrettanto convinti che siano stati lasciati inalterati i numeri dei ricchi che, da un anno all’altro, non hanno sofferto per alcuna patrimoniale seria o per alcuna seria politica anti-evasione. Se gli spot a Cortina sono durati una manciata di giorni, le scuole fatiscenti e le liste d’attesa degli ospedali non hanno conosciuto stagioni diverse.

A chi vuole leggere i numeri dell’Istat con attenzione al contesto e con una visione strategica del futuro viene in mente che ancora una volta l’unica cerniera sociale di salvezza dell’Italia è la famiglia, sempre più percepita, dai suoi membri, come nucleo di solidarietà e di sostegno, unica sussidiarietà del welfare ormai ridotto al lumicino.

Chissà se questo sia il bene di una tradizione atavica che resiste e ci contraddistingue o magari solo la conseguenza “regressiva”, l’unico salvagente a disposizione in mezzo ad una crisi durissima che ci sta già portando indietro: nei consumi e nello stile di vita, ma magari anche nei pensieri e nelle idee.

 

di Rosa Ana De Santis

Si è suicidata Jacintha Saldanha, l’infermiera dell’ospedale King Edward VII, in cui la giovane principessa Kate era stata ricoverata per accertamenti. Caduta nello scherzo telefonico ordito da due giornalisti dell’emittente radiofonica australiana 2 DAYFM aveva messo su un piatto d’argento alla stampa i gossip più teneri sulla pancia della principessa. Mentre l’authority dei media australiana apre un’inchiesta e la regina esprime solidarietà per l’accaduto, desta stupore ed esige riflessione il clima di paura e di pressione che la 46 enne di origini indiane deve aver subito per arrivare al gesto estremo.

Non c’è stata alcuna violazione di legge riferisce la polizia australiana, ma Scotland Yard prosegue le indagini. L’infermiera, credendo di avere dall’altra parte del cavo telefonico i reali d’Inghilterra, aveva dato notizie sullo stato di salute di Kate, sulle nausee e sull’attesa dell’erede. Un’ingenuità che le era costata rimproveri e forse conseguenze pesanti sul luogo di lavoro, dove prestava servizio da quattro anni. Qualcuno smentisce, ma quel che è certo è che Jacintha deve essersi sentita intimorita e in pericolo dopo aver parlato con la finta regina, altrimenti perché togliersi la vita, lasciando la propria famiglia e due figli piccoli?. I due giornalisti sono stati sommersi da mail di biasimo e hanno avuto una sospensione. Nulla di più perché alcun codice deontologico è stato violato.

La vicenda della giovane infermiera suicida, così inaspettata e forte nella sua tragicità, restituisce un’immagine importante, in termini sociologici e simbolici, del fortissimo legame psicologico, oltre che emotivo e sentimentale, che esiste tra la monarchia d’Inghilterra e la gente comune. Un clima di condizionamento, una cappa culturale che è molto di più che esercizio di potere sulla società e che sembra impossibile resista cosi tanto e in modo così inossidabile al tempo storico e alla modernità di un paese come l’Inghilterra. Il matrimonio di William e Kate, lo sfarzo estremo in un momento severo di crisi economica che non aveva suscitato una mezza protesta dagli inglesi,  ne era stata già un’importante e recente conferma.

Si fa fatica a rendere coerente l’immagine di un paese moderno ed emancipato come l’Inghilterra con la cronaca di un suicidio che avviene nello stesso paese perché un’infermiera, non una pazza o una mitomane,  commette una leggerezza (non un errore nell’esercizio delle proprie funzioni professionali!) che forse offende la regina, il re e gli eredi. La storia sembra degna di una tenebrosa corte medievale, di un sovrano, di un vassallo e del perfido maggiordomo. Magari lo stesso che ha spaventato Jacintha e le ha promesso conseguenze penalizzanti sul lavoro. Magari la rabbia di William per quella fughe di notizie, in realtà rivolta più contro i giornalisti che contro l’infermiera.

La tesi pubblica più comoda è pensare che il suicidio di Jacintha sia solo parzialmente legato al casus belli della vicenda di Kate e dell’ ospedale. Una giovane mamma suggestionabile o, come più verosimile, una donna a rischio di perdere il proprio lavoro e sommersa di una vergogna planetaria. Un effetto collaterale imprevedibile che però racconta abbastanza bene di quale appartenenza, pre-moderna,  il popolo d’Inghilterra senta verso i propri reali.

Presto non ci sarà più alcuna memoria di questa storia e alcun accenno di realtà a turbare il quadretto della principessa e dei suoi fiori gialli all’uscita dall’ospedale, appoggiata al braccio di William. Non per omissione di giustizia o per ostacolo di verità giudiziaria, in questo caso, ma per naturale  mortalità di una donna comune al cospetto del re. E così anche nel 2012 “c’era una volta” la favola di Windsor: la prima religione di ogni buon inglese.

 

di Rosa Ana De Santis

La storia di Gilberto, malato terminale, è il primo video spot a favore della campagna pro-eutanasia, promossa dall’Associazione Luca Coscioni che insieme ad Exit ha avanzato una proposta di legge su iniziativa popolare per il rifiuto di trattamenti sanitari e la liceità dell’eutanasia. In attesa che parta la raccolta di firme era stato lanciato l’appello “malati terminali cercasi” e Gilberto, 53 anni e un cancro al fegato avanzato, ha risposto con la sua toccante testimonianza.

Tre minuti online sul sito www.eutanasialegale.it per raccontare un calvario medico, un trapianto e i cicli di chemio che avevano restituito speranza e poi la recidiva senza più scampo. In una frase c’è tutto il significato di questa battaglia culturale “Voglio morire da vivo”, dice Gilberto. Non vuole che la malattia arrivi a privarlo della sua coscienza e di quel po’ di autonomia che gli rimane.

In poche parole tirate fuori a fatica viene scalzato via ogni pregiudizio comune su chi chiede per se stesso e per chiunque lo desiderasse l’eutanasia. Chi ne chiede il riconoscimento giuridico ama la vita, come gli altri e forse di più, é stato quasi sicuramente un malato che ha combattuto strenuamente per guarire. E’ qualcuno che, come Gilberto, non vuole perdere umanità nel pensiero e nelle azioni: “Non voglio che la malattia mi prenda il cervello” dice alle telecamere.

Morire quando si è già morti è una crudeltà che oggi viene inflitta per legge a tutti, anche a chi ha un‘idea diversa dell’esistenza. Perché il tema è proprio questo. Il biasimo per i tanti che come Gilberto chiedono di morire con dignità nasce dall’assunto della indisponibilità del proprio corpo e della vita.

Un’idea che ne nasconde un’altra, magari a tanti cittadini non chiara, a causa di una scarsa attitudine italiana a ragionare sull’esistenza a partite dall‘IO  e non dal Papa. Una lettura del tutto religiosa, che vede la vita umana non come un evento singolo, ma come un fatto di creazione che trova in Dio l’unico legislatore dell’esistenza.

Eppure la nostra legge già su altri fronti, se pur con numerose insidie, è contravvenuta a questa filosofia religiosa in favore del primato delle libertà civili, consentendo, ad esempio, il diritto all’interruzione di gravidanza che la stessa impostazione cristiano-cattolica non può prevedere in alcun caso.

Bisognerà quindi che prima o poi l’impostazione culturale che è dietro al diritto e le istanze che provengono dalla società siano recepite secondo un codice univoco. O sempre cattolici, o sempre laici. E la scelta non può non prevedere la facoltà di scelta per il cittadino che può orientarsi a seconda del suo convincimento.

Bisognerà che ci si renda conto che oggi, grazie alle nuove frontiere della scienza medica, non si muore più come si moriva venti anna fa e che, esattamente come si può concepire un figlio per via artificiale, si può rimanere intrappolati in una morte artificiale. Come quella di Eluana, la bambola addormentata, come quella che attende Gilberto quando sarà obbligato a rimanere a letto, senza autosufficienza né coscienza, addormentato dall’incremento della morfina per i dolori.

Non è forse anche questa, a voler essere rigorosi e coerenti, una piccola eutanasia concessa in extremis a chi sta morendo? I pazienti oncologici muoiono spesso per la morfina. Si è quindi disposti a tollerare quanto già accade nel silenzio dei drammi privati, per evitare sofferenze fisiche e dolore, ma non si è disposti a concedere nulla alla scelta di libertà cui ogni individuo ha diritto.

A chi rifiuta l’eutanasia, temendo reazioni a catena nel tempo di discriminazione e rifiuto per quanti patiscono condizioni estreme di vita - come i malati terminali che vogliono comunque rimanere aggrappati a questa forma di esistenza o ai disabili gravi - dovrà rendersi conto che da parte del potere questa non accettazione esiste già; la si trova nel rifiuto di operare in tante forme di disagio sociale, ogni volta in cui il sistema del welfare abbandona queste persone. Ogni volta in cui azzera risorse o conta al ribasso i malati di SLA, ad esempio.

E’ questa la morte ingiusta che si infligge a chi vuole sopravvivere ad ogni costo. Mentre è quella scelta in autonomia e libertà che viene negata in nome di un atto di fede, storico e dogmatico, che è di pochi e non di tutti e che nulla ha a che vedere con la spiritualità di ognuno. Scegliere di morire è un modo di scegliere come vivere, e chi non riesce a vederlo è pericolosamente abituato a pensare che gli uomini siano tali a prescindere dalla libertà.

 

 

di Rosa Ana De Santis

La giornata dell’Infanzia e dell’adolescenza, celebrata il 20 novembre scorso in ricordo della ratifica della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, diventa lo spunto per riflettere sulla situazione dell’infanzia nel nostro Paese. E’ sempre più vero che non è possibile studiare la condizione di tanti minori che vivono in Italia, isolandone le condizioni da problematiche che hanno a che vedere con i cambiamenti profondi indotti dall’emigrazione. Sono spesso correlate a questo fenomeno le condizioni di degrado ed emarginazione che penalizzano la vita di tanti bambini e bambine.

E’ il Ministro Riccardi ad aver parlato, a questo proposito, a Rai Radio Uno del tema della cittadinanza che proprio sulle nuove generazioni e i diritti dei bambini mostra tutta la sua urgenza. E’ evidente che i figli degli immigrati, che nascono e crescono in Italia, non possono vivere da invisibili come è adesso. E’ questa ambivalenza ad autorizzare, a tutti i livelli, un atteggiamento culturale di non considerazione effettiva di fondamentali diritti se non di vera e propria discriminazione nell’esercizio di funzioni civili e pubbliche di quei bambini, che un giorno diventeranno adulti.

Il dibattito è  tra Ius sanguinis e Ius soli. Il primo, come anche dichiarato da Riccardi, mostra ormai di essere inadeguato ai cambiamenti che attraversano i paesi e peraltro di essere frutto di una cultura sociologica e antropologica che risponde a principi poco fondati sul piano scientifico e insidiosi su quello dei diritti. Essere cittadini per sangue e per appartenenza etnica difficilmente è un criterio riscontrabile nei paesi moderni.

D’altro canto lo ius soli sembra essere un modo un po’ troppo semplificato di assumere la cittadinanza di un paese. Il semplice atto della nascita su un territorio non può significare per automatismo che si diventi cittadini italiani. E questo è vero specialmente in un paese “poroso”come l’Italia, come lo definisce il ministro, dove nascere per diventare cittadini renderebbe tutto ingestibile a meno che non si volesse riprodurre sui confini della penisola la crudele cortina di morti che divide il Messico dagli Stati Uniti. Persino gli USA stanno infatti ridiscutendo questo loro storico principio.

In un recente incontro con i giovani di alcune scuole romane presso la Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, il Presidente Fini ha dichiarato di essere sostenitore del cosiddetto Ius soli temperato, quello anche definito, come Riccardi dichiara,  Ius culturae. Questa tipologia di acquisizione della cittadinanza  richiede che, oltre alla nascita in Italia, serva almeno aver sostenuto un percorso scolastico. In effetti è nella scuola, fin dai primissimi anni, che inizia quell’autentico processo di integrazione e conoscenza che porta tutti i bambini, figli di italiani e figli di stranieri, a maturare un sentimento di appartenenza e partecipazione alla vita del proprio Paese. Essere cittadini significa proprio “essere parte di”.

Se volessimo prendere a prestito un esempio convincente potremmo pensare alla dinamica della genitorialità legata all’adozione e alla procreazione genetica. I figli adottivi sono figli a tutti gli effetti: uguali a quelli naturali per diritti e per sentimenti, in linea verticale con i genitori e orizzontale con i fratelli e sorelle acquisiti.

Pensare diversamente la famiglia e, per estensione, lo Stato, da una comunità di questo tipo equivarrebbe a recuperare un’idea primitiva e condizionante dell’etnicità che oltre a riesumare fantasmi ci impedirebbe di conoscere l’Europa per come è diventata e di riconoscerci pienamente come cittadini che ne fanno parte.

Il processo infatti che ci consente di riconoscere l’altro cittadino nelle sue differenze peculiari e nei suoi eguali diritti è anche quel meccanismo riflessivo che consente ad ognuno di sentirsi parte di un paese e, ancora meglio, di una storia comune.



di Rosa Ana De Santis

Per la prima volta un tribunale italiano ordina ad un ospedale pubblico di eseguire obbligatoriamente una diagnosi pre-impianto. La sentenza è stata emessa dal Tribunale di Cagliari che, rifacendosi alla Corte Europea di Strasburgo verso la quale era stato fatto ricorso da una coppia di genitori, ha stabilito l’obbligatorietà dell’assistenza sanitaria pubblica. Un placet giuridico che rende giustizia alla coppia ricorrente e che d’ora in avanti costituirà, un riferimento giuridico importante. E’ un ennesimo colpo alla legge 40 entrata in vigore dal 2004.

Francesca è malata di talassemia major (la forma più grave) e il marito è portatore sano. Ora l’Ospedale microcitemico di Cagliari avrà l’obbligo di eseguire il test sull’embrione ed evitare l’impianto di quello malato. La vita di questa giovane donna è stata segnata gravemente dalla malattia, in una forma debilitante tra le peggiori, e dalla volontà di costruire con coraggio una vita normale e una famiglia, nonostante la sterilità e la malattia genetica.

Il loro caso rientra a pieno titolo nelle sentenze che hanno fatto scuola dopo l’entrata in vigore della discussa legge. Eppure l’Ospedale li rimanda a casa con una risposta negativa. Inizia allora la battaglia legale per vedersi riconosciuto un sogno, ma soprattutto il diritto alla salute: del futuro bambino (anche se non è questo il motivo della sentenza) e dell’equilibrio psico-fisico della madre.

A differenza di tante coppie che possono permettersi di rivolgersi a strutture private e all’estero (9.000 euro a impianto) Francesca e suo marito non hanno questa possibilità economica ed è questo uno dei principali argomenti su cui è stata fondata la sentenza: il diritto non può ammettere discriminazioni tra pubblico e privato, tra facoltosi e meno abbienti.

La legge 40, a colpi di sentenze, sta diventano sempre di più una scatola vuota. Un’archittettura di facciata che lascia a piedi troppi cittadini e ne compromette in forma decisiva i diritti fondamentali, come la Corte Europea ha più volte denunciato.

Ancora non viene compreso, e questa storia ne è una conferma, come il diritto ad avere un “figlio sano” non abbia niente a che vedere con l’eugenetica e i suoi più crudeli epigoni di nazista memoria. Del resto, se così fosse, dovremmo ripensare anche tutto il percorso di gestazione ormai profondamente medicalizzato. Perché mail le donne si sottopongono ad ecografie morfologiche ed amniocentesi se non per conoscere la salute del feto? Perché mai esiste la fattispecie di aborto terapeutico?

Un’ipocrisia pensarlo solo ancorato alla salute della donna in attesa. Tutti vogliono un figlio sanno e tutti i genitori si prodigano perché durante tutto il corso della vita i figli stiano bene, al riparo da ogni malattia. Perché mai non dovrebbero farlo proprio quando li concepiscono o ancor peggio procurare loro con consapevolezza una malattia, magari grave e mortale?

Francesca, che un giorno sarà mamma, rimprovera allo Stato Italiano e a chi lo guida, di non avere un comportamento laico e soprattutto di non tutelare i cittadini allo stesso modo. I ricchi ad oggi possono sognare un figlio che nasca sano, che non viva di trasfusioni e terapie mediche continue. Le famiglie normali no. Nell’assurdità e contraddizione che un paese democratico e liberare possa tollerare che con i soldi oltre ai sogni, a sfregio di ogni legge,  si comprino anche i diritti.





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