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di Mario Braconi
Fino allo scorso 6 marzo l’hacker che si nascondeva dietro lo pseudonimo di Sabu (@anonymouSabu su Tweeter) è stato probabilmente il rappresentante più mediaticamente visibile del movimento di ispirazione anarchica Anonymous, di certo il più chiacchierone. Purtroppo dall’estate del 2011 Sabu aveva cambiato bandiera: come racconta in esclusiva Fox News, il 7 giugno dello scorso anno alcuni agenti FBI, con tanto di giubbotto antiproiettile, hanno fatto irruzione nell’abitazione di Hector Xavier Monsegur (questo il vero nome di Sabu), un appartamento in un condominio di case popolari di Lower East Side a New York.
Anche se i federali fino a quel giorno non erano riusciti a determinarne la vera identità, Sabu era nel mirino dei federali da un bel po’ di tempo, in quanto hacker non troppo etico: Fox riferisce come il suo profilo di Facebook fosse stato già posto sotto sequestro perché presumibilmente impiegato come piattaforma di scambio di numeri di carte di credito rubate.
Le informazioni che è stato possibile ricostruire sul personaggio contribuiscono a disegnare un identikit diverso dell’hacer altoborghese caucasico che nel garage della sua villetta in un quartiere residenziale si dedica al crimine informatico per combattere la noia. Hector Xavier è un portoricano che viene dalla strada con una famiglia disastrata: secondo un vecchio articolo pescato da Gizmodo da un New York Times del 2007, i suoi genitori sarebbero stati arrestati per spaccio di eroina, accusa che procurò loro una condanna a sette anni ciascuno. Hector Xavier si riferisce alle persone di colore chiamandoli scherzosamente “niggas” ama l’hip-hop e i motori: grazie alla sua capacità di intrufolarsi nei siti di commercio online ruba pezzi di ricambio di auto per un totale di oltre tremila dollari.
Secondo la Fox, la sua abilità alla tastiera del computer gli procura un posto di lavoro presso LimeWire, la società che ha realizzato l’omonimo client peer-to-peer, ridotto sul lastrico da una causa milionaria intentantagli dalla casa discografica Arista per violazione del diritto d’autore. Secondo altre fonti Hector Xavier avrebbe lavorato per breve tempo alla OpenPlans, una startup informatica di New York. In ogni caso, trovatosi a spasso dopo il fallimento di LimeWire, Hector Xavier non riesce (o non vuole?) trovarsi un altro lavoro e, a quanto ci raccontano, viene totalmente assorbito dalla sua passione politica anticapitalista ed anarcoide.
Ed è a questo punto che nasce Sabu, nome di battaglia preso in prestito da un wrestler americano che tra gli anni 70 e 80 dello scorso secolo si fingeva di origine saudita per eccitare folle di spettatori americani sciovinisti. Tutto procede per il meglio, perché Hector Xavier diviene rapidamente un personaggio in vista prima di Lulzec (“sicurezza da ridere”) e poi di Anonymous: non è chiaro quale sia stato il suo effettivo contributo, ma la vulgata vuole che Sabu abbia avuto un ruolo nei vari attacchi che si sono succeduti nel corso dei mesi contro Sony, PBS, Mastercard, PayPal, HBGary e Visa.
Fino a quando qualcuno, quel maledetto 7 giugno 2011, lo “doxa”: in gergo, pubblica online tutti i suoi dettagli personali. Secondo la ricostruzione ufficiale, davvero poco credibile, Sabu si sarebbe tradito a causa di un’unica fatale distrazione: sarebbe entrato in una chatroom IRC senza proteggere il suo IP. Un errore talmente macroscopico che risulta francamente poco probabile che vi sia incappato un (presunto) genio del crimine informatico come Monsegur. Più o meno come se un latitante cominciasse a passeggiare ostentatamente tutto nudo davanti ad un commissariato di polizia.
In ogni caso, pochi secondi di esposizione pubblica sono sufficienti a rovinare la vita dell’ex ufficialmente imprendibile Sabu, che nel giro di qualche ora si trova i Federali alla porta. Cerca di negare, ma anche un “duro” come lui ha un punto debole: i due bambini di cui ha la custodia. I poliziotti gli fanno un discorsetto che suona più o meno così: “Se li vuoi rivedere, devi collaborare con noi”. Ed è così che nasce la seconda fase della carriera di Monsegur: da Sabu il rivoluzionario, l’hacker etico, a Sabu il traditore. Più o meno da giugno 2011 in poi, tutte le azioni progettate, effettuate e comunicate al pubblico da Sabu sono state condotte dietro la regia del FBI. E’ particolarmente interessante il caso del clamoroso furto di dati perpetrato ad ottobre del 2011 da membri di Lulzec e/o Anonymous ai danni della Stratfor, la società di intelligence privata, cui i collettivi hanno sottratto ben 5 milioni di email.
Stratfor vuol dire Jeremy Hammond, comunista anarchico di Chicago molto attivo politicamente. Giovane generoso, che ha deciso di nutrirsi del solo cibo scartato da altri (freeganist, si dice), ha precedenti penali per aver rubato 5.000 numeri di carte di credito da un sito pro-guerra (secondo le accuse ha messo così in tasca 700.000 dollari), utilizzandole (a suo dire) per donazioni ad associazioni di sinistra, che in effetti non hanno mai visto un centesimo da lui, per aver hackerato un sito di suprematisti bianchi e per possesso di marijuana.
Ad occhio e croce, eccezion fatta per il furto, un persona molto più bella dei migliori tra i politici. Un temperamento generoso, ma poco incline alla riflessione sulle conseguenze delle sue azioni. Illuminanti le parole di sua madre: “Ha un quoziente intellettivo di 168, ma non ha cervello; è un genio senza sale in zucca”. Quando Hammond si mette in contatto con Sabu per informarlo di aver trovato la chiave per violare i sistemi della Stratfor, questi (che è controllato dalla FBI) lo incoraggia e addirittura gli offre la disponibilità di un server dove archiviare il suo futuro bottino digitale. Si sa poi com’è andata a finire: Anonymous ha completato l’operazione Stratfor, mettendo le mani su cinque milioni di e-mail riservate e saccheggiando 60.000 numeri di carta di credito (si scoprirà in seguito che alla Stratfor non si sono dati la pena di criptarli).
Mentre accadeva tutto ciò, la FBI stava a guardare. Perché? Si potrebbe dire che, per avere in mano delle accuse valide, i federali volevano lasciare che il crimine fosse effettivamente perpetrato. Ma forse è più probabile che la FBI abbia pilotato l’intera operazione Stratfor, soprattutto la fase 2, ovvero la cessione del materiale ad Assange, al fine di creare un appiglio giuridico per ottenere l’estradizione del fondatore di Wikileaks negli Stati Uniti. Ironicamente, proprio tra le carte della Stratfor è saltata fuori una mail secondo cui il Dipartimento di Stato avrebbe già bello e pronto un “caso giudiziario” per ottenere l’arresto di Assange negli USA.
In ogni caso, l’arresto di Sabu ha condotto all’arresto di altre cinque figure apicali del movimento anarchico, tra cui lo stesso Hammond. Resta il sospetto che un personaggio come Sabu non sia, sin dall’inizio, altro che un figurante, che con i suoi 50.000 contatti su Twitter poteva fungere da calamita per tutti i personaggi sospetti e potenzialmente dediti ad attività cospirative (leggi di resistenza a un sistema iniquo). Per quanto riguarda Hammond, non è escluso che si possa provare in tribunale che egli sia stato vittima di un “entrapment”, ovvero che si sia reso responsabile dei crimini che ora gli vengono contestati proprio su istigazione di chi ora lo accusa.
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di Rosa Ana De Santis
E’ stato presentato ieri a Roma, a Palazzo Giustiniani, il rapporto annuale dell’Unicef sulla condizione dell’infanzia nel mondo. Nel 2010 sono morti 8 milioni di bambini sotto i 5 anni. Più alta la mortalità di chi vive nelle baraccopoli (in Africa ci vivono 6 persone su 10) dove è ancor più difficile tutelare i diritti dei bambini, visto che un terzo delle nascite non viene neppure registrato.
La Somalia è il paese con il numero di decessi più alto. Diarrea e polmoniti le cause principali, la mancanza d’acqua e il conseguente degrado igienico-sanitario fanno il resto.
Il neo presidente dell’Unicef Italia, Giacomo Guerrera, ha evidenziato come, numeri alla mano, la condizione della povertà e dell’iniqua distribuzione delle risorse colpisca maggiormente adolescenti e bambini, la parte più vulnerabile della popolazione.
Oltre al problema delle risorse e dei diritti di salute fondamentali, esiste la questione importante dell’istruzione. Sondaggi sul campo di diversi paesi in via di sviluppo hanno dimostrato come all’aumentare della povertà delle famiglie corrispondano spese maggiori per la scuola.
La diretta proporzionalità tra povertà e costi dell’istruzione mostra con evidenza il tratto di fortissima diseguaglianza interna che caratterizza le società dei paesi del Sud del Mondo e che comporta che diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti siano invece appaltati allo status di censo dei cittadini. Accade spesso che nei villaggi sperduti, dove non arrivano volontari e organizzazioni religiose, gli insegnanti, spesso improvvisati, siano pagati dalle famiglie coinvolte o che, semplicemente, le scuole diventino un luogo vagamente sorvegliato dove lasciare per ore i propri figli mente si lavora nei campi.
Alla sopravvivenza e allo sfruttamento si unisce sempre più spesso il dramma di bambini che migrano senza i genitori, spinti dalle guerre e dalle carestie. Uno studio stima che siano uno su cinque tra i 12 e i 14 anni e uno su due tra i 15 e i 17 anni. A tutto questo va aggiunto il dramma storico dell’HIV e, se pur con numeri migliori che in passato, continuano a nascere (circa 1.000 bambini al giorno) infettati dal virus per via verticale, ovvero dalla mamma.
Le Istituzioni, il Presidente del Senato - Schifani - e il Garante dell’Infanzia, Spadafora, hanno commentato l’impietosa fotografia dell’infanzia, rinnovando l’impegno a difesa dei diritti dei minori e da fare ce n’è tanto anche nel nostro paese, attraversato dalla questione dei migranti e impreparato ad accoglierli con gli adeguati strumenti giuridici, lasciando intere zone delle grandi città nell’ombra di baraccopoli dimenticate.
Tanti i bambini che non vanno a scuola e sono costretti a chiedere l’elemosina e tanti coloro che vivono nei campi nomadi in totale clandestinità dalla legge: E sono tanti, infine, anche tutti quei bambini che nascono sul nostro territorio e ancora oggi non hanno diritto ad essere considerati italiani, rappresentano un problema clamoroso e aperto di cui un Paese che non ha scuse di carestia e guerre non può non occuparsi con urgenza.
Al centro di quest’ultimo rapporto c’è quindi lo slum. Un luogo urbano di degrado e di abbandono e insieme un luogo simbolico. Nello slum essere piccoli significa ammalarsi prima, vendersi e accattonare per non saper leggere e scrivere, morire. Non dobbiamo pensarli solo a Nairobi o alle porte di San Paolo. Gli slum dal Sud del mondo stanno arrivando dritti qui, alle periferie delle nostre città. E quanto più non li vediamo, tanto più l’ingiustizia che li governa aumenterà. Perché la matematica è semplice: per ogni bambino maltrattato, dal viaggio del mare fino alla terra della speranza, troppi adulti sono rimasti a guardare.
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di Mario Braconi
Quella che Tiziano Dal Farra ha scatenato contro Maurizio Paniz è una vera guerra personale. Tutto comincia nel 2004, quando il giovane sindaco di Longarone, Pierluigi de Cesero, sfratta dai locali comunali il Comitato per i Sopravvissuti del Vajont (Longarone è stato completamente distrutto dalla tragedia del Vajont del 9 ottobre 1963, costata 1.910 morti). Nella sbrigativa quanto perentoria missiva del 18 ottobre 2004, de Cesero spiega che i locali “concessi a titolo precario”, devono essere velocemente riconsegnati, in quanto necessari all’Amministrazione “per il raggiungimento delle sue finalità”.
A quel punto Dal Farra pubblica sull’area forum del sito dell’associazione quella che egli definisce una “immediata e argomentata reazione”; e da qui si dipana una vicenda giudiziaria che si trascina fino ai giorni nostri. Dal Farra viene dapprima denunciato per diffamazione da De Cesero, e successivamente da Gioachino Bratti, ex sindaco di Longarone.
Ad assistere entrambi i querelanti non é proprio un qualsiasi azzeccagarbugli di provincia. Maurizio Paniz, infatti, oltre a fare l’avvocato è un pezzo grosso di Forza Italia, eletto nel 2001, nel 2006 e nel 2008 nel collegio di Belluno sotto le insegne “liberali” del partito del Presidente d’Italia. Incrociare le armi con un legale come Paniz non è una sfida per cuori teneri: parlano da soli la corposa dichiarazione dei redditi (1,3 milioni di euro) e il suo curriculum parlamentare, tra cui spiccano gli incarichi di membro della Giunta per le Autorizzazioni a Procedere per due legislature (dal 2006 ad oggi) e quello di relatore della proposta di legge sul cosiddetto “processo breve”.
Non c’è da stupirsi se a carico del Dal Farra arrivi nel giro di qualche anno una condanna in primo grado per diffamazione, mentre, a dispetto delle due richieste di archiviazione, i processi a suo carico continuano con modalità kafkiane, coinvolgendo diverse procure italiane. Nel frattempo viene oscurato il suo sito www.vajont.org. Come ciliegina sulla torta, nel 2009 Dal Farra viene licenziato, a suo dire ingiustamente, ed intenta causa alla sua azienda per mobbing verticale.
Fin qui, sembra un classico caso di Davide contro Golia. Un Davide indisponibile ad autoemendarsi e certamente linguacciuto: uno dei difetti di Dal Farra è infatti quello di appioppare epiteti infamanti agli oggetti della sua vis polemica. Nondimeno va riconosciuto che la virulenza e la caparbietà con cui i suoi opponenti gli si sono scatenati contro é impressionante e probabilmente degna di miglior causa. In effetti, da una pur sommaria analisi delle (molte) recriminazioni online di Dal Farra, non si può evitare di riportare l’impressione che, al di là delle polemiche e del livello di veemenza verbale che esse possono assumere, egli sia divenuto vittima in quanto portavoce di fatti forse scomodi e certamente sgraditi ai potenti.In ogni caso, quell’impunito (e testone) di Dal Farra, ha finito per combinarne una di troppo. Sul sito vajont.info, è comparso un titoletto urticante, che, citando la celebre frase del martire di mafia Peppino Impastato, adattata a contesto montanaro recita: “E se la mafia è una montagna di merda... i Paniz e gli Scilipoti sono Guide Alpine”. L’ennesima denuncia di Paniz ha dato luogo ad un provvedimento giudiziario monstre: Aldo Giancotti, GIP di Belluno, su richiesta della locale procura ha infatti disposto il “sequestro preventivo” dell’intero contenuto del sito www.vajont.info.
Ma non è tutto: il delirante provvedimento giudiziario obbliga tutti i 226 internet provider italiani ad “inibire ai rispettivi utenti l’accesso all’indirizzo web www.vajont.info ai relativi alias e ai nomi di dominio presenti e futuri, rinvianti al sito medesimo, all’indirizzo IP statico che al momento dell’esecuzione del sequestro risulta associato al predetto nome di dominio e ad ogni ulteriore indirizzo IP statico che sarà associato in futuro (interdizione alla risoluzione dell’indirizzo mediante DNS)”.
Per capire: se l’IP fosse un numero telefonico, il senso del provvedimento del GIP di Belluno è che Dal Farra potrà cambiare numero tutte le volte che vuole, ma la tutte le “società dei telefoni” dovranno far fallire il collegamento fintanto che il nome dell’abbonato sia il suo. Va da sé che questo tipo di provvedimenti “draconiani” denunciano una grossolana ignoranza dei meccanismi basilari della Rete.
Già il concetto di sequestro per materiale online appare abbastanza risibile. Per non parlare del fatto che qualsiasi sito oscurato in Italia è facilmente visibile accedendo ad un servizio (gratuito e facilmente accessibile da chiunque) di proxy, che consente di mascherare il paese da cui ci si sta collegando. E si può fare anche di meglio senza essere hacker.
La scelta della censura preventiva è sconvolgente dal punto di vista del merito e disastrosa sotto quello pratico e della tutela dei diritti civili. Innanzitutto, prima ancora che sia stato celebrato un processo, un dispositivo di questo genere dà immediatamente ragione al querelante: immaginiamo quali possano essere le conseguenze se un simile atteggiamento liberticida cominciasse a divenire moda giudiziaria in Italia.
Nessuno scriverebbe nulla di meno che commendevole su terzi (potenti) sul proprio blog, per timore di vederselo oscurato preventivamente. Si consideri anche il fatto che, nei rarissimi casi in cui l’oscuramento si debba necessariamente fare (ad esempio, quando siano in gioco i diritti di minori), normalmente la magistratura impone la rimozione del singolo elemento presumibilmente offensivo e non dell’intero sito, come invece è accaduto questa volta.Sarebbe anche interessante capire quante risorse verranno bruciate per notificare a centinaia di provider italiani un provvedimento che ha come scopo non quello di tutelare la rispettabilità di due parlamentari italiani, quanto piuttosto la censura preventiva.
Infine, come rileva l’estensore del malauguratamente sgrammaticato comunicato Anonymous con il quale si è annunciato l’attacco di defacing a carico del sito dell’onorevole Paniz, da un punto di vista semantico, “l'uso del plurale in detta frase non si rifà alle persone ma a ciò che rappresentano, quindi come prima osservazione viene da chiedersi se non sia giusto che chi giudica lo scritto non sia tenuto alla conoscenza [sic] della lingua dello scrivente”.
Al di là delle numerose perle grammaticali di chi lo ha preparato, è certamente significativo che, come sostengono quelli di Anonymous, il primo intervento di censura di massa della magistratura italiana abbia ad oggetto un portale che, in modo più o meno accurato ed imparziale, si occupa di informazione e documentazione su una delle grandi tragedie d’Italia. Oggi è toccato alla prosa incandescente e ai tortuosi periodi di Dal Farra, domani potrebbe essere la volte del nostro blogger preferito, o perfino di un quotidiano - magari quello no, è raro infatti che vi si rinvenga qualcosa di veramente “scomodo”...
Dulcis in fundo, dal momento che l’IP su cui si appoggiava www.vajont.info è un IP virtuale, esso è condiviso dal altri 207 siti internet. Pertanto, chi ha bloccato il sito di Dal Farra ha prodotto un danno collaterale non indifferente, impedendo a migliaia di utenti italiani di accedere a siti online che nulla hanno a che vedere con le baruffe di Dal Farra e Paniz. Fulvio Sarzana, nel suo blog nota ad esempio che il sito jacklondon.com, dedicato alla vita e agli scritti dell’autore di Zanna Bianca, è rimasto vittima della lucida follia della giustizia italiana.
Per sua sfortuna, infatti, esso condivideva l’IP con quello acquistato dal reprobo bellunese. In ogni caso, sembra che Dal Farra l’abbia fatta franca un’altra volta: chi scrive ha potuto verificare l’identità tra i due IP (quello di Vajont.info e quello di jacklondon.com), e ha constatato che, contattandoli direttamente dal browser danno come risposta “Errore 403 - Forbidden”. Questo non ha però impedito di consultare i contenuti di www.vajont.info.
L’unico italiano gongolare oggi è l’onorevole Paniz, il quale a TMNews ha candidamente dimostrato quanto sia fervente la fede nelle Libertà che il suo partito dice di amare allo spasimo: “il mondo della rete è importante ma pericolosissimo, perché la notizia e quindi anche le diffamazioni fanno in tempo reale il giro del mondo [certo, con i giornali e la televisione è tutto molto più semplice ndr]. “Un controllo ci deve essere.
Quando i provider vengono invitati a non dare ingresso a determinati siti e per situazioni economiche continuano a farlo, un giudice fa benissimo a bloccarli”. Del resto, il GIP ha riconosciuto alla condotta dell’imputato Dal Farra l’aggravante “di aver commesso il fatto con un mezzo di pubblicità (rete telematica internet) e contro un pubblico ufficiale". Per una volta, almeno, la destra e i giudici vanno d’amore e d’accordo. Quando si tratta di calpestare le libertà.
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di Mariavittoria Orsolato
Poco meno di un mese fa uno stagista ventiseienne de Il Sole 24 Ore si è buttato dal quinto piano della sede del gruppo editoriale milanese, mentre il 21 giugno dello scorso anno un collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno si impiccava nel giardino di casa sua. Per entrambi la precarietà lavorativa si era fatta esistenziale e il suicidio non è stato altro che l'extrema ratio.
C'erano tempi in cui la professione giornalistica rappresentava uno dei gradini più alti della scala sociale, quello per cui si dà automaticamente del “dottore” e che consente una posizione economicamente privilegiata. E in molti hanno deciso di diventare giornalisti proprio grazie a queste anacronistiche attrattive.
Anacronistiche perché oggi, invece, intraprendere la strada del giornalismo significa soprattutto scendere ai gradini più bassi di quella stessa scala sociale e, pur incensati da titoli accademici e appartenenza all’Ordine Nazionale, arrabattarsi con quello che si trova, vivendo più che alla giornata.
"Non dite al mio editore che lo farei anche gratis" ironizzava Enzo Biagi. Eppure gli editori, consapevoli della passione che muove chi fa questo mestiere, l'hanno capito lo stesso e così ecco i cronisti pagati due euro a pezzo e inviati a proprie spese a caccia di notizie; i collaboratori eterni che di un contratto non vedono neanche l'ombra; i professionisti costretti a fare un secondo lavoro di nascosto perché vietato dall'ordine professionale.
In Italia sono almeno 35000 i giornalisti pagati a cottimo, con remunerazioni che vanno dai due ai cinque euro a pezzo e con stipendi che stentano a raggiungere i 5000 euro l'anno. La media italiana, infatti, si aggira intorno ai 7000 euro annuali - poco più di 400 euro al mese - e il tutto è faticosamente raggiunto accumulando collaborazioni ricavate ovunque si riesca e con tempi che inevitabilmente ricadono sulla qualità dell'informazione e sul suo grado di approfondimento.
Eppure l'editoria italiana campa di questo. Ad oggi, infatti, precari, autonomi e freelance sono più numerosi degli assunti - 24000 rispetto ai 19000 regolarmente contrattualizzati - e contribuiscono per oltre il 50% alla realizzazione di quotidiani, periodici, radio, tv e informazione online. Questi giornalisti sono sottopagati, privi di tutele e sotto il ricatto continuo di perdere il lavoro da parte di editori che - per contro - fanno man bassa di finanziamenti statali.
A tastare il polso di questa depauperata professione è il “tariffario dei compensi”, realizzato dall’Ordine dei giornalisti sulla base di segnalazioni, note di pagamento e contratti al limite del ridicolo arrivati dai collaboratori di tutta Italia negli ultimi 18 mesi. Si può quindi leggere che La Voce di Romagna paga 2 euro e mezzo al pezzo anche se il quotidiano romagnolo ha ricevuto 2.530.683 euro di contributi, La Repubblica Lazio ha ridotto da 50 a 30 euro il pagamento per i pezzi di 5-6000 battute e ha ricevuto sempre i suoi 16,1 milioni di euro di aiuti.
Il Messaggero sotto le 800 battute non paga proprio, mentre i contributi incassati dalla testata romana ammontano a 1.450.000 euro, e il Nuovo Corriere di Firenze paga i suoi collaboratori forfettariamente da 50 a 100 euro al mese, nonostante sprema i fondi di finanziamento per 2.530.000 euro l'anno. Si ferma poi a 5-9 centesimi a riga il compenso per i collaboratori de Il Sole 24 Ore, dimezzato a inizio anno a fronte di 19,2 milioni di aiuti, mentre Libero - a fronte di 5.400.000 euro di contributi - paga 18 euro anche per un’apertura, e chi ha protestato - segnala l’Odg - si visto rispondere “prendere o lasciare”.
Questa la sconfortante realtà di buona parte dell’editoria italiana, una realtà che ora, però, potrebbe arrivare a una svolta. In ballo, infatti, c’è una proposta di legge, firmata dal parlamentare Udc e giornalista Enzo Carra, che intende subordinare il finanziamento pubblico alle testate a un’equa retribuzione. In pratica, o gli editori iniziano a pagare decentemente i propri cronisti oppure possono scordarsi i milioni gentilmente concessi dallo Stato. La proposta è già stata approvata dalla Commissione cultura della Camera e ora, per diventare legge, attende solo il via libera del governo di Mario Monti che, ne siamo sicuri, subirà le pressioni degli editori.
Il testo, articolato in quattro punti, prevede che una commissione istituita ad hoc - quattro membri indicati rispettivamente da Ministero del Lavoro, Ministero dello Sviluppo Economico, Ordine dei Giornalisti e FNSI - stabilisca i parametri retributivi minimi che gli editori dovranno applicare. Pena la perdita non solo delle provvidenze (che per quest'anno ammonteranno a 137.000.000 euro) ma anche di tutti i contributi pubblici, compresi quelli accessori per carta, postalizzazione degli abbonamenti, telefono eccetera.
Entro tre mesi dal suo insediamento, la commissione dovrà quindi individuare i “trattamenti economici proporzionati alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, in coerenza con i corrispondenti trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva di categoria in favore dei giornalisti con rapporto subordinato”. Una specie di bollino di qualità per gli editori “equi e solidali” che garantiscono il rispetto dei requisiti minimi stabiliti: la normalità imposta per legge.
Eppure una legge interna all'Ordine per tutelare questo esercito di “sfigati” (cit. Giorgio Stracquadanio) già c'era. E' stata approvata lo scorso novembre a Firenze ed è uno strumento deontologico innovativo per disciplinare modelli virtuosi di collaborazione tra giornalisti e cooperazione con editori per cementare ancora la fiducia tra stampa e lettori. L'hanno scritta i collaboratori, i freelance e i precari e, di fatto, mette a norma che le condotte e i comportamenti editoriali sopraccitati possano essere oggetto di procedimento disciplinare ordinistico o sindacale. Ma tant'è. Evidentemente per restituire dignità a questo meraviglioso mestiere serve il sigillo tecnico.
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di Rosa Ana De Santis
Alessandro Amigoni, il vigile urbano che ha ucciso lunedi scorso a Milano, durante un inseguimento, un ragazzo cileno di 28 anni - Marcelo Valentino Gomez Cortes - da eccesso colposo di legittima difesa passa ad essere accusato di omicidio volontario. Non solo il collega l’ha smentito nella fantasiosa ricostruzione di quanto avvenuto, ma un testimone, a Tgcom24, ha dichiarato che la versione resa da Amigoni è fantasiosa e molto diversa dalla realtà. Indiscrezioni che emergono dalla Procura e da testimoni, confermerebbero che i due ragazzi a bordo dell’auto non fossero affatto armati.
La pistola sarebbe stata quindi l’invenzione ad hoc per giustificare il colpo che ha raggiunto il ragazzo, come sembra dai primi rilievi autoptici, alle spalle. E visto che la vittima è stata colpita alle spalle, risulta difficile credere che il vigile abbia visto un uomo puntargli una pistola. Da qui i primi dubbi degli inquirenti. Era difficile, in effetti, coniugare la scena della fuga con l’ipotesi della legittima difesa contro un uomo armato. O si fugge o si punta l’arma.
Una rissa, come riferiscono i testimoni, un inseguimento che termina con il caposquadra Amigoni che esce dall’auto in borghese e fa fuoco con la sua semiautomatica per difendersi da un’arma giocattolo o forse proprio da nulla. Mentre ancora si cerca il fuggitivo, un ragazzo è steso in obitorio e lascia moglie e figli, finito per strada con la faccia piena di sangue mentre il compagno scampato pare gridasse, come riferisce un testimone, di non sparare. Sembra la scena di un telefilm e si fa fatica a pensarla nell’ordinario delle nostre città.
Autopsia e perizie balistiche saranno fondamentali per ricostruire la dinamica dell’accaduto e l’esatta posizione del vigile rispetto ai due giovani, solo uno dei quali (e non la vittima) pare fosse quello armato, spostatosi dalla traiettoria del proiettile. Nel frattempo fanno il giro del web le foto che ritraggono il vigile e la sua passione per le armi. “Non è un Rambo”, si affretta a dire l’avvocato difensore, Giampiero Biancolella, anche se alcune immagini ricavate dal profilo di Facebook sono piuttosto inquietanti.
Stabiliranno quindi le indagini quanto accaduto e chi sia davvero Alessandro Amigoni. Un vigile che ha risposto per difesa a una minaccia, a due pericolosi criminali armati, o uno dal grilletto facile, atteggiato da sceriffo, innamorato delle armi, magari con qualche vizietto xenofobo?
Intanto sarebbe interessante sapere a quale procedura codificata risponde l’arrivare a folle velocità e spianare le armi in caso di rissa. Sono disposizioni impartite o solo frutto dell’esaltazione del mancato sceriffo? Se poi si aggiunge che di questa fantomatica rissa non c’è traccia, né di testimonianze né di danni o feriti, le incognite si sommano ancor di più.
Sull’onda di questa brutta storia sarebbe bene avviare una riflessione sulla proposta, inserita nel famoso pacchetto sicurezza, di armare i vigili urbani trasformandoli in poliziotti. Al momento, a discrezione dei singoli Comuni, alcuni sono armati e altri no. Quale sia la preparazione e la formazione di questi agenti, a quali test psico-attitudinali vengono sottoposti per assicurarci di non avere in giro per le città improvvisati sceriffi allo sbaraglio non è però chiaro.
L’impiego delle armi senza adeguata preparazione e in nome della sicurezza spesso diventa solo la molla di abusi e di azioni sproporzionate, come la storia delle nostre forze dell’ordine ha spesso impunemente confermato. Anche a Parma, sempre i vigili urbani, avevano pestato quasi a morte un ragazzo nero.
Intanto un uomo è scappato dai colpi di pistola del vigile e un ragazzo è steso in obitorio. Piccoli precedenti penali finiti in omicidio. Non è un telefilm, ma cronaca di casa. Sarà la sindrome dell’insicurezza e sarà il caso di rivedere chi può permettersi di avere un’arma in mano, con uniforme e senza, senza trasformare il pretesto della difesa nella brama della vendetta o, peggio ancora, nella banalità di un gioco.