di Rosa Ana De Santis

La recente sentenza della Cassazione è destinata a scuotere, come già accaduto su altri fronti, l’inerzia della politica sulla questione dei diritti delle coppie omosessuali. La Suprema Corte ha stabilito infatti, alla fine dell’iter giudiziario affrontato da una coppia gay residente a Roma e sposatasi all’Aja che chiedeva la trascrizione delle nozze in Italia, che non possono esserci trattamenti disomogenei rispetto alle coppie etero coniugate.

Il verdetto recepisce appieno le linee della Corte Europea in materia ed espressioni analoghe sulla libertà di vivere la propria condizione sessuale ricavate dalla nostra stessa Carta Costituzionale. La legge quindi, come riconosce con soddisfazione l’Arcigay, ha fatto un significativo passo avanti che va ben oltre il perimetro della giurisprudenza e annuncia quella che dovrà essere una rivoluzione culturale e di costume.

Gli episodi di violenta omofobia registrati nel nostro paese (anche in grandi città come Roma) e le espressioni della politica sull’argomento, sembrano già la preistoria di una società che dovrà cambiare, abbandonando l’idea che lo stato legale del matrimonio sia proprio della sola condizione eterosessuale.

L’errore di questo ragionamento sta tutto nella consequenzialità, infondata, per cui essere sposati significhi sic et simpliciter procreare: possibilità naturalmente negata alle coppie omosessuali e legalmente impedita anche sul piano delle adozioni allo stato attuale. In verità con il contratto matrimoniale si assumono molti altri diritti la cui perdita per la potenzialità della procreazione rappresenta un’aporia concettuale oltre che un’incoerenza giuridica. A meno che non decidessimo di togliere altrettanti diritti anche a tutte quelle coppie etero che decidessero o non potessero avere figli.

Soltanto pochi giorni fa tanti rappresentanti delle istituzioni si erano lanciati in una gara di affermazioni, tutte tese a voler stigmatizzare la differenza tra unioni  gay e unioni etero, Pd compreso. La stessa Rosy Bindi, pur credendo nella battaglia del riconoscimento di pari diritti, aveva tenuto a rafforzare l’unicità del matrimonio per le sole coppie eterosessuali. Quella che all’apparenza può sembrare una banale questione nominalistica tradisce invece, anche nell’area della sinistra, la resistenza di un retaggio a metà tra il diritto naturale e la concezione cattolica della famiglia.

Se non possiamo dire che la Corte abbia esteso la nozione di matrimonio alle coppie gay, il riconoscimento normativo dell’eguaglianza dei diritti rispetto alle coppie eterosessuali, è come dire quasi la stessa cosa, svuotando, a questo punto senza dubbio, la diatriba matrimonio e non, di ogni sostanza giuridica e traducendola, in questo modo certamente, in un sofisma solo terminologico.

Nell’esplicitazione della parola matrimonio e nel rifiuto di estenderla a chi è “diverso” c’è tutto il simbolo di un paese che, colori politici a parte, non riesce fino in fondo a staccare il diritto da una concezionale culturale e morale della vita che è plasmata sulla storia cattolica della società italiana. Nel momento in cui i diritti delle coppie omosessuali saranno codificati e riconosciuti e sarà finalmente colmato il vuoto legislativo che finora ha lasciato tanti cittadini a vivere come fantasmi, non ci sarà nemmeno più bisogno di scomodare i termini e le parole. Saremo tutti cittadini, senza differenze di diritti e doveri e, per questo, tutto uguali.

Come sempre in Italia sono i fatti a spingere i pensieri e le contingenze a scatenare le rivoluzioni del costume. Per questo la legge e i tribunali anticipano la politica e le istituzioni. Per questo serve sempre il caso particolare al pensiero generale. Segno che, vuoi o non vuoi, il paese sarà già cambiato da un pezzo quando avremo la forza di scriverlo.

di Rosa Ana De Santis

Sulla famiglia non mancano mai le lezioni non richieste. Dalle gerarchie ecclesiali ai partiti che ne portano il verbo nelle istituzioni, é spesso un fiorire ipocrita e retorico sulla famiglia. Una volta tanto, quindi, é bene leggere dati scientifici piuttosto che litanìe interessate. I numeri dell’indagine condotta dal Censis, in occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, ritraggono un paese in nostalgia che torna, o non si separa, dai modelli di una volta. Sarà la spinta dei forti cambiamenti, la depressione economica e una nuova geografia sociale e culturale, ma gli italiani sembrano rimasti quelli di sempre.

Vincono i valori classici: la famiglia prima di tutto, poi la tradizione religiosa in cui si riconosce la maggioranza della popolazione, la moralità e l’onestà. Più ambigua la considerazione dei rapporti con gli altri. Se più del 50% definisce “belli” i rapporti interpersonali con persone sconosciute, la lealtà e la fiducia sono sentimenti circoscritti alla cerchia delle conoscenze più prossime.

La collettività rimane un’identità poco chiara e densa di sospetto e, questo forse il portato storico più desolante, la maggioranza degli italiani non crede al senso di responsabilità degli stessi italiani verso il bene comune. E’ tutto questo a produrre una scarsa coesione sociale e a rendere la comunità nazionale un’idea molto debole nella percezione culturale e identitaria della popolazione.

Emerge con numeri significativi il bisogno di averi modelli di riferimento. Se nel 1988 il 63,2% degli italiani intervistati dichiarava di non avere “maestri di vita”, oggi questa percentuale scende al 40% circa.

La crisi della soggettività e forse anche della stessa famiglia tradizionale, sopraffatta dalla crisi dei matrimonio e delle famiglie allargate, contribuisce ad alimentare la necessità di trovare proprio in casa le muse della propria vita. Padre e madre rappresentano per le nuovissime generazioni un paradigma assoluto, vincente rispetto alle relazioni interpersonali pubbliche. Il 22% riconosce nel padre il proprio maestro e il 13% la madre.

Se i valori nelle loro forme archetipe vanno in crisi, se il ruolo genitoriale cambia forme e modalità, si può stare comunque tranquilli, stando a quando dimostrano i numeri,  che  i modelli non sono scomparsi e anzi piuttosto conoscono un inaspettato rilancio nella crescita dei figli.

Aumenta anche la quota di quanti si professano credenti: se negli anni Ottanta era del 45,1% oggi arriva al 65,1% e se questo non sempre coincide con la veste dogmatica della pratica religiosa corrisponde invece, almeno formalmente, ad un atteggiamento conservatore e restrittivo rispetto alle nuove questioni dell’etica. Nel dubbio, per semplificare, si preferisce difendere lo status quo e non stravolgere convincimenti o forse solo costumi ormai consolidati nella vita sia pubblica che privata.

Il bilancio dell’indagine ritrae un paese con la faccia all’indietro e a guadar bene anche il rinverdire delle tradizioni svela più che un autentico recupero dei valori tradizionali, la paura di guardare avanti. Soccorre la sociologia a spiegare questa incoerenza tra i modelli riferiti e la metamorfosi di fatto che caratterizza i costumi sociali diffusi, soprattutto tra i figli.

Tanto più i valori del passato sembrano tornare con forza, tanto più questi sono scollati dallo stato reale delle cose. Bastano le chiese vuote, su tutto, a mostrarlo con maggiore evidenza. Agganciarsi al bastone del valore di una volta non funzione più realmente come canale educativo e formativo. Funziona piuttosto come un muro oltre il quale si ha paura di andare.

 

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Il caffè mattutino rischia di diventare più amaro che mai per migliaia di uomini tedeschi: il tabloid Bild, uno dei quotidiani più diffusi in Germania, ha deciso di dire addio ai languidi nudi di prima pagina che per quasi trent’anni hanno accompagnato i suoi lettori. In occasione della festa della donna appena trascorsa, infatti, la redazione ha annunciato che le ammiccanti signorine di prima pagina verranno d’ora in poi discretamente spostate all’interno.

“Sarà forse un piccolo passo per le donne, ma è un grande passo per Bild e tutti gli uomini in Germania”, si affrettano a precisare dalla redazione. Onde evitar che le rappresentanti del genere femminile possano pensare a una decisione presa in loro rispetto e considerazione.

A inaugurare la serie di ragazze da prima pagina di Bild, il 29 marzo 1984, è stata Evelyn Rillè, l’allora neo eletta miss Vienna, con un procace nudo di grande impatto tutt’altro che discreto. Da allora sotto i principali titoli del giorno sono state mostrate ben 5000 ragazze, tutte categoricamente senza veli, e il nudo di copertina è arrivato a diventare uno dei volti più caratteristici del quotidiano popolare tedesco.

Perché, in effetti, la consuetudine è diffusa tra molti tabloid europei, ma in nessun altro caso si è arrivati a occuparne costantemente la prima pagina. Caposcuola, inutile ricordarlo, il Sun inglese, che si è tuttavia limitato a inserire le avvenenti modelle in terza pagina.

E ora anche Bild si è rassegnato a non ostentare più le sue “Miezen”, come vengono chiamate in gergo teutonico, le sue belle “gattine”: la redazione ha spiegato che le modelle saranno presentate “in maniera più moderna” perché meglio “confezionate”, cioè all’interno del giornale. Ad accompagnare la Playgirl di prima pagina di Bild nella sua ultima edizione c’era però una serie di colleghe inserite in una galleria fotografica all’interno del tabloid, tutte molto sexy: una sorta di rassicurazione per il mondo maschile. Non preoccupatevi uomini, garantisce in un certo senso Bild, la bellezza non è più sbandierata ma la particolare attenzione nei vostri confronti rimane.

 Le reazioni sono state controverse già tra i collaboratori della redazione stessa ma il dibattito che si è aperto ha assunto tonalità tanto superficiali da diventare quasi irreale. Per uno degli opinionisti di Bild, il caporedattore è semplicemente impazzito: “Come si può mandare in esilio la ragazza dei sogni?”, argomenta il giornalista. Il caporedattore, da parte sua, si difende con la buona vecchia scusa dell’evoluzione naturale: il giornale deve saper cambiare ed è per questo obbligato a reinventarsi continuamente.

Un cambiamento, quindi, al passo con i tempi: considerazione assolutamente non rilevante da un punto di vista prettamente femminile, in quanto i nudi non vengono eliminati ma semplicemente spostati ed è un cambiamento a metà.

A tal proposito può essere interessante ricordare la polemica che si è aperta di recente in Gran Bretagna. Di fronte alla questione etica posta riguardo le belle signorine senza veli presentate nel quotidiano, il capo di Sun si è giustificato dicendo che l’usanza è diventata ormai “un’istituzione nazionale”.

Secondo lui la prosperosità delle ragazze presentate potrebbe anzi rappresentare un ottimo esempio di “bellezza naturale” per tutte le giovani ragazze della porta accanto, immagine che si va a sostituire alla pericolosa esilità delle modelle da passerella. Opinioni e discussioni che sfiorano il ridicolo e che non toccano il nodo della questione.

Le stupende playgirl inserite tra le pagine dei tabloid, così come le immancabili bellissime che addolciscono con la loro presenza muta ogni programma televisivo nostrano che si rispetti (per non andare troppo lontano), non sono che lo specchio del ruolo che ancor oggi si vuole assegnare alle donne nonostante i continui tentativi di emancipazione degli ultimi 40 anni.

Nel 2012 anche le donne hanno potere e un’opinione propria, ma certe abitudini, come ha detto il capo di Sun, sono diventate ormai istituzioni e non si possono cambiare. Togliere un nudo dalla prima pagina per spostarlo all’interno del giornale assomiglia a un escamotage per compiacere un potenziale di pubblico pagante (le lettrici), ma non ha nessun significato per la questione femminile generale. 

 

di Mario Braconi

Fino allo scorso 6 marzo l’hacker che si nascondeva dietro lo pseudonimo di Sabu (@anonymouSabu su Tweeter) è stato probabilmente il rappresentante più mediaticamente visibile del movimento di ispirazione anarchica Anonymous, di certo il più chiacchierone. Purtroppo dall’estate del 2011 Sabu aveva cambiato bandiera: come racconta in esclusiva Fox News, il 7 giugno dello scorso anno alcuni agenti FBI, con tanto di giubbotto antiproiettile, hanno fatto irruzione nell’abitazione di Hector Xavier Monsegur (questo il vero nome di Sabu), un appartamento in un condominio di case popolari di Lower East Side a New York.

Anche se i federali fino a quel giorno non erano riusciti a determinarne la vera identità, Sabu era nel mirino dei federali da un bel po’ di tempo, in quanto hacker non troppo etico: Fox riferisce come il suo profilo di Facebook fosse stato già posto sotto sequestro perché presumibilmente impiegato come piattaforma di scambio di numeri di carte di credito rubate.

Le informazioni che è stato possibile ricostruire sul personaggio contribuiscono a disegnare un identikit diverso dell’hacer altoborghese caucasico che nel garage della sua villetta in un quartiere residenziale si dedica al crimine informatico per combattere la noia. Hector Xavier è un portoricano che viene dalla strada con una famiglia disastrata: secondo un vecchio articolo pescato da Gizmodo da un New York Times del 2007, i suoi genitori sarebbero stati arrestati per spaccio di eroina, accusa che procurò loro una condanna a sette anni ciascuno. Hector Xavier si riferisce alle persone di colore chiamandoli scherzosamente “niggas” ama l’hip-hop e i motori: grazie alla sua capacità di intrufolarsi nei siti di commercio online ruba pezzi di ricambio di auto per un totale di oltre tremila dollari.

Secondo la Fox, la sua abilità alla tastiera del computer gli procura un posto di lavoro presso LimeWire, la società che ha realizzato l’omonimo client peer-to-peer, ridotto sul lastrico da una causa milionaria intentantagli dalla casa discografica Arista per violazione del diritto d’autore. Secondo altre fonti Hector Xavier avrebbe lavorato per breve tempo alla OpenPlans, una startup informatica di New York. In ogni caso, trovatosi a spasso dopo il fallimento di LimeWire, Hector Xavier non riesce (o non vuole?) trovarsi un altro lavoro e, a quanto ci raccontano, viene totalmente assorbito dalla sua passione politica anticapitalista ed anarcoide.

Ed è a questo punto che nasce Sabu, nome di battaglia preso in prestito da un wrestler americano che tra gli anni 70 e 80 dello scorso secolo si fingeva di origine saudita per eccitare folle di spettatori americani sciovinisti. Tutto procede per il meglio, perché Hector Xavier diviene rapidamente un personaggio in vista prima di Lulzec (“sicurezza da ridere”) e poi di Anonymous: non è chiaro quale sia stato il suo effettivo contributo, ma la vulgata vuole che Sabu abbia avuto un ruolo nei vari attacchi che si sono succeduti nel corso dei mesi contro Sony, PBS, Mastercard, PayPal, HBGary e Visa.

Fino a quando qualcuno, quel maledetto 7 giugno 2011, lo “doxa”: in gergo, pubblica online tutti i suoi dettagli personali. Secondo la ricostruzione ufficiale, davvero poco credibile, Sabu si sarebbe tradito a causa di un’unica fatale distrazione: sarebbe entrato in una chatroom IRC senza proteggere il suo IP. Un errore talmente macroscopico che risulta francamente poco probabile che vi sia incappato un (presunto) genio del crimine informatico come Monsegur. Più o meno come se un latitante cominciasse a passeggiare ostentatamente tutto nudo davanti ad un commissariato di polizia.

In ogni caso, pochi secondi di esposizione pubblica sono sufficienti a rovinare la vita dell’ex ufficialmente imprendibile Sabu, che nel giro di qualche ora si trova i Federali alla porta. Cerca di negare, ma anche un “duro” come lui ha un punto debole: i due bambini di cui ha la custodia. I poliziotti gli fanno un discorsetto che suona più o meno così: “Se li vuoi rivedere, devi collaborare con noi”. Ed è così che nasce la seconda fase della carriera di Monsegur: da Sabu il rivoluzionario, l’hacker etico, a Sabu il traditore. Più o meno da giugno 2011 in poi, tutte le azioni progettate, effettuate e comunicate al pubblico da Sabu sono state condotte dietro la regia del FBI. E’ particolarmente interessante il caso del clamoroso furto di dati perpetrato ad ottobre del 2011 da membri di Lulzec e/o Anonymous ai danni della Stratfor, la società di intelligence privata, cui i collettivi hanno sottratto ben 5 milioni di email.

Stratfor vuol dire Jeremy Hammond, comunista anarchico di Chicago molto attivo politicamente. Giovane generoso, che ha deciso di nutrirsi del solo cibo scartato da altri (freeganist, si dice), ha precedenti penali per aver rubato 5.000 numeri di carte di credito da un sito pro-guerra (secondo le accuse ha messo così in tasca 700.000 dollari), utilizzandole (a suo dire) per donazioni ad associazioni di sinistra, che in effetti non hanno mai visto un centesimo da lui, per aver hackerato un sito di suprematisti bianchi e per possesso di marijuana.

Ad occhio e croce, eccezion fatta per il furto, un persona molto più bella dei migliori tra i politici. Un temperamento generoso, ma poco incline alla riflessione sulle conseguenze delle sue azioni. Illuminanti le parole di sua madre: “Ha un quoziente intellettivo di 168, ma non ha cervello; è un genio senza sale in zucca”. Quando Hammond si mette in contatto con Sabu per informarlo di aver trovato la chiave per violare i sistemi della Stratfor, questi (che è controllato dalla FBI) lo incoraggia e addirittura gli offre la disponibilità di un server dove archiviare il suo futuro bottino digitale. Si sa poi com’è andata a finire: Anonymous ha completato l’operazione Stratfor, mettendo le mani su cinque milioni di e-mail riservate e saccheggiando 60.000 numeri di carta di credito (si scoprirà in seguito che alla Stratfor non si sono dati la pena di criptarli).

Mentre accadeva tutto ciò, la FBI stava a guardare. Perché? Si potrebbe dire che, per avere in mano delle accuse valide, i federali volevano lasciare che il crimine fosse effettivamente perpetrato. Ma forse è più probabile che la FBI abbia pilotato l’intera operazione Stratfor, soprattutto la fase 2, ovvero la cessione del materiale ad Assange, al fine di creare un appiglio giuridico per ottenere l’estradizione del fondatore di Wikileaks negli Stati Uniti. Ironicamente, proprio tra le carte della Stratfor è saltata fuori una mail secondo cui il Dipartimento di Stato avrebbe già bello e pronto un “caso giudiziario” per ottenere l’arresto di Assange negli USA.

In ogni caso, l’arresto di Sabu ha condotto all’arresto di altre cinque figure apicali del movimento anarchico, tra cui lo stesso Hammond. Resta il sospetto che un personaggio come Sabu non sia, sin dall’inizio, altro che un figurante, che con i suoi 50.000 contatti su Twitter poteva fungere da calamita per tutti i personaggi sospetti e potenzialmente dediti ad attività cospirative (leggi di resistenza a un sistema iniquo). Per quanto riguarda Hammond, non è escluso che si possa provare in tribunale che egli sia stato vittima di un “entrapment”, ovvero che si sia reso responsabile dei crimini che ora gli vengono contestati proprio su istigazione di chi ora lo accusa.

di Rosa Ana De Santis

E’ stato presentato ieri a Roma, a Palazzo Giustiniani, il rapporto annuale dell’Unicef sulla condizione dell’infanzia nel mondo. Nel 2010 sono morti 8 milioni di bambini sotto i 5 anni. Più alta la mortalità di chi vive nelle baraccopoli (in Africa ci vivono 6 persone su 10) dove è ancor più difficile tutelare i diritti dei bambini, visto che un terzo delle nascite non viene neppure registrato.

La Somalia è il paese con il numero di decessi più alto. Diarrea e polmoniti le cause principali, la mancanza d’acqua e il conseguente degrado igienico-sanitario fanno il resto.

Il neo presidente dell’Unicef Italia, Giacomo Guerrera, ha evidenziato come, numeri alla mano,  la condizione della povertà e dell’iniqua distribuzione delle risorse colpisca maggiormente adolescenti e bambini, la parte più vulnerabile della popolazione.

Oltre al problema delle risorse e dei diritti di salute fondamentali, esiste la questione importante dell’istruzione. Sondaggi sul campo di diversi paesi in via di sviluppo hanno dimostrato come all’aumentare della povertà delle famiglie corrispondano spese maggiori per la scuola.

La diretta proporzionalità tra povertà e costi dell’istruzione mostra con evidenza il tratto di fortissima diseguaglianza interna che caratterizza le società dei paesi del Sud del Mondo e che comporta che diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti siano invece appaltati allo status di censo dei cittadini. Accade spesso che nei villaggi sperduti, dove non arrivano volontari e organizzazioni religiose, gli insegnanti, spesso improvvisati, siano pagati dalle famiglie coinvolte o che, semplicemente, le scuole diventino un luogo vagamente sorvegliato dove lasciare per ore i propri figli mente si lavora nei campi.

Alla sopravvivenza e allo sfruttamento si unisce sempre più spesso il dramma di bambini che migrano senza i genitori, spinti dalle guerre e dalle carestie. Uno studio stima che siano uno su cinque tra i 12 e i 14 anni e uno su due tra i 15 e i 17 anni. A tutto questo va aggiunto il dramma storico dell’HIV e, se pur con numeri migliori che in passato, continuano a nascere (circa 1.000 bambini al giorno) infettati dal virus per via verticale, ovvero dalla mamma.

Le Istituzioni, il Presidente del Senato - Schifani - e il Garante dell’Infanzia, Spadafora, hanno commentato l’impietosa fotografia dell’infanzia, rinnovando l’impegno a difesa dei diritti dei minori e da fare ce n’è tanto anche nel nostro paese, attraversato dalla questione dei migranti e impreparato ad accoglierli con gli adeguati strumenti giuridici, lasciando intere zone delle grandi città nell’ombra di baraccopoli dimenticate.

Tanti i bambini che non vanno a scuola e sono costretti a chiedere l’elemosina e tanti coloro che vivono nei campi nomadi in totale clandestinità dalla legge: E sono tanti, infine, anche tutti quei bambini che nascono sul nostro territorio e ancora oggi non hanno diritto ad essere considerati italiani, rappresentano un problema  clamoroso e aperto di cui un Paese che non ha scuse di carestia e guerre non può non occuparsi con urgenza.

Al centro di quest’ultimo rapporto c’è quindi lo slum. Un luogo urbano di degrado e di abbandono e insieme un luogo simbolico. Nello slum essere piccoli significa ammalarsi prima, vendersi e accattonare per non saper leggere e scrivere, morire. Non dobbiamo pensarli solo a Nairobi o alle porte di San Paolo. Gli slum dal Sud del mondo stanno arrivando dritti qui, alle periferie delle nostre città. E quanto più non li vediamo, tanto più l’ingiustizia che li governa aumenterà. Perché la matematica è semplice: per ogni bambino maltrattato, dal viaggio del mare fino alla terra della speranza, troppi adulti sono rimasti a guardare.


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