di Rosa Ana De Santis

Il Dossier Caritas/Migrantes documenta, alla fine del 2011, un aumento di 43 mila persone degli stranieri rispetto all’anno precedente. In Italia gli immigrati regolari oggi superano di poco i 5 milioni, con un aumento complessivo importante rispetto agli ultimi anni. Presenti in maggioranza i comunitari, romeni in testa, mentre per gli extraeuropei è la comunità marocchina quella più presente.

Anche tra gli stranieri si fa sentire la perdita di occupazione e aumenta il numero di quanti perdono il lavoro. Per lo più gli immigrati in Italia sono operai e sono impiegati nelle fasce più basse del mercato del lavoro per maggiore flessibilità a anche grazie a forme più o meno tollerate ed evidenti di sfruttamento a loro danno: soprattutto nel lavoro agricolo.

Oltre 1 milione quelli iscritti al sindacato soprattutto tra coloro che sono esposti a maggiori incidenti di tipo infortunistico visto che dalle ispezioni condotte nel 2011 circa il 60% delle aziende italiane non prevedono tutele di alcun tipo e sono irregolari su vari fronti. Gli immigrati che lavorano con le famiglie italiane rappresentano la risorsa più preziosa e anche quella numericamente a maggior impatto. Solo il 9% degli stranieri sono invece impegnati nel mondo imprenditoriale e vengono dal Marocco, dalla Cina, Romania e Albania.

I bambini, figli di stranieri nati in Italia, arrivano a poco oltre l’8% degli alunni italiani e l’incremento demografico della popolazione stranieri, nonostante un rallentamento recente determinato dalla crisi, è destinato ad aumentare e superare quello della popolazione italiana. Gli alunni stranieri di seconda generazione ammontano a 334.284, il 44,2 per cento degli iscritti di cittadinanza non italiana.

E’ evidente che una certa pressione a gestire sul piano del diritto della cittadinanza questa importante quota della popolazione giovane del paese è assolutamente urgente e necessaria per un paese che non può ignorare i cambiamenti fortissimi che l’immigrazione ha generato nel tessuto sociale e culturale del paese.

All’università solo il 3,8% degli studenti è stranieri. Le necessità economiche obbligano anche ragazzi con titoli di studi elevati ad accettare qualsiasi tipo di occupazione per mantenere in vita il sistema delle rimesse. Altro dato significativo è quello dei matrimoni misti. Soffrono la stessa instabilità delle coppie italiane e anche lì sono in aumento divorzi e separazioni.

Il dossier documenta, numeri alla mano, che la popolazione italiana è già cambiata. Che il lavoro degli immigrati è un elemento di forza ormai insostituibile del sistema paese e che gli immigrati, per tenore di vita e per le necessità che li hanno spinti a lasciare il proprio paese, reggono meglio l’impatto della crisi e il ridimensionamento delle spese.

Gli stranieri sono quindi il futuro, demografico e di sviluppo, del paese e nello stesso tempo indicano un preciso modo di vivere con cui le famiglie italiane dovranno tornare a fare presto i conti obtorto collo: il rigore e la sobrietà proprio come era una volta. Nel 2010 erano 214 milioni gli stranieri e i rifugiati. Una vera diaspora quella che parte dall’Africa tartassata su tantissimi fronti.

E’ evidente che il problema dell’immigrazione che ancora certa politica italiana tratta come un fastidio nazionale non può che essere inserito nel contesto globale che lo spiega e che coinvolge ormai tutti i paesi del Nord del mondo. Il tempo delle cacciate e dei rifiuti incondizionati è superato sia dalle politiche fallimentari che da un necessario sistema di pensiero che, al netto di ogni fratellanza a buon mercato, non può non partire dalla foto dell’Italia del 2012.

Da una città come Milano dove una famiglia su cinque è di stranieri. Dal Sud dove attraccano popolazioni in fuga. Dall’aumento delle richieste di asilo. Dalle scuole dove studiano i figli degli stranieri. Dalle nostre case dove le badanti romene vivono con i nostri nonni o fanno le pulizie mentre le mamme sono a lavoro. L’Italia è terra di stranieri e qualcuno più avvezzo a studiare la storia ci ricorderebbe che lo è sempre stata. 

di Rosa Ana De Santis

La scorsa settimana, la lettera di una giovane donna pubblicata sul sito online del Corriere della sera, ha raccontato di un arresto per detenzione di stupefacenti: cannabis preferita a Toradol e Valium. Le medicine che la giovane protagonista di questa storia è costretta a prendere da troppi anni per placare i dolori che le procura la neoplasia scheletrica che la affligge da quando era piccola e che l’ha resa ormai invalida.

Il trattamento subìto dalla giovane donna malata é stato semplicemente disumano: le sono state tolte le stampelle e i lacci alle scarpe ed è stato un miracolo riuscire ad ottenere un water normale invece del bagno alla turca che le era stato imposto, difficilmente utilizzabile da una persona che da sola non può deambulare. Nessuna attenzione alla sua condizione di disabilità: la stessa latrina maleodorante riservata a tutti coloro che sono di passaggio per i più disparati reati.

Non c’è stato lo scalpore che ci saremmo aspettati da una vicenda tanto scandalosa, se non l’estemporaneo tam tam che viaggia sul web. Eppure il trattamento offertole, invece che umano e relazionato con le sue condizioni, é stato caratterizzato da insensibilità, disprezzo per il suo stato e accanimento vero e proprio, al limite del sadismo. Le richieste di aiuto sono state ignorate durante tutta la notte della detenzione e la mattina seguente, durante il processo per direttissima, le denigrazioni sarebbero proseguite fino a rivendicare in aula la correttezza del trattamento impostole. Se non fosse stata colpevole di un reato non le sarebbe toccata la sorte che ha avuto, pensa il pm e gli addetti delle forze dell’ordine presenti. Pensare che il reato contestato non venga contestualizzato nella storia di questa disabile è non solo atroce sul piano umano, ma anche su quello strettamente tecnico-legale.

Non serve chissà quale competenza tecnico-legale per cogliere le differenze tra un malato cronico che usa cannabis per lenire i dolori ed evitare un’intossicazione da farmaci allopatici e lo spacciatore o il consumatore abituale, verso i quali la normativa vigente vorrebbe porre l’azione repressiva. In Italia sono tante e in aumento le persone, tra cui i pazienti oncologici in fase terminale, che ricorrono ai benefici palliativi di questa sostanza (difficilissimo però ottenere i farmaci derivati dalla cannabis, come il nabilone per i malati di sclerosi multipla) e la sentenza di Reggio Calabria del 2002 per un uomo di 46 anni sieropositivo con marjuana e hashish ha in certa e ridotta misura fatto scuola nel merito. Moltissimi sono infatti i paesi che si sono adeguati a questa necessità terapeutica con appositi dispensari ospedalieri di cannabis per situazioni sotto stretto controllo medico.

La denuncia di questa ragazza non è in ogni caso legata al reato contestatole, ma alle condizioni degradanti della sua detenzione che sono ingiuste in ogni caso, anche per i consumatori, e ancor più insopportabili per una persona afflitta da un handicap tanto grave. Basta questa notte, insieme ai tanti tragici epiloghi di molti detenuti, a capire bene in quale stato versino le carceri italiane. Non per tutti ovviamente. Come se il degrado umano fosse la prova di un regime di detenzione duro ed efficiente. Forse l’unica arma mediatica in mano ad un paese in cui l’impunità regna sovrana. Dove le condanne per reati minori non vengono trasformate in pene alternativa e rieducative.

Come se la facile prigionia per uno spinello in più ci facesse sembrare un paese con il polso di ferro verso i colpevoli. Due detenuti su 3 sono malati nelle carceri dell’Emilia Romagna e sul resto del territorio le cose non vanno meglio. Sovraffollamento, water a vista, in 13 in una cella, malati compresi. Tra questi molti quelli in attesa di giudizio o messi dentro per reati minori con percentuali terribilmente in alto rispetto ai numeri dei paesi europei.

Carceri da paesi in via di sviluppo e imperdonabile silenzio sull’urgenza di una riforma della Giustizia: invocata da tutti, ma mai messa in opera. E’ in questo limbo che la lentezza di un sistema poco efficiente garantisce all’Italia un buon primato sull’impunità. L’81% dei delitti denunciati rimane senza colpevole, il 96% dei furti altrettanto per non parlare della giustizia civile, o della corruzione o dei grandi reati di mafia e terrorismo.

Bisognerebbe ripartire da qui e non rivendicare con orgoglio che una cella sia una latrina, che una prigioniera per giunta disabile sia umiliata per la sua disabilità. Mancano solo i ceppi di ferro alle caviglie dei prigionieri (tutti, quale che sia l’accusa) a renderci un paese pre illuministico. Dovrebbe insegnarci qualcosa la vicenda giudiziaria norvegese sul killer di Utoya o un po’ di scuola su qualche pagina sul valore rieducativo della pena.

Non è una disabile lasciata senza stampelle o la colonna vertebrale rotta di Stefano Cucchi, per venire ad un’altra triste pagina della cronaca giudiziaria, a renderci un paese dall’ efficiente sistema giudiziario. Lo stesso paese che elogia e premia sui giornali l’atleta malato Oscar Pistorius, affetto dalla stessa patologia di questa detenuta, e che in un carcere ne umilia un’altra e arriva ad approfittare della sua vulnerabilità fisica solo perché accusata e condannata per un reato.

Quando la giustizia si avvale di categorie primitive come questa allora essa è estinta, è caricaturale, è invertita. E non merita di essere annoverata nel sistema di civiltà che ha fatto grande la storia del diritto moderno europeo.

di Riccardo Menghini

Quando un prefetto della Repubblica, in terra di camorra, toglie la parola e umilia pubblicamente un parroco che dedica la propria vita a difendere il proprio territorio dalla criminalità organizzata, allora vuol dire che forse davvero non c'è più speranza. C'è qualcosa di aberrante e spaventoso nel video in cui Don Maurizio Patriciello viene zittito dal prefetto Andrea De Martino per aver chiamato "signora" il prefetto Carmela Pagano: "La mia collega lei deve chiamata prefetto, non signora perché così offende anche me" e ancora "se io la chiamassi signore, lei come reagirebbe? Lei si rivolgerebbe a un sindaco dandogli del signore?", ha tuonato De Martino.

L'increscioso episodio è avvenuto - nel silenzio delle autorità presenti, prefetti, sindaci, rappresentanti degli enti locali - durante una riunione sui rifiuti tossici presenti nel territorio a nord di Napoli, problema su cui da anni Don Patriciello si batte per sensibilizzare l'opinione pubblica e le autorità. "Il prefetto ha cercato di non farmi parlare davanti a settanta persone ma - questo il prete lo afferma senza polemica - io lo devo ringraziare perché questa storia ora la sanno dieci milioni di persone". Sarà pur vero, ma resta l'amarezza per l'ingiustificata aggressione verbale compiuta dal prefetto.

Alcune volte la forma è sostanza, altre no. Stride dunque  il contrasto tra l'atteggiamento "formale" ma allo stesso tempo carico di disprezzo e di aria da "lei non sa chi sono io" del prefetto e la compostezza mostrata dal parroco umiliato che si è visto zittire alla prima parola pronunciata. Chi era in quel momento il reale rappresentante delle istituzioni? Chi era il portatore degli interessi della collettività? Chi ha visto il video, non può che provare rabbia.

"Quello che accade qui non interessa a nessuno" afferma sconsolato il prete-ecologista riferendosi a Succivo, nel casertano, dove da anni sono presenti amianto sbriciolato e lastre di eternit e dove le donne malate di cancro sono aumentate del 47%.

Nelle zone a nord di Napoli, lo sversamento illegale di rifiuti pericolosi e altamente tossici è diventata ormai la prassi; un'abitudine tale da non suscitare più non solo scandalo ma neppure alcun tipo di interesse. Lo stesso comportamento del prefetto lascia intendere questo modo di vedere le cose e sembra voler dire: si sa che è così, non ci disturbi e anzi, porti rispetto!

Dopo aver in un primo momento rivendicato la propria sfuriata e dopo aver ignorato una toccante lettera inviatagli dal parroco il giorno successivo alla sceneggiata,  il prefetto De Martino fa sapere di voler incontrare il parroco. Forse l'ampia risonanza ottenuta dal video pubblicato on-line, che ha superato le centomila visualizzazioni, lo ha convinto (o costretto?) ad una sostanziale retromarcia: ”Si è registrata una situazione che mi ha visto protagonista di un eccesso, forse per stanchezza, perché non riconosco quei toni nella mia indole”.

Ciò nonostante, nel video c'è un'immagine che resta impressa nella mente: è il fermo-immagine pubblicato dai quotidiani che mostra Don Maurizio attonito, curvo e indifeso, e che sembra essere il simbolo dell'impotenza di chi non riesce a far sentire la propria voce ma, allo stesso tempo, lotta senza piegarsi contro qualcosa più grande di sé, come l'indifferenza dello Stato o la violenza delle mafie. Stato e mafia. Termini che purtroppo sempre più spesso sentiamo accostare l'uno all'altro.

 

di Rosa Ana De Santis

Mentre il governo applaude alla legge di stabilità che mette in ginocchio l’Italia e la condanna ad una fase di depressione economica di cui finalmente pare accorgersi anche il Pd, esce il Rapporto sulla povertà della Caritas. Sono in aumento i poveri italiani: casalinghe e pensionati le due principali categorie di utenze. Gli stranieri rappresentano comunque il 70,7% di coloro che si rivolgono ai vari servizi di assistenza.

I numeri del rapporto nascono dal monitoraggio di ben 191 centri d’ascolto diffusi sul territorio nazionale e 28 diocesi. Più assistiti nel Nord, ma solo perché nel Mezzogiorno sono meno presenti i centri d’aiuto e i servizi e proprio al sud gli immigrati sono superati dai poveri italiani.

La Caritas parla di “normalizzazione dell’utenza”: genitori separati con figli conviventi, donne casalinghe, anziani. Diminuiscono gli emarginati e gli analfabeti. La povertà, ormai da tempo, non è quella di chi rimaneva ai margini della società e delle classi produttive.

E’ finita dentro il tessuto economico attivo del paese: persone che hanno perduto lavoro e ne stanno cercando un altro (i cosiddetti candidati alla “ripartenza”), coloro che per vicissitudini familiari hanno perduto ricchezza e stabilità sociale e per i quali il welfare di un tempo ormai non esiste più. Colpa della crisi globale, ma soprattutto di precise scelte politiche che sono andate, con la benedizione di troppi amici del governo, nella direzione di salvaguardare spread, moneta e speculazioni finanziarie, a prezzo di ridurre all’osso servizi, crescita ed economia reale.

I poveri sono cittadini normali: persone che vanno a lavoro ogni mattina per due spiccioli e zero diritti, che hanno un titolo di studio medio-alto, che vivono magari in case di proprietà, ma che non tengono più il passo con i costi della vita reale. In questo si è trasformata la bandiera dell’equità con cui Monti salì a Palazzo Chigi. Imponendo, come la cronaca degli ultimi giorni testimonia, a tutti una tassa non progressiva come l’IVA che colpisce proprio il potere d’acquisto, specialmente dei meno abbienti.

Le richieste d’aiuto non sono solo legate a cibo (ben 449 mense socio-assistenziali), vestiario e altri beni materiali, ma anche ad altri servizi - spesso legati a patologie sanitarie e a problemi di dipendenze - alla ricerca di lavoro, e all’ascolto reiterato nel tempo per problemi personali e famigliari.

La parrocchia continua a mantenere un ruolo attivo importante nel sostegno delle persone che patiscono un disagio socio-economico confermando il ruolo e la vocazione tradizionale della Chiesa sul territorio che mai, come in questa fase, supplisce alla carenza di servizi garantiti dallo Stato.

Nonostante il generale peggioramento e livellamento alle classi sociali più impoverite dalla crisi, ci sono dei numeri di speranza e sono quelli dei “ripartenti”: coloro che in ogni modo chiedono aiuto per non finire nella marginalità sociale. A questo proposito il lavoro della Caritas nell’orientamento e inserimento professionale è aumentato del 122%.

Speranza fatta di benedetta solidarietà ma non di giustizia. Quella che in un paese democratico dovrebbe venire prima della pur lodevole bontà. La giustizia che non va d’accordo con le politiche fiscali inique, con quell’evasione perpetrata dai più ricchi e più corrotti, che toglie servizi pubblici per rimpinguare poche tasche private. La giustizia che non siede ai tavoli di governo, perché costa agli affari e agli stessi serve troppo poco. Questo dicono le lunghe file delle sempre più numerose persone normali insieme ai clochard davanti alle mense.

Quello che abbiamo visto nelle pellicole del cinema americano è sbarcato anche qui. La povertà è pericolosamente normale e vicina alla vita di chiunque. Magia di un mercato spoglio di tutele e diritti e di uno Stato sempre più somigliante a un consiglio d’amministrazione. Con il vantaggio tutto nostrano di una buona dose di mafia e di corruzione infiltrata a tutti i livelli che impedisce quella mobilità sociale che almeno altrove è garantita. Con il rischio che tutti quei poveri “in ascolto” alla Caritas, rimangano lì senza mai l’occasione reale di una speranza che magari fosse, come è scritto nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, il diritto per tutti alla felicità.

di Vincenzo Maddaloni

Poco se ne legge. Probabilmente rientra in una qualche strategia. Molto in Italia vi contribuisce pure il chiasso intorno alla rinuncia di Veltroni a ricandidarsi, ai dubbi di d’Alema, a quel torbido agitarsi degli amministratori della politica, su quella sorta di terra di nessuno retorica piena di discorsi ufficiali incomprensibili, che non hanno nulla a che vedere con quella che chiamiamo la vita reale. Infatti, la gente li segue sbadigliando e non s’accorge di essere privata del suo potere politico, mentre si riducono gli spazi di democrazia.

Probabilmente è questa una novità storica legata a un’ennesima “deviazione” del capitalismo. Almeno questa è l’opinione del filosofo sloveno Slavoj Žižek, secondo il quale  esiste una volontà diffusa tra i poteri che mira a scardinare il concetto di democrazia, azzerandone il valore etico. L’obiettivo è di adoperarsi in modo che la gente accetti il principio secondo il quale i meccanismi democratici non sono indispensabili al progresso della società, peggio ancora che essi esprimono un rituale completamente vuoto. Beninteso questo non è ancora accaduto in Italia, ma diciamo che con il governo Monti la tendenza si è accentuata.

Infatti, Žižek  in un articolo - Capitalism, How the left lost the argument - apparso sull’ultimo numero della rivista Foreign Policy analizza il progressivo allontanamento del capitalismo dalla democrazia citando ancora una volta il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, il quale gli confessò che, «dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue fra un secolo, aveva indicato Lee Kwan Yew, per oltre trent’anni Primo ministro di Singapore. Poiché è stato lui [come gli ricordava l’amico Sloterdijk] a inventare il modello che si è rivelato di grande successo e che poeticamente potremmo chiamare capitalismo asiatico: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro, poiché può fare a meno della democrazia, anzi funziona meglio senza democrazia».

Sicché per Žižek  siamo di fronte «a un fenomeno nuovo che segna l’inizio di un’epoca nuova». Quel che oggi sconcerta non è la critica alla democrazia in sé, ma la mancanza di un’analisi chiara e obiettiva per comprendere perché, «la democrazia si stia autodistruggendo, e perché in un simile scenario la sinistra si stia rivelando pericolosamente miope, incapace di argomentare».

Naturalmente Slavoj Žižek non si sofferma sull’Italia. Egli spazia sulla realtà globale la quale è accomunata dall’identica minaccia poiché i grandi conflitti, come la crisi finanziaria ad esempio, «sembrano richiedere un “governo di esperti” molto decisionista, che si esprima su quel che occorre fare e lo metta rapidamente in atto senza tanti salamelecchi». Come quello di Monti, infatti.

Beninteso non è l’inizio di una dittatura, ma di una democrazia sui generis che si impone attraverso un’unione paradossale di populismo e di tecnocrazia che lascia campo libero all’ambizione di politici, degli imprenditori, dei teorici, dei portaborse, di uomini senza scrupoli che traggono vantaggio dalla paura e dalla demoralizzazione della gente, e soprattutto dalla mancanza di un’opposizione. Così giorno dopo giorno la democrazia perde di fascino, sebbene la si continui a sostenere con le parole e con gli scritti ben sapendo che funziona sempre meno nei fatti.

In Italia la sinistra sembra non accorgersene. Ogni fazione s’aggrappa al suo dogma e ne ha cura come fosse l’unica pianticella che conti. La pianticella che conta dovrebbe essere invece la realtà, con le domande che essa suscita man mano che l’azione le plasma, le trasforma. Invece come ha scritto Alberto Asor Rosa sul Manifesto «c'è in giro, a sinistra, una voglia di frammentazione crescente, una sorta di voglia (del resto assai ben nota) di sopravanzare tutti gli altri in purezza, correttezza, squisitezza di programmi e di idee. È la libidine della sconfitta, che tanta prova di sé ha dato in passato nell'impedire il raggiungimento di risultati già quasi certi e nella dilapidazione di risultati già raggiunti». Se così è allora perché scandalizzarsi se in questo stordimento multimediale che traduce tutto in tragedia del mero presente non si offre un minimo approfondimento che non sia strumentalizzato.

Infatti è sufficiente aprire un canale qualsiasi della televisione, anche quelle locali, per capire che la “libertà d’informazione e di critica” e “l’obbligo inderogabile del rispetto della verità sostanziale dei fatti” vengano violati di continuo. Le notizie proliferano, ma le garanzie di affidabilità sono quasi inesistenti, è sempre più difficile essere informati, è sempre più difficile capire ciò che sta accadendo - come lo è infatti l’aumento delle disuguaglianze - perché le notizie chiarificatrici quasi sempre vengono nascoste dietro un gigantesco gioco di contraddizioni.

Tuttavia, continuiamo ad assistere al trionfo del giornalismo speculativo e spettacolare, a scapito di un giornalismo di informazione che non viene incoraggiato e che dequalifica la figura stessa del giornalista fino ad annullarla. Sicuramente siamo molto provinciali. La politica estera attira soltanto in casi di guerra aperta e totale oppure se è collegata con polemiche di politica interna. Chi è con Israele e chi contro. Chi è con Obama o con Merkel.

Il Papa, che dovrebbe far notizia soltanto quando viene eletto dal Conclave o quando muore, nelle tv italiane appare in continuazione, credo per un ossequio radicato. Sicché non fa meraviglia se a colloquiare col presidente della Repubblica italiana, la massima autorità dello Stato vaticano deleghi - è accaduto ad Assisi qualche settimana fa - il cardinale che da trent’anni è ospite fisso della tv di Berlusconi, a conforto di un’abitudine che privilegia l’entertainment in ogni forma di confronto, quello sul sacro incluso.

Dopo tutto l’entertainment è diventato una prassi coltivata, accreditata da mille e uno talk show, tavole rotonde, opinioni a confronto, primi piani, nei quali bisognerebbe privilegiare i fatti senza alimentare il clima di contesa e di scontro per aumentare gli ascolti». E’ in questo vuoto che si fa largo il capitalismo-autoritario descritto da Žižek o quello che il filosofo tedesco Sloterdijk ha chiamato dai valori asiatici. Esso si rafforza in un certo tipo di società, quella animata dalla volontà di potenza, attratta dalla voglia di godimento sebbene esse alimentino le disuguaglianze e quindi producano nuova disumanità.

Tuttavia, il diritto al godimento consumistico, diciamo così, è la promessa elettorale degli ultimi vent’anni in Occidente. La politica è assolutamente supina nei confronti di questo modello.

E’ questo trionfo del bourgeois sul citoyen che mette in difficoltà la sinistra, la quale cerca di cavarsela sostenendo che tutte le forme di vita vanno bene, però non c’è Storia in quelle esternazioni, c’è soltanto confusione. Insomma, come raccomandava Antonio Gramsci, «al pessimismo dell'intelligenza», bisognerebbe «contrapporre l'ottimismo della volontà».

Siccome in Italia ciò non accade,  fa subito “notizia” l’editoriale dell’Economist http://www.economist.com/node/21564556 che propone la sua ricetta per un nuovo “radicalismo centrista”, un modo per diminuire le diseguaglianze senza danneggiare la crescita economica.

Il settimanale lo ha chiamato «il  vero progressismo», rammentando alla sinistra che  alzare le tasse ai ricchi da solo non basta per tutelare lo stato sociale. Poiché c’è bisogno - esso scrive - di una qualche idea originale che  proponga equità, ma anche progresso, altrimenti pagheranno tutti, sostiene il settimanale conservatore per eccellenza. E in Italia che si dice?

Sull’edizione italiana del giornale online Huffington Post, Lucia Annunziata inneggia alla sensibilità che solo i migliori politici come Veltroni sanno avere. Ragion per cui ella si augura che il benemerito personaggio non scompaia «dal nostro orizzonte, ma solo da quei tristissimi scranni parlamentari». Non so quanto questo desiderio sia condiviso, ma il solo fatto che se ne stimoli il dibattito dà la misura di quello scollamento tra un certo modo di fare informazione e la società reale, che fa tornare in mente la tesi di Karl Polanyi secondo il quale nei sistemi di mercato il fascismo resta un’alternativa sempre possibile (La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1974, p. 299). Se la democrazia continua a funzionare male, come da noi.

www.vincenzomaddaloni.it

 

 


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