di Rosa Ana De Santis

In Europa il cancro rappresenta ormai un’epidemia vera e propria, ed anche un allarme in termini di costi economici. I numeri diffusi in occasione del congresso della Società Europea di Oncologia Medica svoltosi a Vienna, non lasciano scampo. Centoventiquattro miliardi all’anno i costi della malattia oncologica, che è la seconda per mortalità. L’invecchiamento progressivo della popolazione porterà i tumori maligni ad essere i primi killer, in testa rispetto al record oggi detenuto dalle patologie cardiovascolari.

Numerosi i costi di terapie e farmaci non rimborsati dall’assistenza diretta, il calo di produttività nei posti di lavoro, la mortalità prematura, l’assistenza domiciliare. E’ tutto questo che porta il conto pro capite del cancro a salire sui 240 euro. E’ il cancro al seno il più costoso, mentre quello al polmone rappresenta il danno economico più grande a causa della mortalità prematura.

Il primo passo fondamentale è quello di stabilire un confronto sistematico tra i vari paesi dell’ Unione Europea per una gestione più omogenea e unitaria dei dati epidemiologici e dei protocolli. Non possono esserci disparità troppo grandi, né sul fronte delle cure né su quello della spesa, dovuto quasi sempre però, come dimenticarsene, alla differenza di status socio-economico dei paesi coinvolti. Inutile stigmatizzare le differenze siderali tra una Germania e una Lituania.

Sul fronte invece della forte diffusione del cancro, sempre più spesso anche tra i giovani, il monito unanime dei 15 mila esperti riuniti a congresso è di portare fondi alla ricerca medica. Un invito che si teme sarà disatteso data la crisi incombente, specialmente sul Sud Europa, e la ricetta dei tagli alla spesa pubblica che vedrà penalizzati i programmi di screening previsti dai sistemi sanitari nazionali. Proprio quelli che dovrebbero essere potenziati, estesi e implementati. Basta guardare all’Italia e al Sud e al fatto che non tutte le regioni sono coperte dallo screening mammografico e da quello del vaccino HpV contro le infezioni precancerose del collo dell’utero.

Un tema di salute pubblica così importante e con un impatto generale - anche numerico - così severo obbligherebbe la politica nazionale di ogni paese europeo a investire maggiori risorse, indirizzando la spending review su altre voci di bilancio.

Se è vero che molta incidenza con una precocità del cancro è dovuta ad abitudini di vita sbagliate e alla quasi scomparsa della prevenzione primaria (alimentazione, sport) per stili di vita inadeguati, è vero anche che non si può trovare in questo aspetto, pure cosi importante, l’unica motivazione e il comodo alibi per non parlare delle questioni politiche ed economiche che sono determinanti, mai come ora visto il tempo di crisi, per la salute pubblica e per gli screening proposti alla popolazione generale.

Basti pensare alla possibilità, carente e non democraticamente diffusa, di accedere alla prevenzione secondaria (ovvero ai controlli diagnostici periodici) in tempi rapidi e a costi sostenibili, ai - purtroppo spesso - diversi livelli di qualità e specializzazione dei trattamenti terapeutici per le malattie oncologiche da paese a paese, da regione a regione e, infine, soprattutto alla situazione in cui versa la ricerca, specie in alcuni paesi dell’Unione Europea, Italia in testa.

Pochi e spesso inconsistenti gli sforzi che vanno nella direzione di finanziare il lavoro dei ricercatori. In questa indolenza continua indisturbato il flagello dei tumori: meno mortalità, ma crescente morbilità. I numeri del 2012 dicono che nell’anno in corso, in Europa,  stimeremo 1,3 milioni di morti per tumore mentre ai nuovi malati si toglie a piccole dosi la speranza di cura,  riducendo all’elemosina il sostegno pubblico alla scienza. Per lasciarlo a qualche privato farmaceutico interessato con il doppio svantaggio di aver depauperato il pubblico di un’occasione di crescita e di eccellenza, e un po’ tutti di una legittima speranza.

 

di Rosa Ana De Santis

Ha poco più di diciotto anni l’abilissimo hacker dell’Istituto “Marzotto” di Valdagno (Vicenza) che è riuscito ad entrare nel sistema scolastico e a cambiare le pagelle grazie ad un programmino da lui ideato. Un geniaccio con un bel 10 (taroccato) in informatica, che forse ha poca voglia di studiare altre materie. I suoi stessi docenti raccontano di una genialità evidente, pare che il suo stesso professore d’informatica abbia dichiarato che il ragazzo ne sa quanto e più di lui. Non fosse ancora uno studente sembrerebbe una storia ben confezionata da un ufficio stampa.

Invece la storia è vera e l’epilogo un po’ beffardo della vicenda è che il giovanotto affronterà la giustizia, ma ha già trovato lavoro. La disponibilità a farsi carico delle spese legali e la successiva assunzione sono gli aspetti che compongono la proposta che gli è arrivata, ben confezionata, dalla Ceremit di Thiene, azienda di ingegneria che vende informatica e non legalità.

La storia, così divertente e a lieto fine, non è una novità. Moltissimi sono gli ex hacker che oggi siedono in tanti colossi del software: recentissimo il caso di Chiarlie Miller con Twitter e prima ancora la Microsoft con un quattordicenne irlandese che era riuscito a mostrare le falle di sicurezza della piattaforma xbox life.

E sono numerosi i casi di hacker che vìolano siti e banche dati online anche di strutture che fanno della sicurezza dei dati in loro possesso il loro core business. Frequentemente succede che coloro i quali s’introducono nei sistemi dimostrino infatti capacità almeno maggiori di quegli ingegneri informatici che quegli stessi sistemi avevano implementato. Da qui partono i due step successivi: il primo è stupirsi di come ha fatto, il secondo assumerlo perché non continui a farlo. Da ladri di casseforti ci si trasforma così in dipendenti trattati con i guanti bianchi.

Una strategia vincente, non c’è dubbio, per quelle aziende che sanno guardare lontano la cui vittoria si misura esclusivamente sul business. Quindi quale mossa migliore se non trasformare i nemici in amici? Un po’ diverso il caso vicentino in cui l’aggressione è ai danni della scuola e del merito riconosciuto e guadagnato sul campo davanti ai docenti e agli altri studenti.

Il giovane hacker sarà sicuramente abilissimo e intelligente, ma questo di per sé non vuol dire meritevole, altrimenti perché aumentarsi vertiginosamente i voti sulla scheda di valutazione? Evidentemente il merito certificato dalla scuola non era dei migliori.

La storia fortunata di questo studente è il racconto di come la furbizia paghi con mille complimenti e tanta ammirazione, s’intende. Sempre e soprattutto adesso. Adesso che il lavoro rimane un miraggio per tantissimi giovani e specialmente per i più meritevoli, gli studiosi, i volenterosi. Quelli che non hanno tempo di giocare al pc perché hanno mattoni da studiare. Quelli che la crisi non perdona e non assume. Quelli che la preparazione e l’istruzione danneggia perché la crisi ci vuole rapidi, scaltri e furbi. Con poco più di tre I nella testa.

di Rosa Ana De Santis

Il dossier presentato da Save the Children al ministro Elsa Fornero e alla vice-presidente del Senato, Emma Bonino restituisce un‘immagine negativa e arretrata della condizione femminile nel nostro Paese. Numeri che lasciano ancor più amarezza alla vigilia di un mese, come quello di ottobre, che sarà interamente dedicato alle donne e alla cultura di genere su tutti i fronti: dalla salute al lavoro.

Il bivio, che a parole sembrava superato, rimane sempre lo stesso: essere madri e assecondare la propria potenzialità biologica o avere un ruolo e una funzione sociale. Se ci sono due figli, due donne su tre non hanno lavoro per interruzioni forzate nella maggior parte dei casi. La carenza di servizi di welfare a sostegno delle famiglie e le discriminazioni ancora presenti nel mondo del lavoro obbligano moltissime donne giovani (tra i 25 e i 34 anni) ad essere inattive.

Le donne quindi pagano due volte la crisi economica, costrette spesso per necessità al part-time o alla rinuncia totale di un’occupazione. E insieme a loro pagano i figli e il tenore di vita di numerosissime famiglie. Questo è l’effetto collaterale che una certa politica maschile e una sociologia fintamente neutra cerca di nascondere sotto il tappeto. Non fa differenza il livello di formazione e di istruzione, che anzi paradossalmente costituisce una penalizzazione ulteriore rispetto agli uomini e ai loro livelli di occupazione e remunerazione.

Il record, purtroppo, è tutto italiano, dato che nel contesto europeo il nostro Paese investe meno di tutti nei servizi per le famiglie e per l’infanzia e non sarà certo la sola investitura formale di un Garante dell’Infanzia, senza voci di bilancio adeguate, ad intervenire seriamente sul problema e a farlo diventare qualcosa di più di una mera vetrina mediatica.

Alle mancanze dei servizi e alle lacune del sistema welfare si unisce poi un gap culturale che la società italiana non è riuscita ancora a metabolizzare. Gli uomini continuano ad impegnarsi molto meno nel lavoro familiare e domestico, lasciando alle mamme il carico maggiore e sottraendogli di fatto opportunità concrete di lavoro e di guadagno.

Un doppio assedio quindi quello che grava sulla condizione delle donne italiane: da una parte l’alibi della crisi che le vede comunque maggiormente penalizzate degli uomini e dall’altra una parziale assimilazione del principio dell’eguaglianza che le vede confinate alla sfera familiare come un ripiego e come un’esclusione definitiva o quasi dalla dimensione pubblica in ogni suo aspetto.

Non c’è dubbio quindi che la carenza di un welfare degno rappresenti un ulteriore elemento di squilibrio tra generi: le donne sono le principali vittime di una organizzazione sociale arretrata e di un mercato del lavoro ormai in preda alla deriva mercatista. Sono i due elementi della condanna maggiore che costringe le donne che sono mamme a doversi occupare integralmente del lavoro di cura non disponendo di alcun aiuto.

La famiglia tradizionale, sbandierata da destra a sinistra come pilastro della società e come esclusivo, legittimo luogo della rappresentanza corretta degli affetti, viene clamorosamente ignorata proprio dalle politiche del lavoro e da quelle sul welfare. A questo si aggiunge poi che la scarsa cultura dell’eguaglianza che caratterizza l’Italia rende tutto più sopportabile e comprensibile. Ovviamente per i padri, i mariti e per i datori di lavoro.


di Fabrizio Casari

Un figlio su tre, afferma una ricerca del Censis, vive con sua madre. Si parla di alcuni milioni di italiani, quindi. Non hanno un lavoro e, quando ce l’hanno, è precario e mal pagato. Non trovano casa perché, quando c’è, il costo del canone affianca o supera quello del salario. Se si tratta di diritti civili s’invoca la famiglia, ma quando la famiglia la si prova a costruire appare il cartello con scritto: iscrizioni chiuse.

Un figlio su tre, infatti, non può neanche sposarsi o convivere, perché quando il precariato assoluto e il carovita s’incontrano, una coppia scoppia: a basso reddito e alti costi, l’unione fa la debolezza. Risultato? Il 60% dei giovani dai 18 ai 29 anni abita con la madre e idem il 45% tra i 30 e i 45 anni. Tutti bamboccioni? Vittime di loro stessi o dell’insindacabile ed osannata autoregolamentazione del mercato?

Un figlio su tre non ha nemmeno dove andare, mica tutti possono fare i cervelli in fuga: i condannati al nulla sono milioni e i cervelli sono alcune migliaia; le fughe sono costose, dunque per pochi. Un figlio su tre, o anche due su tre, vedono da anni la rottura definitiva delle corde dell’ascensore sociale: non staranno meglio dei loro padri, bensì peggio.

Hanno studiato di più e lottato di meno, subiscono il rincoglionimento mediatico e diffidano del plurale, convinti dai furbetti del capitalismo straccione che “tanti” non è mai un plurale di diritti e doveri, ma una somma di occasioni al singolare. Sarà per questo che il 45% tra i 30 e i 45 anni vive con la madre? Non hanno colto le occasioni o le occasioni non si fanno cogliere perché destinate in esclusiva ad alcuni, ai figli più figli degli altri?

Il mercato rigetta le eccedenze e gli ecceduti, dal canto loro, di mercato conoscono a malapena quello della frutta e verdura vicino casa. Così, a immaginare quello che è stato quando c’era lo Stato, due figli su tre possono solo ricordare i racconti paterni del tinello, dove si parlava di come, anche quel tinello, era stato costruito. Risparmio e lavoro, sacrifici e lavoro, rinunce e lavoro, e poi ancora lavoro, risparmio e altro lavoro.

L’aspirazione di ogni genitore a vedere i propri figli salire sull’ascensore sociale, la voglia di riscatto, il desiderio di evitare a loro almeno una parte dei sacrifici sostenuti, erano le molle che hanno spinto uomini e donne di diverse generazioni a convincere i propri figli ad avere un’istruzione migliore, perché - si diceva - alla fine sarai quel che saprai. E adesso si scopre invece che in un mercato del lavoro flessibile fino a divenire un elastico con il quale giocare al ribasso dei salari e al rialzo della fatica, quel sapere non serve più.

Ma i padri e le madri non potevano saperlo, e volevano credere che davvero il sapere avrebbe fatto rima con l’essere e poi con l’avere. Non potevano immaginare che il lavoro sarebbe stato ridotto a merce in deterioro da acquistare solo a basso costo e che, del sapere, se ne sarebbe fatto volentieri a meno.

Il sapere intralcia, ti invita a tenere il cappello in testa quando passa il padrone, pone ambizioni e obiettivi, costruisce sogni e speranze; per questo va abbattuto, o almeno depotenziato, perché la logica del mercato non prevede che tu possa entrarvi, ma solo che lui entri dentro di te.

L’affermarsi definitivo dell’idolatria del mercato e la concomitante fine dello Stato hanno segnato la progressiva scomparsa di ogni paradigma di civiltà e di compatibilità sociale che formava il tessuto connettivo di ogni comunità.

Il welfare, strumento pubblico pagato con le risorse pubbliche, aiuto per tutti grazie al contributo di alcuni, è ormai un ricordo. E’ la famiglia il nuovo ente di assistenza e sostegno per chi rimane indietro.

Ad essa si affianca l’immigrazione, cioè la fascia più povera e ricattabile della società che, arruolata di volta in volta a seconda delle necessità, svolge il ruolo di supplenza del welfare in forma di assistenza, cioè di tutto quello di cui avremmo diritto perché pagato e perché esseri umani, ma che ci viene sottratto perché costoso e non redditizio.

Mai che il paradigma dell’autoregolamentazione del mercato fosse messo in discussione, mai che almeno a sinistra insorgesse il virus del voler riprendere a pensare, parlare, proporre, battagliare. Due generazioni di leaderini o presunti tali sono invecchiati, ingrassati ma mai cessati dalle loro funzioni. Nel paese di Pulcinella, due portaborse su tre sono diventati leader. Un figlio su tre, invece, è costretto ad invecchiare senza essere diventato adulto.

 

di Mario Braconi

Un piccolo caso divertente mette alla berlina l’ipocrita pruderie della corporate America. Il 10 settembre il feed Facebook del New Yorker pubblica la solita vignetta dall’umorismo sofisticato: Adamo ed Eva siedono, nudi, sotto un albero del giardino dell’Eden, nell’atteggiamento di una coppia che ha appena fatto l’amore. L’espressione facciale dei due denota insoddisfazione, mentre la donna tiene eloquentemente le braccia conserte sotto il seno: “Bè, è stato originale”, commenta sarcasticamente la madre dei viventi, facendo evidentemente riferimento al primo peccato commesso dall’uomo, appunto il “peccato originale”. Non ci sarebbe niente di particolare, se non fosse per il fatto che qualche utente di Facebook ha ritenuto che la pubblicazione di immagini stilizzate di nudo (femminile) urtasse la sua sensibilità.

In questi casi, come da procedura interna, un dipartimento specifico della società che gestisce il social network esamina la lamentela: al termine di della verifica potrà decidere di accogliere la contestazione, rimuovendo il materiale considerato offensivo, ovvero rimettendolo al suo posto. Bene, incredibile ma vero, i censori digitali al soldo di Mark Zuckerberg e soci hanno confermato che l’immagine non era coerente con gli standard di “decenza” che l’azienda si è data, e ha pertanto rimosso la vignetta.

Quel burlone di Steven ha finto di accondiscendere alle draconiane misure repressive di Facebook, ridisegnando la medesima scenetta, questa volta mettendo addosso ad Adamo ed Eva una gran quantità di vestiti (perfino la testa dei due pupazzi era coperta, rispettivamente, da un capellino da baseball e dal cappuccio di una felpa); in questo modo, nota Bob Mankoff, caporedattore delle vignette del New Yorker, la vignetta non solo non fa ridere, ma non ha neanche più senso. Si trattava di una distorsione sarcastica della realtà (la censura) il cui obiettivo era mettere il censore di fronte alle assurde conseguenze della sua azione: alcuni commentatori superficiali (compreso un redattore del New York Times) non hanno compreso la raffinatezza di questa polemica, interpretandola come il risultato di un atteggiamento passivo del cartoonist nei confronti del diktat di Facebook.

L’incidente si è verificato perché, secondo le regole del buon costume su (o quelle imposte dalla “squadra buoncostume di”) Facebook, foto e video che mostrino capezzoli maschili sono accettabili; non altrettanto nel caso in cui i capezzoli rappresentati appartengano ad un corpo femminile (viene stabilito in modo inequivocabile dal punto 2 della sezione “Sesso e Nudità” del manuale in dotazione ai censori).

Qui la cosa si fa interessante: perché, in effetti, al punto 8 della medesima sezione, si specifica che è bandita ogni forma di nudità espressa anche in forma digitale (avatar, ad esempio) o di cartoon (ad esempio le donnine nude degli hentai giapponesi non hanno un passaporto valido per accedere al recinto di Facebook). Tuttavia, in modo sibillino, il comma si conclude concedendo un lasciapassare alla nudità “artistica”.

Questo aspetto è ancora più curioso, dal momento che, secondo la sensibilità di chi ha formulato ed approvato queste regole, un nudo femminile fotografato è inaccettabile (in quanto mostra “parti intime”, e in particolare capezzoli o natiche), mentre lo stesso nudo realizzato, che so, a carboncino è perfettamente accettabile. Vittima di questo delirio è stato a suo tempo il pittore Steven Assael: quando la New York Academy of Art ha postato sul suo profilo un suo dipinto di che mostrava un busto femminile a il seno scoperto, si è vista rimuovere il contenuto in quanto non coerente con le policy aziendali. Le scuse recapitate in seguito da Facebook all’artista sono ancora più ridicole della vicenda in sé: l’amministratore si scusava dell’errore commesso, giustificandosi in modo untuoso quando affermava che il ritratto era così realistico da sembrare una foto, cosa di cui, anzi, desiderava complimentarsi con l’artista!

Come scrive Adrian Chen su Gawker, la policy di Facebook ci deve essere “qualcosa di particolarmente sconveniente nei fotoni che rimbalzano dal petto di una donna, penetrano le lenti di una macchina fotografica e vanno a colpire un sensore luminoso.” Per rendersi conto di quanto sia falso ed ipocrita questo punto di vista, continua Chen, basta vedere la campagna orchestrata dalla ditta di abbigliamento American Apparel, la quale, per pubblicizzare le sue mutande, ha creduto bene di lanciare una campagna con cui le modelle erano rappresentate nell’atto di togliersele. Niente foto, per carità, ma dei pregevoli disegni “artistici” a carboncino.

Non occorre essere bacchettoni per notare, tra l’altro, che la cosa davvero disturbante di quei disegni non è tanto la posa volutamente inelegante e provocante, quanto piuttosto il fatto che le modelle sembrano davvero un po’ troppo giovani: sono, visibilmente, parecchio minorenni. Meraviglie del disegno: la American Apparel, da fabbrica di stracci a buon mercato si è magicamente trasformata in un mecenate, mentre le sue discutibili campagne filo-pedofile una raccolta di opere d’arte.

In ogni caso l’innocente cartoon di Steven sarebbe dovuto passare senza danni attraverso le forche caudine della censura su Facebook, in quanto nudo “artistico”; il tutto senza contare che qui i temutissimi capezzoli non sono altro che due puntini tracciati con una matita. Eppure si è verificato un errore. Un errore umano, ovviamente. I gestori di Facebook, infatti, comprensibilmente controllano il materiale che viene caricato dagli utenti, in qualche caso passando il lavoro in appalto a società esterne. Queste ultime si servono di lavoratori di paesi in via di sviluppo che, per la fantasmagorica cifra (promessa) di 4 dollari l’ora, si danno a visionare, in turni di quattro ore, i modi in cui la nequizia umana si deposita in una rete sociale.

Lo scorso aprile Gawker è riuscito ad entrare in contatto con uno di questi schiavi moderni addetti a questo modernissimo lavoro e progressivo, il marocchino Derkaoui. Derkaoui, le cui ragioni di malanimo nei confronti dei suoi sfruttatori non sono difficili da immaginare, ha passato al periodico anche il manuale operativo del bravo censore, da cui sono stati estratti i comandamenti sopra riportati. Vi si trovano altre regole assurde e ridicole: non si possono mostrare donne nell’atto di nutrire i loro bimbi al seno, a meno che, petto a parte, non siano completamente vestite; si possono mostrare i liquidi corporali, ad eccezione dello sperma; non è possibile postare foto che mostrino confronti tra due soggetti (paura del razzismo?), e sono vietate tassativamente le foto ritoccate al photoshop (?).

Non è proprio una sorpresa constatare, come fa Chen in un altro pezzo su Gawker, che la sensibilità degli amministratori di Facebook nei confronti della violenza esplicita è assai più modesta di quella dimostrata nei confronti di questioni legate (anche alla lontana) al sesso o (anche alla vicina) alle secrezioni umane: scrivere “amo sentire un teschio che si spacca” è vietato, ma è ammesso mostrare foto di crani effettivamente schiacciati, purché il cervello spappolato non risulti visibile, così come sono ammissibili foto di muscoli, tendini, ferite profonde e di sangue in quantità...

Intendiamoci, un minimo di controllo sui contenuti, per una piattaforma come Facebook non è solo consigliabile, ma quasi obbligatorio: ospitare un social network è un po’ come invitare amici, conoscenti e persone quasi estranee nella propria casa, per fare una festa, divertirsi, presentare cosmetici o un libro, poco importa. Il padrone di casa (quello che ci mette la tecnologia, la banda e i soldi) ha diritto ad assicurarsi che i suoi ospiti non si insultino, non si uccidano l’un l’altro, e, incidentalmente, che non gli brucino i tappeti buoni. Mentre però su alcune cose (pedofilia, stupro, violenza) c’è un accordo unanime sul fatto che debbano essere banditi, su altri temi le regole necessariamente riflettono idiosincrasie ed ipocrisie del padrone di casa. E spesso il lavoro è svolto da qualcuno che sta mettendo i soldi da parte per scappare dal suo inferno (reale).


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