di Rosa Ana De Santis

Come un gigante di ferro poggiato su un fianco, a pochi chilometri dall’Isola del Giglio, la Concordia concede, quasi con fascino, tutta l’immagine della tragedia: un abisso di errore umano che conta le sue vittime, gli eroi e tutte le meschinità umane. La scena di morte sembra uscita da un libro e ieri notte, mentre la Costa Serena sfilava dietro allo scheletro abbandonato del transatlantico, è diventata quasi il simbolo assoluto della fine e della pietà.

I naufraghi scampati hanno una sola storia da raccontare. La cronologia di un allarme dato in ritardo, l’evacuazione disorganizzata affidata alla buona volontà dei singoli, la fuga del Comandante Schettino, inciampato in una scialuppa come ha raccontato sotto interrogatorio e insieme a lui, pare, di troppi ufficiali dell’equipaggio. Cuochi, camerieri, disperazione, generosità e sacrificio di uomini come il musicista Giuseppe Girolamo, ancora nella lista dei 24 scomparsi, hanno guidato il lancio in mare di scialuppe e salvagenti e la messa in fila delle formichine, come apparivano dalle riprese ad infrarosso, i passeggeri accodati sulla pancia strappata della nave.

Il duello tra il Comandante che molla i suoi passeggeri e l’altro, l’ufficiale De Falco della Capitaneria di Porto, intervenuto a supplire la fuga vergognosa, ha fatto il giro del mondo. I toni ovattati, quasi addormentati di Schettino, si perdono nei comandi risoluti di un Comandante che proprio non ci sta a diventare eroe della tragedia, come titolano troppo facilmente i quotidiani, solo per aver fatto il proprio dovere.

Risiede qui tutta l’anormalità italiana: il dovere di un Capitano si trasforma in un’ eccellenza di spirito e umanità, mentre Schettino, il principe degli inchini a bordo costa, ritorna a casa, a Meta di Sorrento, protetto da un’assoluzione incondizionata, in nome della tradizione marinara, dei meriti passati o, più banalmente, del campanilismo di paese. La virata della salvezza avrebbe evitato la tragedia in mare alto e questo basterebbe a dimenticarsi il resto. Chiarirà la giustizia nel merito quello che però la deontologia, la morale e la legge degli uomini del mare hanno già chiarito. Schettino, nel momento del naufragio, non è rimasto a fare il comandante, a coordinare evacuazione e soccorsi, a istruire i suoi uomini, a mettere in salvo fino all’ultimo bambino della nave.

Per questo la sua scarcerazione suona come uno schiaffo ai sopravvissuti, ancora increduli mentre ci restituiscono le loro storie piene di terrore. Gli errori più grandi il Comandante Schettino li fa tutti dopo la collisione: sottovalutando l’entità dei danni e l’urgenza di evacuare la nave, forse - come chiarirà la magistratura - con una corresponsabilità di altri e della stessa Costa Crociere, rinunciando alla responsabilità delle sue funzioni, mettendosi in salvo non per ultimo, come vorrebbe il codice d’onore a bordo, ma per primo.

All’incommentabile gesto di vigliaccheria supplisce un Comandante che svolge onorevolmente la sua funzione, il suo bravissimo sottocapo Tosi, che per primo quella notte ha notato sui monitor la minaccia e l’insidia di quella bassa velocità del puntino verde Concordia, il giovane ragazzo dell’elisoccorso che si è lanciato dentro il relitto senza pensiero per la propria incolumità. Uomini perbene di dovere e di assoluto rigore.

Supplisce infine un popolo di anonimi santi che si spendono, questi si, senza dovere di ruolo e uniforme. Passeggeri generosi che aiutano i bambini a ritrovare i genitori, mariti che lasciano il salvagente alla moglie, posti in scialuppa lasciati agli anziani, ai bambini o ai disabili. Personale non qualificato che si dispera, ma rimane in mezzo alla gente.

Nel naufragio la stampa inglese ha visto la scena di un declino nazionale, forse di tutto il Vecchio Continente. Ma questa tragedia è tutta dei singoli e delle loro vite, così il valore simbolico è solo quello dei protagonisti e dei diversi ritratti di umanità che si avvicendano. Le vite perdute, quelle sopravvissute, quelle dei fuggitivi e delle stellette disonorate in una farsa tutta italiana che ha già incoronato eroi e incensato santi.

La nave è rimasta, proprio come scriveva Dante nel suo canto politico del Purgatorio “sanza nocchiero e in gran tempesta”. A due passi dalla terra, lì dove sarebbe bastato, come vuole il romanticismo tutto italiano, un Comandante degno a trasformare il racconto della viltà nella notte di un eroe.

di Mariavittoria Orsolato

“Non studio, non lavoro, non guardo la tv” cantava Giovanni Lindo Ferretti prima della sua crisi mistica con conseguente trasmutazione in hooligan di Giuliano Ferrara. Era il 1985, al governo c'era Craxi, al Quirinale arrivava Cossiga e il disagio sociale giovanile aveva a che fare soprattutto con le pere. Anche allora l'Italia era il fanalino di coda westeuropeo quanto a disoccupazione ma alla fine, vuoi il parente, vuoi la conoscenza, vuoi il partito, un posto “a 'sti poveri ragazzi” lo si trovava sempre.

Forse allora i CCCP non lo immaginavano - o forse si dato il background socialista - ma la loro “Io sto bene”, da cui è tratta la strofa sopra riportata, è diventata una sorta di inno generazionale dei giovani italiani degli anni zero, quelli sfigati s'intende.

Li chiamano NEET - acronimo che in inglese sta per "not in education, employment or training” e che nella nostra lingua può essere tradotto come “nè, nè” -  sono giovani tra i 16 e i 29 anni che non hanno un'occupazione, non vanno all'Università e non seguono corsi di formazione. Una nuova categoria sociale coniata in tempi non ancora sospetti - era il 1999 - dal report della task force anti-esclusione sociale del governo britannico e che nel 2010 comprendeva ben 2,2 milioni di giovani italiani.

I numeri, com'è ovvio, sono però destinati a crescere: l'Istat ha già lanciato l'allarme, indicando che tra gli under 25 la disoccupazione è al 30,1% e che il 72% delle giovani donne rinuncia a trovare un'occupazione nel breve periodo per dedicarsi alla casa e alla famiglia.

Bamboccioni spesso loro malgrado, i NEET sono persone che non hanno titoli di studio sufficienti o che al contrario hanno fin troppe lauree e specializzazioni, pronte ad inserirsi nel mercato del lavoro ma invano, perché intrappolati nel vicolo cieco della crisi e delle innumerevoli porte sbattute in faccia. Ragazzi che non vanno né avanti né indietro ma fluttuano in un mortificante limbo, con la terribile sensazione di non saper far nulla, di essere inutili. Il risultato è che in molti vengono svuotati a tal punto da questa condizione imposta da arrendersi alla disoccupazione, rinunciando a immaginare il futuro prospettatogli dai genitori quando i tempi erano migliori.

Stando al rapporto di Bankitalia sull’economia delle regioni italiane il nostro paese è il secondo in Europa per popolazione NEET, con un 24,2% di “nullafacenti”, ma gli esimi censori non tengono in debito conto che in questo particolare momento storico “cercare lavoro” è a tutti gli effetti un lavoro, full time e non retribuito tanto quanto i cosiddetti stage o tirocini formativi che l'istruzione propone agli studenti e che le aziende sfruttano come manodopera a costo zero.

Eurostat nel dossier “Methods Used for Seeking Work” ha rilevato come in Italia oltre due persone su tre in cerca di lavoro si affidano a un intermediario che può essere un parente o anche un sindacato, mentre le agenzie interinali e gli annunci sul web vengono snobbati in quanto “contatti a distanza”.

I dati riguardano il secondo trimestre del 2011 ma evidentemente non sono aggiornati. Basta andare in qualsiasi agenzia di collocamento, privata o pubblica che sia, per rendersene conto. Fino a poco tempo fa queste, soprattutto quelle private, scontavano la fama di essere fabbriche di precari malpagati con contratti al limite della legalità ed erano frequentate per lo più da immigrati o studenti alla ricerca del lavoretto per pagarsi i vizi: il 18% della popolazione secondo Eurostat.

Ora invece a compilare moduli e a consegnare curricula ci sono distinte signore, giovani italianissimi e soprattutto c'è un affollamento tale che spesso sulla porta compaiono cartelli in cui ci si scusa per il disagio ma “la consegna di cv è momentaneamente sospesa per eccesso di candidature e conseguente impossibilità di gestione”.

Delle due l'una: o le agenzie hanno degli archivi veramente striminziti oppure le persone non sanno davvero più a che santo votarsi pur di lavorare. Sempre secondo Eurostat la seconda via scelta per trovare un'occupazione consiste nel chiedere direttamente al datore di lavoro, stando alle tabelle del sondaggio oltre sei persone su dieci in cerca di occupazione si rivolge al principale.

Dato il “nanismo imprenditoriale” italiano, è normale che da Bruxelles considerino molto più semplice arrivare direttamente al capo, ma anche in questo caso la crisi, e soprattutto le cosiddette “manovre a contrasto”, hanno imposto le loro condizioni e per quanto sia facile presentarsi al datore di lavoro il passo successivo, ovvero farsi assumere in un qualche modo, è reso quasi impossibile.

Eppure l’eterogeneo popolo dei NEET costituisce un'immensa forza lavoro sprecata che, in congiunture economiche come quelle in cui sta affondando l’Italia, sarebbe fondamentale per uscire dalla crisi, ma si preferisce abbandonare questa forza a se stessa o peggio ancora la si convince, come provano a fare Ichino e Boeri, che la colpa sia di quelli che il lavoro già ce l'hanno e non vogliono rinunciare al tanto discusso articolo 18 che in realtà i lavoratori li tutela tutti, sia quelli di oggi che quelli che verranno.

Una gioventù castrata, disarmata e imbelle di fronte al sovvertimento di quella normalità generazionale che vorrebbe i figli vivere meglio dei loro padri. “Io sto bene, io sto male, io non so come stare” cantava nell'85 Ferretti. Sempre attuale.

 

di Cinzia Frassi

Si chiama Max Schrems l'artefice di una polemica affascinante che mette di nuovo al centro la questione della privacy e del tanto osannato mondo di Facebook. Affascinante perché mossa da uno studente e da un gruppo di suoi amici e anche per il fatto di essergli costata zero euro, che di questi tempi non è cosa da poco. Lo studente austriaco di 24 anni un bel giorno si è messo davanti al suo computer. Qualcosa doveva averlo insospettito, o forse semplicemente era pura curiosità di uno dei tanti smanettoni internauti del nostro tempo.

Così il ragazzo riesce a rastrellare una lista nutritissima e precisa di informazioni che lo riguardano ma, attenzione, si tratta anche di informazioni che lui stesso aveva eliminato dal suo profilo. Il giochetto funziona così: s’immagazzinano informazioni su un profilo e si mettono da parte. Perché possono tornare utili. Lo studente non ha, come si dice, scoperto l’acqua calda ma ha avuto l’intuizione di rivolgersi all’autorità competente europea, quella irlandese appunto, e di averlo fatto con ben 22 denuncie circostanziate; tutte riguardanti la gestione della privacy e della mancata minimizzazione delle informazioni nei grandi server di Facebook.

Grazie alla curiosità di Schrems, che si è rivolto all'Irish Data Protection Commissioner sottoponendo loro le sue perplessità riguardo alla violazione della privacy che aveva così subito, Facebook Ireland (con sede a Dublino) è stata sottoposta ad un inchiesta dalla quale è scaturito che la grande F ha non solo raccolto dati senza autorizzazione, ma ha escogitato un'altra "finezza": incrocia dati, indirizzi mail, localizzazioni, informazioni sensibili, importando dati anche dai servizi di instant messaging e tutto ciò che è possibile incrociare e ne ricava profili di persone che mai hanno messo piede nel vampiresco social network. Quindi Mr. Facebook mette da parte proprio tutto e non si “dimentica” più di nulla (nemmeno dei profili cancellati) e lo fa senza nessuna autorizzazione da parte dell'utente, semplicemente perché non esiste. La finezza si chiama profili ombra.

L'inchiesta scaturita grazie allo studente austriaco e voluta dal commissario irlandese intanto si è conclusa con l'obbligo di apportare modifiche alla policy per il trattamento dei dati dei cittadini europei al fine di garantire trasparenza e controllo. Inoltre, Facebook dovrà eliminare tutte le informazioni legate ai profili ombra e rivedere anche le modalità di controllo del riconoscimento automatico dei visi. Se la grande F apporterà tali modifiche eviterà i 100mila euro di sanzione pecuniaria fissata dalle autorità irlandesi. Saranno una cifra da capogiro per il social network più popolare del mondo? Stiamo parlando di un network che conta più di 700 milioni di utenti nel mondo.

La devastante portata di un giochetto, che chiamiamo social network, dalla banalità altrettanto devastante e, anche per questo, del suo incommensurabile successo, la dicono lunga circa il significato sostanziale che ha acquisito la comunicazione di massa via web e il suo sfruttamento. La dicono lunga anche sulla mancanza di sensibilità degli internauti circa la loro privacy. Siamo così gelosi di altre informazioni che ci riguardano e così poco sensibili per tutto ciò che il web e il social network succhia dalle nostre vite. In casa nostra siamo quasi maniacali, dalle tende all'impianto di allarme, affinché nessuno, nemmeno una mosca, possa entrare senza il nostro permesso. In rete è tutta un’altra storia.

E' vero anche che potremmo farci ben poco e che quel poco che potremmo e volessimo fare va a scapito della nostra serenità psicologica. Lo ha ben evidenziato il Max Schrems anche attraverso il sito che ha creato ad hoc http://europe-v-facebook.org/. Proprio in queste pagine si trovano ben chiariti alcuni punti fondamentali, tra cui questo: “Facebook sostiene spesso che tutti gli utenti hanno acconsentito al trattamento dei loro dati personali. Ma in realtà gli utenti sanno che Facebook è più che altro un sistema “opt-out”: se non cambi tutte le impostazioni preimpostate della privacy, la maggior parte dei dati privati sarà visibile senza restrizioni. Gli utenti che non sono d'accordo con questa politica di condotta devono lottare con innumerevoli pulsanti e impostazioni. Il più delle volte questo significa che più un utente vuole privacy, più saranno necessari click e maggior attenzione per ogni dettaglio. Gli utenti più anziani o senza esperienza potrebbero non essere in grado di farlo. E intanto vengono attivate automaticamente nuove funzionalità senza informare gli utenti nel modo appropriato. Anche in questo caso la legge europea sulla privacy è molto chiara: l'utente deve dare il consenso in modo inequivocabile a ogni utilizzo dei propri dati, dopo esser stato adeguatamente informato sulla forma d'uso specifica”.

Ma non sarà proprio questo il trucco? Per ogni virgola apparentemente insignificante, un minuscolo consenso. Uno, dieci, cento e mille e ti ritrovi a scervellarti per ore ed ore per flaggare questo o quello e alla fine lasci perdere. Meglio correre a vedere il proprio profilo e le ultime importanti news pubblicate dagli “amici”. Anche a costo della nostra privacy.

di Rosa Ana De Santis

Mentre ancora si discute di ius soli e di riconoscimento della cittadinanza a chi nasce nel nostro paese, di diritto di voto per chi lavora in Italia, del marchio di sangue e di altre fesserie razziste a metà tra il folclore e il nazionalismo spinto, gli stranieri sono già italiani per le casse dello Stato. Una bella mossa, ipocritamente taciuta, di chi ha recuperato dalla soffitta l’inno  dell’Italia agli italiani.

I migranti, infatti, dati della Fondazione Leone Moressa alla mano, rappresentano il 6,8% dei contribuenti e da loro arriva il 4,1% del gettito complessivo. Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia le regioni in cui il peso delle contribuzioni degli stranieri su quelle totali all’IRPEF è più consistente. Oltre 2,1 milioni gli stranieri contribuenti del nostro Paese. Gli stranieri di Lazio e Lombardia sono quelli che versano di più, rispetto a tutte le altre regioni.

E’ chiaro che il confronto con i contributi dei lavoratori italiani segna un forte divario di gettito, che aumenta soprattutto nelle aree del meridione, ma che è dovuto ai redditi minori guadagnati dagli immigrati e alle conseguenti maggiori detrazioni di cui beneficiano in virtù di questo. Pagano l’IRPEF il 64,9% degli stranieri contro il 75,5% degli italiani.

Nelle aree del Nord, dove il lavoro degli stranieri, è più presente e diffuso, la situazione cambia molto e la differenza diminuisce. Peraltro se si riducesse la grande quota di lavoro nero, utilizzato per far guadagnare di più i datori di lavoro italiani, il contributo degli stranieri alla finanza pubblica crescerebbe di molto.

Basta pensare che il 90% del lavoro agricolo nelle regioni del Sud, Campania in testa, è in nero. Schiavi e caporali i protagonisti di una spietata catena di sfruttamento che arriva a 25 euro per più di dieci ore di lavoro, fino a violenza vera e propria: percosse, terrore e razionamento dell’acqua.

In qualche misura l’integrazione e l’abbattimento dei pregiudizi può venire anche dall’elementare constatazione di come il lavoro degli stranieri vada al paese Italia e ai servizi pubblici. Cade, in un colpo solo, il mito dell’usurpazione, dell’invasione, dello sfruttamento del paese Italia senza nulla in cambio.

Se questo è vero, vale solo per tutte le volte in cui gli stranieri lavorano nell’illegalità, diventando carne da macello e veri e propri schiavi per volontà di quegli italiani che preferiscono evadere il fisco, contando sulla penuria di controlli seri.

In un clima culturale che utilizza miti ideologici a buon mercato, spesso da tutte le parti, si deve forse ritornare ai numeri: quelli del lavoro e di certi lavori, quelli dei figli che gli italiani non fanno più, quelli delle tasse dove la maestria italiana dell’evasione, la vera causa delle disuguaglianze sociali interne al Paese, non ha bisogno di utilizzare il capro espiatorio degli stranieri per spiegare tutto quello che c’è da spiegare. L’Italia dei poveri, questa si, che è tutta degli italiani.

 

di Mario Braconi

Tutto è cominciato il 18 aprile 2009, a margine di un evento tenutosi a Goteborg, in Svezia, cui hanno preso parte le due fazioni del cosiddetto partito pirata, il partito della Sinistra e l’ala del sindacato laburista svedese che si occupa d’istruzione e cultura. In quell’occasione, Erik Josefsson, attivista svedese per le libertà digitali, chiese agli altri partecipanti di dare il loro contributo alla lotta contro una serie di leggi sulla sorveglianza online già approvate o progettate da singoli governi o dal Parlamento Europeo.

I progetti di legge liberticidi denunciati da Josefsson, oltre alla legge svedese conosciuta come FRA (transfrontaliera), che consente alla polizia nazionale di sottoporre a controllo tutto il traffico telefonico o internet che attraversa i confini svedesi senza garanzie per i cittadini sorvegliati, erano la Direttiva comunitaria sulla conservazione dei dati di traffico, e il cosiddetto Telecoms Package, che prevedeva la possibilità di tagliare la connettività internet a chi fosse stato sorpreso più di una volta a utilizzare illegalmente contenuti coperti da copyright.

Secondo la ricostruzione effettuata dall’articolo pubblicato sul sito internet di Forbes del 27 dicembre, qualcuno di questi esuberanti giovani, a forza di smanettare sui siti ufficiali delle organizzazioni politiche europee, riuscì a mettere le mani sui numeri di telefono di ogni singolo parlamentare europeo, e a convincere gli administrator del sito di Pirate Bay a piazzare l’elenco in home page.

Grazie al bombardamento di telefonate e messaggi, i telefoni di tutti i parlamentari che si stavano dando da fare attorno all’assurdo progetto di legge sono rimasti irraggiungibili per giorni, finché esso è stato accantonata. Successo. E anche battesimo del fuoco di Telecomix, che da commissione di un oscuro congresso di hacker fricchettoni, da quel momento diventa un “cluster telecomunista di bot [programmi che ripetono le stesse operazioni all’infinito] e di persone che amano internet, che si sforza di proteggere e migliorare la Rete e di difendere il libero flusso dei dati. Più che un gruppo, potete definirci un accidente [...] un organismo simile ad un sifonoforo, che trasmette il suo genoma tramite memi [l’equivalente dei geni nel mondo della cultura] ed imitazione più che con leggi e regole.”

Per chi non fosse ferrato in biologia, ricordiamo che i sifonofori sono degli invertebrati marini apparentemente simili a grandi meduse, dalle quali si distinguono perché, a differenza di queste ultime, ognuno di essi non è un individuo ma una colonia di zoidi altamente organizzati. Come i sifonofori, sembra di capire, i Telecomix sono singoli e allo stesso tempo membri di un’entità organizzata, che si muove come fosse un sol uomo (o donna che sia).  E come i sifonofori, i Telecomix sono dotati di lunghi e velenosi tentacoli.

Coerentemente alla vocazione politica che li ha contraddistinti fin dall’inizio (a differenza di Anonymous che, almeno inizialmente, era un divertissement da nerd che hanno in odio Scientology) i Telecomix hanno cercato di dare una mano alle popolazioni civili vittima di brutali repressioni da parte della dittatura egiziana e, più recentemente, anche in Siria. Quando lo scorso gennaio, gli sgherri di Mubarak oscurarono completamente la Rete in Egitto, i Telecomix, accordandosi con il provider French Data Network (pare piuttosto hacker-friendly) ha messo a disposizione delle modem bank per consentire connessioni gratuite dial-up agli egiziani. Gli attivisti si occuparono contestualmente di portare a conoscenza della popolazione i numeri da comporre per connettersi gratuitamente e bypassando la censura, faxandoli a tutti gli uffici pubblici, le università e caffè di cui sono riusciti a trovare le coordinate.

Telecomix ha dato una mano anche in Siria: utilizzando software specifici di analisi della rete come NMAP (che sta per Network Mapping), gli “agenti” di Telecomix hanno individuato 700.000 collegamenti in Siria da passare al setaccio alla ricerca di una possibile falla. Con un efficace metodo di crowdsourcing, ovvero di divisione del lavoro tra “agenti” tedeschi francesi e nordamericani, gli hacker hanno preso il controllo di una serie network switch, rubato password, spiato dalle webcam le strade e perfino le scrivanie dei capi della repressione di Stato, fino a “pizzicare” 5.000 router domestici senza protezione.

A metà agosto, quindi, chiunque si è collegato alla Rete da una delle 5.000 postazioni hackerate, al posto della home page ha visto una pagina bianca con un curioso simbolo (una omega nel quale è inscritta una stella, sopra un triangolo circondato da fulmini) contenente il seguente messaggio: “questa temporanea interruzione del servizio internet è deliberata. Vi preghiamo di leggere attentamente e di diffondere il seguente messaggio: il vostro traffico internet è monitorato.” Seguiva un manuale che spiegava agli utenti come dotarsi di software gratuito di criptaggio (Tor o TrueCrypt) al fine di eludere sorveglianza e/o la censura di stato.

Dalla sortita contro il regime siriano Telecomix ha portato a casa un bottino molto interessante: un database di 54 GB di file di log utilizzati dagli sbirri siriani, che è stato reso noto ad un convegno di blogger arabi lo scorso ottobre. Anche se gli IP delle persone monitorate dal regime erano state sostituiti con uno 0.0.0.0, secondo alcuni specialisti di Rete, tra cui il mitico Jacob Applebaum, la pubblicazione dei dati è stata comunque un azzardo in quanto, tra i dati resi pubblici, potevano comunque figurare i nomi delle persone oggetto di sorveglianza poliziesca.

Ma la scoperta più interessante è quella effettuata da un ex dipendente a progetto del Pentagono, un americano di Washington attualmente in forza tra le file di Telecomix. Mentre pasticciava tra i vari server siriani, Punkbob (questo il suo nome in codice) si è imbattuto in un server FTP pieno di log identici a quelli che al Pentagono venivano prodotti da un software impiegato per intercettare, filtrare e registrare il comportamento online dei dipendenti. Non c’è da meravigliarsi, dal momento che gli uomini del regime siriano addetti alla sorveglianza online dei cittadini riottosi utilizzavano un programma realizzato da un’azienda americana, la Blue Coat Systems, di Sunnyvale, California. Il tutto, ovviamente, a dispetto dell’embargo.

Dopo la pubblicazione dei 54 GB di log, la Blue Coat System ha fatto sempre più fatica a mantenersi solidamente sulla sua posizione ufficiale, secondo cui “è vietata per policy aziendale la vendita dei nostri prodotti in paesi sotto embargo USA”; nessun suo rappresentante ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti di Forbes e di Bloomberg, sostenendo che sull’incidente è stata aperta un’inchiesta interna ed una del Dipartimento del Commercio Estero USA.

In effetti, l’embargo viene agilmente dribblato grazie alle triangolazioni: una gustosa storia pubblicata da Bloomberg il 23 dicembre racconta come il prodotto di spionaggio su internet NetEnforcer, prodotto in Israele, sia finito, tramite la mediazione di un “distributore” danese, addirittura in Iran (sembra tra l’altro che le bolle di spedizione in Iran fossero a disposizione del venditore israeliano, qualora si fosse preso il disturbo di esigerle…). Tuttavia, l’ignoranza del venditore sul destino finale di un prodotto informatico oggi è una scusa debole.

Come ricorda Peter Fein un Telecomix di stanza a Chicago, se la Blue Coat avesse solo controllato gli indirizzi internet quando si collegava con le sue macchine, si sarebbe resa conto che i suoi gioiellini erano usati da brutali assassini di stato. Come sostiene Brett Solomon, cofondatore e direttore esecutivo della ONG Access, “la tecnologia può essere usata come un’arma, e dovrebbe essere trattata con la stessa attenzione e venduta con la medesima diligenza”.


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