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di Rosa Ana De Santis
E’ agosto, il 14 per l’esattezza. La calura dell’Africa brucia la Capitale e per i moltissimi romani rimasti a casa la vita scorre lentissima. Peggio del solito. E’ in arrivo un pacco firmato Poste Italiane in un quartiere della periferia nord della Capitale. Si tratta di un delizioso regalo di compleanno partito da Sarzana con Posta Celere 1.
Il corriere arriva alle 12.35. Lo manco per 5 minuti, dopo averlo aspettato ai domiciliari per due mattine, date come possibili senza indicazioni di orario, e solo dopo, troppo dopo , trovo la ricevuta color arancio della mancata consegna, attaccata con adesivo sul citofono del mio palazzo. Sembrava un cartoncino pubblicitario buttato tra tanti e ancora oggi mi domando perché non gli sia stata preferita la mia cassetta della posta, in teoria adibita proprio a questo uso.
L’uomo delle consegne ha avuto la premura di lasciare il suo numero cellulare, ma di non riportare il numero della spedizione. E’ così che inizia un’avventura investigativa a pagamento con il numero verde, gratuito solo per chi chiama da telefono fisso. Alla fine del disco, delle attese e delle conversazioni con gli operatori, capaci di dare tre versioni diverse nel giro di mezz’ora, scopro che sono in ritardo per chiamare il corriere sul cellulare, ma soprattutto per fermare il secondo tentativo di consegna che avverrà nel giorno in cui so già di non essere reperibile a casa.
La procedura è irreversibile, dicono. Il fatto assume sembianze quasi fantascientifiche. La Posta non può parlare con i suoi corrieri e per concordare un altro appuntamento devo attendere la mattina del giorno seguente, quando avrò in mano la seconda bolla color arancio, o chiamare la sera dello stesso giorno, poco prima delle 20, quando i terminali riporteranno la sigla ufficiale che dice a Poste quello che io provo a dire da due giorni: ovvero che non mi avrebbero trovata nel mio domicilio.
La macchina della burocrazia avvitata su se stessa è partita e non c’è nessuno, nemmeno io che dichiaro che non sono in casa, che può fermarla. Soldi, tempo, lavoro di tutti buttato al vento.
L’ennesima telefonata mi svela l’ultima delle sorprese, finora strategicamente celata. Non è possibile concordare un terzo appuntamento e sarà mia onere ritirare il pacco nell’ufficio postale designato. Sono tre giorni che lavoro per Poste al recupero di un mio oggetto e, a quanto pare, completerò l’opera con un degno self service. Chissà se avrò un compenso a fine progetto.
La ciliegina sulla torta è che l’ufficio postale che custodisce il mio regalo non è però la mia filiale, il luogo più vicino, per intenderci, dove pago le mie bollette e ritiro le mie raccomandate. Ne ho vinto uno molto più distante. Mi indicano la sede SDA che si trova in Via Corcolle, oltre l’anello del Raccordo Anulare sulla Tiburtina e solo per un mio eccesso di zelo e un’altra telefonata scopro che non ho bisogno di uscire dalla città, ma che basta andare all’ufficio postale sito in Viale Adriatico. Un altro piccolo errore del numero verde.
E’ qui che vado la mattina di venerdi 17 agosto. E scopro, leggendo un confuso avviso cartaceo inchiodato al cancello, che quest’ ufficio è chiuso per lavori e le sue competenze sono smistate in altre due filiali di due diversi quartieri. Mi allontano con una domanda che infittisce il giallo del mio recupero: in quale dei due sarà il mio regalo? In quello dei pacchi e raccomandate o in quell’altro che smaltisce le giacenze di quello chiuso per lavori in corso? Per non parlare degli orari diversi, con differenza di una manciata di 5 minuti e e delle mille eccezioni di festivi e feriali e dei giorni festivissimi di ferragosto e dintorni. Quante combinazioni dovrò seguire sabato mattina alla ricerca del mio pacco, tenuto conto che il sabato è un prefestivo e che nessuno risponderà mai al telefono?
Il rebus mi appare da subito troppo complicato e mi rivolgo testarda e forse anche troppo ingenua di nuovo al call center. L’operatore cerca di placare le mie intemperanze e prova a difendere, timidamente a dire il vero, la correttezza di Poste Italiane che “le sue cose” le comunica. Magari con un pizzino di carta che mi ha obbligato ad arrivare in faccia ad un ufficio chiuso, perdendo una mattina di lavoro, ma l’ha fatto. Mi precisa che loro peraltro non sono dipendenti di Poste e non parlano con le Poste, ma consultano dei terminali.
Mi chiedo allora se non sia più economico mettere dei risponditori automatici, visto che il metodo è quello di appaltare all’esterno per risparmiare. Misuro con rassegnazione quanto poco possano importare le rimostranze dei cittadini se non si lavora più in seno ad un’azienda e non si ha più alcuna responsabilità diretta nel merito dei servizi erogati. Ma se prendessi i loro quattro spiccioli e rispondessi da un garage adibito ad ufficio, farei lo stesso, penso.
Mi rendo conto infine di quanto sia frustrante e vessatorio vivere sottomessi all’odiosità di procedure, burocrazie e avvitamenti insensati di un sistema di regole e cavilli obeso e privo di senso. Tenuto in vita apposta per azzerare i diritti, senza il disturbo di annunciarne l’estinzione. Una vecchia e nota malattia nazionale del sistema Italia.
La burocrazia, le procedure senza testa, di cui questa banale storia è solo una prova minima e senza dolorose conseguenze, sono diventate lo specchio migliore di un paese arretrato, lontanissimo dagli standard della cosiddetta civiltà.
I cittadini e gli utenti sono affidati a società fantasma che prendono due lire per mantenere indisturbata l’inefficienza dei servizi all’apparenza accessibili ai cittadini. Devi conoscere il direttore di turno e chiamarlo sul cellulare: è l’unico metodo efficace per sfangare un diritto in Italia. Così recita la vulgata al bar o alla pensilina degli autobus. E mentre ci penso su, mi rendo conto che non ne conosco nessuno e che per il prossimo compleanno spero di farmi recapitare il pacco molto più a Nord delle Alpi. La sensazione è che oltreconfine arriverà sicuramente prima.
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di Mario Braconi
Essere punk in una democrazia occidentale può essere divertente: ribellione, anarchia, oltre alla sperimentata triade sesso, droga e rock and roll. Ci sono ovviamente eccezioni: muovendosi lungo la scena culturale punk, infatti, può capitare di incontrare gente davvero brutta (ala neonazista) o, all’estremo opposto, soggetti impregnati di un salutismo fisico e psicologico estremo (la cosiddetta subcultura “punk straightedge”, punk che scelgono di dire no alle seduzioni della democrazia capitalista rigando dritto: niente promiscuità sessuale, niente droga né alcol, niente caffè, dieta vegetariana o vegan).
Essere punk anarchici, anzi o meglio punk anarchiche nella Russia di Putin è tutt’altra cosa: esprimere in modo artistico la propria rabbia può significare mesi di galera. E’ quanto sta accadendo a tre ragazze del collettivo musicale anarco-femminista Pussy Riot, imprigionate in un carcere russo in seguito ad una loro performance artistica.
Ma andiamo con ordine: lo scorso 21 febbraio il collettivo femminile ha preso parte alle proteste popolari contro la rielezione di Putin alla carica di presidente. Il contributo delle Pussy Riot è stato un concerto flash di cinque minuti all’interno della Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Diverse “gattine in rivolta” nelle loro uniformi ufficiali (vestiti interi, passamontagna e calze sgargianti) si sono dapprima prodotto nell’imitazione satirica di una preghiera, per poi cantare, al suono di una chitarra elettrica, uno dei pezzi del loro repertorio. Una canzone davvero adatta al luogo, visto che si tratta di “Punk Prayer” (preghiera punk): un inno anti-Putin, impreziosito da un ritornello blasfemo. Con la loro preghiera sui generis le punk intendevano denunciare lo stato di polizia instaurato da Putin, come pure l’atteggiamento filo-governativo della chiesa ortodossa russa: “tutti i parrocchiani si affollano ad omaggiare / la tonaca nera e le spalline dorate / il fantasma della libertà è in paradiso / mentre il Gay Pride è spedito in Siberia in catene (...) / il Patriarca Gundyaev crede in Putin / farebbe meglio a credere in Dio, piuttosto / la cintura della Vergine non può sostituire assemblee di massa / Maria, madre di Dio, protesta assieme a noi”.
Ovviamente la performance non poteva però rimanere impunita. Il 5 marzo, sette persone sospettate di aver dato vita al concerto improvvisato nella cattedrale sono state prelevate dalla polizia, anche se solo due di loro, Nadezhda Tolokonnikova e Maria Alyokhi, sono state fermate. Il reato ipotizzato è quello di “teppismo”, per il quale in Russia si rischiano pene detentive fino a sette anni. Sin da subito è stato chiaro, inoltre, che le autorità russe intendevano tenere in prigione le due ragazze fino alla celebrazione del processo, inizialmente previsto per aprile: questa circostanza ha spinto le due giovani ad iniziare uno sciopero della fame. Il sedici marzo è stata arrestata una terza ragazza, Irin Loktina, inizialmente sentita come testimone dei fatti. E’ molto difficile per le autorità accusare qualcuno che durante i fatti contestati aveva il volto celato da un passamontagna, come nel caso delle tre musiciste- attiviste. Per questa ragione, tanto le accuse che la detenzione in attesa di processo sono palesemente illegittime.
Madeleine Kruhly di The Atlantic ha tentato di inquadrare da un punto di vista socio-culturale il reato di “teppismo” in Russia, interpellando Neil B. Weissman, autore di un saggio sui casi di “teppismo” registrati in Russia tra il 1905 al 1918. All’inizio del Novecento, spiega Wiessman, “la polizia russa cominciò ad appioppare questa accusa a tutti i responsabili di reati di danneggiamento contro la élite (...) finché la classe dei poveri decise di commettere il suo atto di ‘teppismo’ più clamoroso, ovvero sbarazzarsi della sua élite una volta per tutte”. Corsi e ricorsi storici, dunque. Un tempo la classe degli oppressori (nobili e chiesa) ha inventato una fattispecie giuridica per garantirsi lo status quo e punire ogni forma di ribellione agli abusi perpetrati ai danni del popolo. Oggi, quello stesso reato viene usato, in modo molto simile, da una nuova élite, per le stesse ragioni: non si tratta più dell’aristocrazia, ma di una cricca di ex agenti segreti dal grilletto facile. E’ chiaro che oggi a protestare (in modo peraltro molto più blando di quanto accadesse oltre un secolo fa) sono le classi intellettuali: tuttavia, atti di “teppismo” come quelli perpetrati dalle Pussy Riot, allora come oggi, “rappresentano una forma di dissenso pubblico contro tirannide e leggi ingiuste. E oggi come ieri in Russia, il dissenso pubblico viene visto come qualcosa da temere e reprimere”.
In realtà, l’incarcerazione delle Pussy Riot serve come pro-memoria a tutte le donne e gli uomini russi: questo è il destino che attende chi contesta Putin. Dietro la burletta dell’accusa di teppismo, in effetti, si cela un processo poltico con tutte le situazioni farsesche che esso comporta. Come la presentazione, lo scorso 4 luglio, di un verbale di accusa di 2.800 pagine, cui le imputate sono state chiamate a replicare entro il 9 luglio. Non a caso, Amnesty International ha nel frattempo lanciato un’azione globale urgente finalizzata alla liberazione delle tre giovani “imprigionate per aver espresso pacificamente il proprio pensiero”.
La ONG sottolinea come agli imputati e i loro avvocati sia stato fornito un solo originale del faldone da tremila pagine (più dieci ore di registrazioni), da condividere, dal momento che non è stata messa a loro disposizione nemmeno una fotocopiatrice. Per non parlare dell’ennesima proroga dei tempi di carcerazione preventiva: in un primo momento essa era stata estesa fino al 24 luglio. Ma l’udienza preliminare del 20 luglio la ha riconfermata per ulteriori sei mesi: in altre parole, i cinque minuti di protesta stanno costando alle tre musiciste-attiviste quasi un anno di carcere (per un delitto d’opinione). Nella seconda sessione dell’udienza preliminare del 23 luglio, poi, il giudice ha concesso alle imputate altri quattro (quattro!) giorni per studiare le carte, respingendo al mittente le richieste dei loro avvocati, che avevano proposto un supplemento di indagine e l’avocazione di testimoni, tra cui Putin e il Patriarca della Chiesa Ortodossa. La corte, inoltre, si è riservata di valutare in un secondo momento le perizie linguistiche e psicologiche ordinate per verificare se nelle parole della canzone suonata nella cattedrale a febbraio si possano riscontrare gli estremi di un altro reato, l’incitazione all’odio razziale: un prendere tempo non giustificato, dal momento che già due dei tre esperti consultati hanno escluso tale possibilità.
In ogni caso, la protesta delle Pussy Riot sta creando una grande onda anomala dentro e fuori la Federazione. Grazie ad iniziative coraggiose come quelle delle Pussy Riot, l’autoritarismo di Putin sotto gli occhi del mondo, mentre in Russia perfino il fronte dei fedelissimi a Putin accusa qualche segno di cedimento: infatti, sotto i diversi appelli contro l’incriminazione della giovani russe, sono sorprendentemente comparse anche le firme di artisti considerati politicamente vicini a Putin. Nel frattempo diversi musicisti mainstream, tra cui Sting, i Red Hot Chili Peppers hanno “adottato” le Pussy Riot. Una cosa è sicura: Putin ha sottovalutato l’effetto boomerang della sua campagna di repressione del dissenso.
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di Rosa Ana De Santis
Non è più un “Quarto Grado”, ma una “Quinta Colonna” e con la solita sceneggiatura di uno spettacolo che voleva essere “giornalismo d’inchiesta”è andato in onda il Comandante Schettino, a una manciata d’ore dalla fine degli arresti domiciliari. Le voci del web parlano di un compenso di 50 mila euro, forse 57 mila, ma Sottile, il dominus della trasmissione, nega e rivendica la purezza del suo scoop giornalistico che certamente non potrebbe dirsi tale a fronte dell’emolumento versato all’illustre disoccupato.
L’intervista accompagna tutte le ore di quella tragica notte e il Comandante ricostruisce la sua verità sulla dinamica dell’incidente nautico e sulla sua onorabilità, persa prima ancora che davanti alla legge al cospetto dell’opinione pubblica.
Ha un tono calmo, non si scompone, preferisce non dare spazio alle lacrime e ai sentimenti per i 32 morti., ma quando Ilaria Cavo ricorda che la piccola Dayana Arlotti è stata trovata in acqua con un vestitino da sera allora il Comandante non ce la fa, si mette la mano sul cuore e preferisce passare ad altro. Non se ne sente colpevole, ma come capo delle nave quelle morti rimangono sue e la forza, il coraggio vero serviranno - cosi dichiara - per poter convivere con quelle scene negli occhi tutta la vita. Altro che pavido.
Ancora non ce la fa ad andare in mare. Vuole farlo al buio e prendere il surf per superare il trauma di quella notte. Per un attimo sembra lui la vittima numero uno del naufragio: quasi un capro espiatorio immolato per dare giustizia a una tragica fatalità.
La scatola nera, sostiene la giornalista che lo ha intervistato, confermerebbe solo una parte della ricostruzione di Schettino. L’inchino-non inchino, l’accostamento eccessivo della nave non avvistato nemmeno dalla Capitaneria di porto, troppo presto forse osannata nella figura di De Falco, la mano divina che avrebbe guidato Schettino nella virata verso la costa per portare via la nave dal fondale di 100 metri che avrebbe causato un veloce e repentino inabissamento e molte più vittime. Non sembra esserci dubbio che alla fine il Comandante rientra in plancia e compie la manovra della disperazione. Ma sono il prima e il dopo a rappresentare i grandi atti d’accusa.
Schettino vacilla sulla sua assenza in plancia (Domnica o no nei momenti di concitazione che seguono all’impatto lui si intrattiene altrove) sul suo ritardo nell’intervenire, sulla confusione delle decisioni e la totale dispersione di comandi e intese tra lui e i suoi ufficiali di bordo. Quindi sul ritardo di preziosi 45 minuti per lanciare l’ordine di “abbandono nave.”
Schettino si difende. Non bisognava diffondere panico tra i passeggeri senza aver avuto tutte le conferme opportune. E così mentre lui faceva le sue verifiche, un incidente di distrazione o di italiano-inglese nella catena dei comandi non gli faceva capire che l’acqua era arrivata al ponte zero.Passiamo poi ai soccorsi, ai momenti (manciata di minuti dice il Comandante) in cui la nave si poggia su un fianco. Lui corre in cabina a mettersi un K-way: fa freddo e lui sa che lavorerà tutta la notte. Nessuna volontà di non essere riconosciuto a bordo. Ma poi invece non scivola, come i giornali hanno scritto, ma non ce la fa a trattenere - colpa dei gradi che stanno piegando la Concordia - il passo veloce che lo sta portando dritto dentro una scialuppa. Lì finisce, da li approda su uno scoglio e non torna più indietro.
Non per vigliaccheria come crede la gente o il Capitano De Falco. Ma perché non ce la può fare, dice lui. E’sul lato più buio, tiene il cellulare mezzo scarico in mano e da li chiama i soccorsi, gli elicotteri e coordina. Il codardo è colui, secondo Schettino, che si defila per avere un vantaggio e lui non ne avrebbe ricavato alcuno. Tranne uno: quello di essere bene accorto a non rischiare la vita.
Non sfiora neppure vagamente il pensiero a Schettino che un Comandante debba comunque tornare sulla nave o sotto la nave o che debba provarci anche se c’è una tempesta in corso. Se non ce la fa da solo, a nuoto (non era in alto mare), o su una scialuppa o su un gommone, ordinando ai suoi di seguirlo. Di aiutare le persone, di essere presente, di risalire sul ponte e aiutare i passeggeri a scendere a costo di rischiare la propria incolumità.
Schettino ragiona di efficacia, opportunità, fa valutazioni di ordine conservativo come si trattasse di economia. Non coglie il senso del simbolo (essere visto dai suoi passeggeri), non comprende che le ragioni di un sacrificio non sono quelle di un algebrico bilancio.
Il suo vuoto d’animo e l’assenza di nobiltà sembra essere il più grande dei suoi peccati se non come tecnico (lo stabilirà la giustizia), come uomo e come uomo di Marina. Al suo posto tanti anonimi eroi sono rimasti, senza k way, fino all’alba ad aiutare.
La trasmissione che doveva forse riabilitarlo si trasforma nel racconto del suo naufragio. Non c’è spazio per il tormento di non esser rimasto a vivere o forse a morire a bordo della Concordia, perché non c’è nessun Comandante.
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di Silvia Mari
Il Comitato di bioetica lancia l’allarme per il boom incontrollato di operazioni di chirurgia plastica, scelte per ragioni di pura estetica. Il problema numero uno è rappresentato dalla scelta, poco consapevole, di ottenere misure esagerate e di rispondere a canoni di bellezza, spesso poco proporzionati alla propria fisicità e dettati dall’ideale maschilista-sessista imperante nel nostro paese. Labbra paralizzate dal silicone, seni esagerati, zigomi gonfi come pomelli e occhi felini sono la ricetta della felicità per moltissime donne, magari giovani e già carinissime, con l’unico scopo di eccitare il testosterone e non di perfezionare difetti o di migliorare relazioni sociali compromesse da tratti fisici non gradevoli. Questo è il modello vincente: a metà tra la velina e la pornostar.
Questo richiamo alla deontologia per la chirurgia estetica e ricostruttiva sarà al centro di un documento, di cui sono firmatari il vicepresidente vicario Lorenzo D'Avack, Laura Palazzani e Giancarlo Umani Ronchi. Lo stop netto è per gli interventi sugli adolescenti o i disabili, finalizzato alla “conformazione al principio di normalità”. Nella parte ricostruttiva si presta invece molta attenzione, per le ricadute psicologiche, ai trapianti di viso e arti.
Occorrerebbe a questo proposito che, parallelamente alle questioni bioetiche sollevate sulla chirurgia ricostruttiva, il Ministero della salute portasse a termine il censimento degli interventi di ricostruzione mammaria eseguiti nei nosocomi italiani. La frammentazione dei dati tra le diverse strutture e le Breast unit impedisce ad oggi - fatto gravissimo - di possedere una mappa esaustiva e attendibile di tutti gli impianti e quindi anche di confrontare numeri e dati relativi a possibili complicazioni e ai follow up degli interventi.
Quel che è chiaro è che il bravo chirurgo plastico deve saper consigliare adeguatamente la paziente o il paziente che decidesse di “rifarsi” alcune parti del corpo, non soppiantando, per compiacere il desiderio e la parcella, i principi di salute di un corpo e dell’equilibrio psico-fisico. Un seno esagerato su una donna molto magra può procurare problemi di postura, rifarsi il naso dopo i 45 anni (quando ormai la vita di relazione sociale e affettiva è stata più che affrontata) può non essere ben vissuta dopo che per più della metà della vita ci sé abituati a una certa immagine del proprio viso. La dissuasione di un bravo specialista dovrebbe anche esser quella di sensibilizzare al gusto e alla bellezza, che non è esattamente quella che molte donne si sono convinte sia.Il miglioramento della propria immagine se è funzionale ad un maggiore equilibrio psico-emotivo ed allacciare relazioni sociali non penalizzate da difetti fisici evidenti può esser accettato anche a prescindere dal dogma della maggiore età. I dogmi della legge sono, ancora una volta, la tipica e incompleta risposta italiana alle trasformazioni sociali. Ad esempio, tenendo presente che una ragazza inizia la propria vita affettiva e sessuale ben prima dei 18 anni e che l’adolescenza è una fase durissima della crescita perché non autorizzare prima delle maggiore età un aumento del seno o una rinoplastica di fronte a difetti effettivamente penalizzanti?
Quello che conta è l’analisi delle motivazione, il dato fisico-oggettivo e l’adeguata consapevolezza della paziente. E’ questo l’esercizio di verifica che si chiede ad uno specialista, più che la verifica dei documenti.
In effetti è ben oltre la maggiore età la chirurgia plastica da pessime prove del proprio esercizio trasformando il corpo, specie delle donne, in un’opera di superamento estremo del limite. E se ognuno è libero di diventare ciò che desidera, la medicina ha il dovere preliminare di non dimenticare i propri doveri, almeno nell’obbligo della dissuasione e nell’arte del giusto consiglio.
La giovinezza esasperata e le dimensioni bombastiche sono le due prove di quanto sia necessaria un’operazione culturale per istruire le persone sul bello. Che non c’è dubbio, come insegnava Kant, risponde a canoni universali e oggettivi; ma che, proprio per questo, non può essere declinato per il gentil sesso (utenza principale della chirurgia estetica) ai soli dettami ormonali e non estetici dell’universo maschile.
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di Rosa Ana De Santis
Sono ancora piccoli, non ancora italiani e per molti inesistenti. Bambini, stranieri e fantasmi. I figli degli stranieri, nel nostro Paese, sono tutte e tre le cose con l’aggiunta di una quarta: non sono pochi. Sono infatti quasi un milione i minori residenti in Italia con cittadinanza straniera e il rapporto Anci presentato a Roma qualche giorno fa ritrae con precisione numeri e percentuali dei residenti stranieri minorenni. Rappresentano il 9,7% dei minori totale e poco più del 21% della popolazione di immigrati. Negli ultimi anni si è registrato un fortissimo incremento degli stranieri nati sul territorio italiano rispetto a quelli provenienti dai paesi d’origine, segno che vi è stata una progressiva stabilizzazione delle famiglie immigrate in Italia.
Le cosiddette seconde generazioni rappresentano quindi una consistente percentuale dell’universo minori in Italia, con numeri significativi soprattutto tra quanti frequentano il ciclo dell’istruzione obbligatoria (i minori di 15 anni sono circa l’87% della popolazione minorile straniera).
E’ su questa seconda generazione che si consuma il dibattito culturale e normativo di cui la politica dovrà presto assumersi responsabilità di analisi. Si tratta infatti di una generazione che vive, necessariamente, in un confronto - se non in un conflitto - permanente tra la cultura d’origine e quella del paese in cui cresce, tra la famiglia e le relazioni fuori casa, tra la condizione de facto uguale a quella dei propri coetanei, con l’assenza di un pieno riconoscimento giuridico come cittadini.
Sono quindi bambini e giovani che hanno all’apparenza due Patrie (quella dei genitori, che magari non hanno mai visto ma di cui vivono tradizioni e costumi e di cui sono cittadini per eredità di sangue) e quella del Paese in cui studiano e diventano grandi, la Patria di cui effettivamente fanno parte e che non li riconosce invece come cittadini. Un limbo culturale che racconta, con candore, come dietro alla legge e al diritto di cittadinanza ci sia ancora l’idea culturale del sangue e della genetica razziale a identificare diritti e dovere. Altra ipotesi percorribile è infatti quella di legami parentali con italiani o l’acquisizione per trasmissione da uno dei due genitori.Quello che tante forze politiche chiedono - anche trasversalmente da sinistra a Fli - è che ci sia un superamento dello ius sanguinis e che la cittadinanza sia definitivamente associata a una funzione esigibile in termini di diritti-doveri e che sia pensata su criteri legali e non etici.
In un paese liberal-democratico è impensabile che si sia cittadini per tradizioni, folclore, credo religioso e dna e non per il rispetto delle regole comuni, il lavoro che si svolge, i contributi con cui si sostentano i servizi pubblici, la scuola in cui ci si forma nell’istruzione e nei valori culturali.
Se seguissimo alla lettera lo ius sanguinis dovremmo forse ridiscutere la cittadinanza di molti stessi italiani, arrivando a conseguenze legali e culturali disastrose. Dovremmo risalire alle appartenenze etniche, dare una doppia cittadinanza agli italiani di fede ebraica, e arriveremmo a interrogarci se uno zelante fedele islamico possa dirsi italiano.
L’estensione della cittadinanza secondo criteri di ius soli servirà non a scongiurare i rischi di discriminazioni e tensioni sociali, ma a ricordare il valore soprattutto della legge. Oggi troppo spesso ridotta alle ragioni del confine e del sentimento. Tutto quello che non potrà renderci mai, come giustizia vuole in un paese civile, davvero uguali.