di Ilvio Pannullo

La sbornia di Parma, dalle 17.15 di lunedì 21 maggio 2012 la Stalingrado grillina d’Italia, non accenna a smettere. Si è detto e scritto tanto, tantissimo, forse addirittura troppo, sul Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, ma quello che è certo riguarda soltanto il passato: il futuro è tutto da scrivere ed è già in cammino. Il successo elettorale, lontano dall’essere inaspettato e imprevedibile, ha galvanizzato i militanti, il popolo delle rete e tutti coloro che sperano in un cambiamento, in una nuova prospettiva, in futuro che sia migliore del tragico presente.

A chi osserva, a quanti apprezzano l’effetto ma mai voterebbero per il vate genovese, perché restii a concedere il proprio favore a chi urla da un palco, negandosi al tempo stesso ad ogni democratico confronto, non resta che sperare nell’onda d’urto, nell’effetto a catena che il Movimento 5 Stelle ha inesorabilmente innescato.

Il neo eletto sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, ha saputo vincere ed esultare, accendendo gli animi e la speranza. «É l’alba della Terza Repubblica», dice in versione Pifferaio di Hamelin, inseguito dalla stampa di mezzo globo e accolto ovunque dagli osanna dei suoi ragazzi. «É la svolta», gli fa eco Giovanni Favia, proconsole in Regione del Movimento. Adesso, però, viene il bello. O il brutto, dipendendo il giudizio finale da cosa concretamente verrà fatto.

Il partito anti-partito deve infatti fare subito i conti con il mostruoso debito del Comune, che alcune voci accreditano essere pari a 600 milioni di euro. A ciò si aggiunga il profondo rosso del Teatro Regio, stimato dai 7 ai 12 milioni di euro, e la clausola penale, pari a 180 milioni di euro, prevista nel contratto stipulato tra il Comune di Parma e la Iren Emilia s.p.a. e che andrà pagata, per cestinare quell’inceneritore tanto osteggiato in campagna elettorale. Problemi enormi per un tecnico informatico, eletto sindaco di una città che conta appena 200.000 anime.

Dal giorno della vittoria elettorale il titolo della società quotata “Iren Emilia”, con sede legale e direzione centrale a Reggio Emilia, non fa che andare giù: a preoccuparsi, oltre agli azionisti disperati, è l’intero settore dell’economia tradizionale. Grillo fa paura e a fare ancora più paura sono le idee veicolate dal Movimento di cui è il portavoce: democrazia diretta, controllo in tempo reale della corretta esecuzione del mandato elettorale, selezione meritocratica dei candidati sulla base delle esperienze e dei programmi.

E qui viene il bello: i programmi. Già, perché se è vero che Grillo è il leader del Movimento 5 Stelle, per il semplice motivo che è in grado di gridare nelle piazze - e su un blog seguitissimo - quello che decine di milioni di persone andavano discutendo in rete da anni, è vero anche che non ha inventato nulla: quel che dice Grillo viene scritto su milioni di pagine internet di tutto il globo, ogni giorno.

E’ inutile riepilogare i principi e gli obiettivi del Movimento 5 Stelle, ma i giornali tradizionali mentono sapendo di mentire quando parlano di "idee di Grillo" come se fossero il parto di un comico e nulla più di questo. Sono invece il parto di milioni di teste pensanti globali che da anni riflettono sulla crisi ambientale e sulla sovranità alimentare, sulla crisi energetica e sulle energie rinnovabili, sulla crisi economica e sulla sovranità monetaria: il frutto di un pensiero diffuso e ben consolidato che Grillo ha avuto il merito di portare al grande pubblico italiano. Come un megafono.

Sbagliano i partiti e i loro organi di potere ancillari a definire, più o meno direttamente, il genovese più famoso d’Italia come una testa di... In verità è una testa d’ariete, un Ulisse dei tempi moderni e il Movimento 5 Stelle una sorta di cavallo di Troia. Ciò che deve essere oggetto di discussione sono “i greci” al suo interno: i programmi, le idee di cui il Movimento si vuole fare portavoce e tra queste ve n’è una assai interessante.

Si è detto della situazione debitoria in cui versa il Comune di Parma. Un problema comune all’Italia, alla Grecia, all’intero ClubMed e - perché no? - all’intera area d’influenza angloamericana. In un momento di crisi, dove il sistema bancario, per rispondere ai criteri di capitalizzazione imposti dall’accordo Basilea 3, si permette di incamerare circa 1000 miliardi di euro emessi dalla Banca Centrale Europea al tasso dell’1%, per poi reinvestirli in titoli di Stato resi appetibili da rendimenti oscillanti tra il 5 e il 6%, il problema della moneta circolante è un problema da risolvere urgentemente.

Già, perché la moneta sta all’economia come il sangue sta all’organismo: è semplicemente essenziale. Se manca, l’organismo muore. La moneta può essere, però, esattamente come il sangue, buona o cattiva. Nel primo caso l’organismo sarà sano e vigoroso; nel secondo, per non essendo morto, sarà ciclicamente colpito da malanni più o meno gravi. Esattamente quello che sta accadendo alla nostra Europa.

L’idea, anche questa, non è nuova, ma per la prima volta potrebbe avere un’applicazione su larga scala: Parma potrebbe dotarsi di una propria «moneta». Ovviamente si tratta di un’imprecisione, di una semplificazione utile al giornalista per agevolare la comprensione e la diffusione dell’idea, ma invisa a ogni buon giurista. Dire “moneta locale”, infatti, significa dire falso nummario. L’idea di una moneta locale alternativa all’Euro è affascinante, ma perfeziona l’elemento tipico di un reato penale.

Chiunque legga gli articoli dal 453 al 466 del codice penale potrà infatti ben capire il perché nessun pubblico ufficiale, neanche il più illuminato, possa permettersi il lusso di parlare di moneta locale, ma solo di buoni sconto da spendersi tra persone fisiche e giuridiche liberamente affiliate ad un'associazione privata. E' un problema più giuridico che economico, dunque molto noioso è poco interessante, ma se si pensa che è stato istituito un nucleo speciale in seno all'Arma dei Carabinieri - il Comando carabinieri antifalsificazione monetaria - gerarchicamente dipendente dalla Banca d'Italia, al di là della noia si capisce bene che un problema c'è.

Utilizzando una prospettiva economica, da intendersi qui con la “e” minuscola, quella della spesa al mercato (e non al super-mercato), delle bollette, delle piccole spese e delle piccole necessità quotidiane, oggi così difficili da soddisfare, è forse più utile guardare alla sostanza dei rapporti economici, che alla definizione giuridica del mezzo di scambio utilizzato tra i vari attori dell’economia locale. La notizia circolata negli ultimi giorni, infatti, riguarda i contatti (anzi le email, per usare il nuovo codice parmigian-grillista 2.0) tra lo staff di Pizzarotti e due economisti eretici dell’Università Bocconi: Massimo Amato, professore di storia economica, e Luca Fantacci, docente di storia, istituzioni e crisi del sistema finanziario.

La coppia di quarantenni ha messo a punto un progetto di valuta complementare all’euro. Secondo il Movimento sarebbe un sistema di credito cooperativo tra aziende per rafforzare il tessuto locale. In pratica un modo per mettere in scacco l’usurocrazia europea e lo strozzinaggio in atto ai danni dei “maiali” europei.

Questo sistema lungi dall’essere una chimera è già in vigore in molti paesi e, in alcuni di essi, su tutti Svizzera, Germania e Giappone, con risultati straordinari. In tutto il mondo si contano un totale di circa ottomila monete complementari, ma nessuno ne parla. Le valute alternative altro non sono che strumenti di scambio con cui è possibile scambiare beni e servizi affiancando il denaro ufficiale (rispetto al quale sono appunto complementari).

Solitamente le valute complementari non hanno corso legale e sono accettate su base volontaria: ciò contribuisce al loro aspetto identitario, cioè al loro identificare la comunità all'interno della quale sono usate alla stregua dei vantaggi di una tessera associativa. Il tutto ha il risultato di aumentare il potere economico dei soggetti che aderiscono al circuito, decidendo di accettare una parte del prezzo nella “moneta locale” che poi potranno a loro volta spendere presso gli altri soggetti -persone fisiche, professionisti, negozi e società - che partecipano al progetto.

Un sistema di valuta complementare è infatti accettato ed utilizzato all’interno di un gruppo, di una rete, di una comunità per facilitare e favorire lo scambio di merci, la circolazione di beni e servizi all’interno di quella rete sociale, rispetto al resto della comunità, in modo del tutto identico a quanto accade con la moneta avente corso forzoso.

Va da sé che se ad aderire al progetto di una “moneta locale” o, per facilitare i neo eletti sindaci a 5 stelle, a costituire un’associazione di diritto privato cui liberamente associarsi, è un Comune di 200.000 anime, l’effetto che si ottiene è semplicemente esponenziale. Basterebbe per il Comune limitarsi ad accettare una piccola parte di una qualsiasi tassa comunale - mettiamo, a titolo esemplificativo, il 10% della TAssa sui Rifiuti Solidi Urbani - per incentivare tutti i cittadini, tutti i negozianti e qualsivoglia operatore economico tenuto per legge al pagamento della T.A.R.S.U. ad iscriversi all’associazione di diritto privato di cui sopra. Il risultato che si otterrebbe sarebbe pari ad un aumento del potere di acquisto di ogni iscritto all’associazione, in una misura variabile a seconda degli sconti accettati dai singoli partecipanti.

Per comprendere le ragioni che danno vita ad un sistema di valuta complementare, è utile rifarsi al significato antico del denaro: un accordo all’interno di una comunità che accetta di utilizzare "qualcosa" come bene di scambio riconosciuto. Le valute complementari si collocano, dunque, come “sistemi di accordo” all’interno di una comunità e promuovono la pianificazione a lungo termine, stimolando i partecipanti al circuito ad investire in attività produttive connesse, piuttosto che nell’accumulo di denaro. Esse incoraggiano gli scambi e la cooperazione con la propria rete di aderenze, attraverso la circolazione del bene di scambio a cui, solitamente, viene attribuito un valore etico ed ideale. Questo perché l’economia può essere etica solo se lo è anche il mezzo. In Italia un esempio già c’è: lo SCEC, acronimo di “Solidarietà ChE Cammina”. Un mondo diverso è dunque possibile. A Parma, ma anche altrove. Basta crederci.

 

di Andrea Santoro

Trovare parcheggio a Roma è una delle attività più odiate dai suoi abitanti, che spesso si trovano a preferire il rischio di una multa piuttosto che girare intorno alla destinazione come avvoltoi affamati intorno alla preda. Le multe fioccano, si parte da 39 euro per sosta vietata. In tanti si sono visti recapitare a casa la famigerata busta verde contenente il bollettino per poi dover andare alle poste e pagare la somma. A volte però l'iter delle multe è un po' diverso, può succedere di aprire la cassetta della posta e trovarci dentro sempre lei, la busta verde, ma con una piccola differenza rispetto al solito: la somma questa volta è una cifra a tre zeri.

Sono migliaia i casi in Italia, assurdi e tristemente noti, come il caso di un pensionato che si è visto pignorare, ipotecare e svendere all'asta la propria casa perché, essendo malato di alzheimer, aveva scordato di pagare una multa di 63 euro. Volendo essere precisi lo sfortunato non ha nemmeno potuto seguire queste tre fasi di deprivazione dei propri beni, trovandosi poi a ricomprare ad un prezzo maggiorato la propria abitazione dai tre vincitori dell'asta: l'agenzia preposta al recupero della sanzione ha notificato il tutto al pensionato solo momento in cui l'asta si è conclusa. Ora la questione è appannaggio del tribunale di Genova, ma le vicende simili si moltiplicano di giorno in giorno e purtroppo solo una minoranza sono imputabili alle cosiddette 'cartelle pazze', quelle cartelle cioè che contengono errori palesi o addirittura inviate per errore.

Chi si occupa del recupero imposte e crediti in Italia e perché l'odio nei confronti dell'esattore, figura storicamente invisa, si è tramutato negli ultimi mesi in una disperata lotta per difendersi dal leviatano, fino a sfociare nella violenza? La legge 248/2005 ha sollevato gli enti privati dall'onere della riscossione, delegandolo a Riscossioni SPA poi rinominata nel 2007 Equitalia SPA, con non poca ironia. Questa società per azioni offre i suoi servizi su tutto il territorio nazionale ad esclusione della Sicilia ed è costituita per il 49% dall'INPS e per il restante 51% dall'agenzia delle entrate.

Dal gennaio 2011 si susseguono le raccolte firme e le azioni, più o meno dimostrative, nei confronti di questo ente accusandolo di usura ed invocandone la soppressione, ma quali sono i limiti entro cui si può muovere la longa manus dell'agenzia delle entrate e quali le illiceità perpetrate?

La critica più comunemente mossa ad Equitalia è appunto quella di applicare tassi simili a quelli dell'usura: una multa non pagata di 200 euro può lievitare in soli quattro anni fino a raggiungere la cifra di oltre 2200 euro, come capitato a molti nella capitale, il cui comune nel 2007 ha passato le cartelle all'agenzia che ha impiegato circa quattro anni per notificarle: ora i cittadini si trovano schiacciati tra il muro di gomma del comune, che ha perso la competenza su quelle cartelle e l'agenzia di riscossione, che sostiene di doverle incassare senza poterne diminuire l'importo.

E' senz'altro vero, però, che i dipendenti di questa società sono schiacciati dagli ingranaggi ben oliati della macchina di riscossione debiti che automatizza il processo di ipoteca, pignoramento e riscossione dalla data della notifica, senza che il singolo possa modificare alcunché e anzi, nel caso il dipendente voglia dimenticare una pratica perché mosso da sentimenti umani, incapperebbe in sanzioni per negligenza ed abuso di ufficio, dal momento che la l248 stabilisce per legge l'obbligo della riscossione.

In questo contesto non si può però scordare il servizio apparso un anno fa su Report(Rai3) dove veniva regolarmente dimostrata la propensione dell'agenzia ad essere meno severa con chi dispone di redditi molto alti o di discreta fama, portando tra gli altri l'esempio del favoritismo nei confronti un piccolo politico del nord Italia impegnato alla lotta ai fannulloni: se è quindi inoppugnabile la scarsa o nulla responsabilità dei dipendenti allo sportello è altrettanto incontestabile una certa torbidezza nel cursus che precede la notifica delle cartelle.

Avere come obiettivo Equitalia è in qualche modo fuorviante, odiarne i dipendenti, specie quelli nei settori più bassi della piramide, si traduce troppo spesso in una guerra tra poveri. I grandi spazi di manovra offerti al rullo compressore degli esattori sono prevalentemente frutto della legge che li delimita; considerare Equitalia un problema a compartimento stagno senza interconnessioni col governo e la pubblica amministrazione, è come voler processare il boia.

È proprio la legge a consentire all'agenzia la richiesta di interessi multipli sulla riscossione, sua principale fonte di sostentamento. Questi sono il diritto all’aggio (9% ), una percentuale sull’interesse di mora (0,615% annuo), un diritto alle spese di esecuzione ed alle spese di notifica, un diritto al rimborso delle quote inesigibili ed un altro 9% sugli interessi di mora.

Il vero punto di forza però sta nel poter notificare la cartella quando preferiscono: pensate a cosa possono significare questi interessi in 10 anni. A questo si aggiunga il moltiplicarsi di cartelle pazze anche solo in parte, con voci incomprensibili ai più e maggiorazioni assurde degli interessi. Tutto questo nell'ipotesi che abbiate i soldi per pagare l'agenzia delle entrate.

Lo scenario per i debitori insolventi diviene ancora più assurdo: un imprenditore insolvente, con un debito superiore agli 8000 euro, verrà colpito dalle cosiddette ganasce amministrative: i mezzi di produzione di sua proprietà verranno confiscati, messi all'asta, venduti. Il dubbio è spontaneo: come si può produrre senza i mezzi di produzione? Da dove proviene il plusvalore senza macchinari, con cosa dovrebbero essere pagati i lavoratori?

E' un cane che si morde la coda. Non è vessazione togliere a produttori e lavoratori la loro dignità, la loro libertà di produrre, in nome di un'esazione che dovrebbe ridare fiato ad una macchina statale ormai stanca, che si rispecchia in una società che non le da più alcuna fiducia, visti i continui scandali, corruzioni, intrighi di basso impero? Non lo è nemmeno ipotecare la casa altrui, gli affetti, il futuro? Quale può essere il sentimento nei confronti della comunità, che poi è lo Stato, di chi da questa si vede depredato, ingannato, ferito a morte?

Può sembrare strano ma la trasparenza è un concetto diverso da quello di invisibilità e la sua assenza sta diventando ingombrante: una amministrazione pubblica più vicina al singolo, meno disumanizzata, può rafforzare il contratto sociale attraverso la ripartizione effettiva delle risorse sul territorio, può riavvicinare il singolo alla comunità. Tutto ciò non può prescindere da una riforma costituzionale che vada ad incidere seriamente sui costi della politica e della pubblica amministrazione, non può prescindere dalla modifica di un assetto rappresentativo che giorno dopo giorno allontana i rappresentati dai rappresentanti. Equitalia avrebbe potuto essere una fusione che ricordi il rinnovamento cui tendere tutti insieme, non la misura della distanza tra il popolo e il suo palazzo.

di Rosa Ana De Santis

L’Istat, nella Giornata Mondiale contro l’omofobia, ha presentato alla Camera dei Deputati i propri numeri: sono circa un milione gli italiani che si dichiarano omosessuali o bisessuali. Uomini per lo più del nord e del Centro Italia. Un numero certamente approssimato per difetto, dal momento che tanti omosessuali non si dichiarano, visto il clima socioculturale imperante.

La famiglia è il luogo in cui è più difficile fare outing e il sistema normativo italiano, al confronto di molti altri Paesi europei, mostra tutte le sue anacronistiche lacune sull’argomento. Eppure il 43,9% degli italiani si dice d’accordo al matrimonio gay, e il 62% a una qualche altra forma di regolamentazione. E’ invece sull’adozione dei figli che gli italiani in maggioranza dicono di no.

La mancanza di riconoscimento giuridico, unita ai sempre più diffusi episodi di discriminazione, obbliga a ragionare concretamente e subito sulla necessità di approvare una legge contro l’omofobia. Rispetto infatti alla discriminazione normativa che subiscono tutte le coppie di fatto nel nostro Paese, gli omosessuali patiscono un doppio danno nel momento in cui, in un clima che racconta frequenti episodi di penalizzazione, se non di veri e propri maltrattamenti, non vengono tutelati da una legge contro l’omofobia.

La scusa che la politica affidata alla patologia omofobica dei vari Giovanardi ha sempre addotto per rifiutare la legge, è sempre stata quella di non volere che la norma assumesse intrinsecamente un dato di merito sull’orientamento sessuale come criterio di tutela specifica. Sarebbe proprio questa architettura a generare una prima discriminazione. Si adduce, in opposizione ad una normativa antidiscriminatoria, che tutti siamo cittadini, tutti siamo persone. Ma è una concezione astratta, che vede la giurisprudenza come “neutra”.

Perché se è vero che il ragionamento è giusto sul piano squisitamente teorico, è vero anche che la legge parla ai fatti e non con se stessa. E i fatti ci dicono, come è stato nella storia per il razzismo contro i neri o l’emancipazione delle donne, che c’è a volte bisogno, anche in forma transitorie, di misure speciali quando i reati hanno un’impronta forzatamente ideologica.

E’ questo lo strumento che una società moderna ed attenta ai diritti civili si da per opporre con più forza il rigore della legge nei casi in cui essa viene violata in assenza di causa che non sia la discriminazione ideologica. E’ così, proprio per sanzionare l’odio razziale, che il razzismo è diventato un aggravante, èd è così, per contrastare la discriminazione di genere, che quasi ovunque sono nate le quote rosa.

A fronte della fotografia ISTAT l’Arcigay muove al nostro Parlamento la richiesta di lavorare con urgenza su un fronte importante, da troppo tempo disatteso. Per ora il governo, attraverso il Dipartimento delle Pari Opportunità, ha annunciato un maggior impegno di sensibilizzazione a partire dai banchi di scuola. Un’opera nobile e senz’altro necessaria che non dovrebbe escludere però quanto può esser fatto subito e dall’alto perché non si ripetano episodi di maltrattamenti gravissimi in una città come Roma e non nell’ultimo lembo isolato del paese.

Soltanto ieri, nel 2010, le Mine Vaganti di Ozpetek, un film che racconta delle resistenze ataviche e dei pregiudizi sull’omosessualità era stato accolto con grande partecipazione emotiva dagli italiani come il ritratto più fedele di un certo modo di pensare che ancora, purtroppo, non si è estinto e come la poesia più sofferta per raccontare il danno dell’ignoranza e la paura della differenza. Una legge contro l’omofobia potrebbe contribuire certamente a diminuire lo spread tra intolleranza e civiltà.

 

 

di Rosa Ana De Santis

Se ne parla sempre di più nel dibattito politico contemporaneo e la questione della cittadinanza per gli stranieri rappresenta, non soltanto nel nostro Paese, un esempio paradigmatico di come i fatti abbiano di gran lunga superato la speculazione teorica. Gli immigrati regolari si comportano infatti come cittadini a tutti gli effetti: pagano le tasse e i contributi, partecipano alla vita politica, specialmente quella locale, rappresentano una quota significativa della società civile e delle famiglie, dovuta anche alla forte tendenza di fare figli, contrariamente agli italiani.

La ricerca in questione in Italia è stata condotta dall’Ismu (iniziative e studi sulla multietnicità). Sono stati intervistati 797 immigrati che risiedono a Milano e Napoli. La ricerca è stata realizzata, oltre che dall'Ismu, anche da King Baudouin foundation, Migration policy group e ReteG2 – Seconde generazioni. L’80% degli immigrati in Italia chiede di poter accedere alle urne e votare. E’ infatti questo diritto-dovere di partecipazione politica ad esprimere sul piano simbolico e fattivo la natura del diritto di cittadinanza.

Strano, se non bizzarro, lasciare che ad esprimere il diritto di voto siano italiani che vivono fuori confine da generazioni, lontanissimi dal contesto nazionale, e che il medesimo diritto sia interdetto a chi contribuisce alla sopravvivenza del sistema Italia e ne vive e ne patisce limiti e opportunità.

La differenza infatti tra le due categorie è tutta esclusivamente legata al sangue. Italiani e non italiani. Sembrerebbe un discrimine enorme, più che valido come legittimazione, eppure un po’ di ragionamento senza coloriture nazionaliste ci aiuta a smascherarne facilmente la sostanza concettuale. E’ l’italianità ad essere legata allo status di cittadinanza e non il contrario. Non esiste infatti, tralasciando le derive pericolose che ne deriverebbero, una genitura italica pura in senso genetico-etnico. Gli italiani sono un po’ aragonesi, un po’ angioini, normanni, tedeschi. Diverse le loro storie, le origini etnico-geografiche, il sangue così tanto al centro delle rivendicazioni xenofobe.

Portogallo ed Italia sono i paesi in cui è più difficile trovare lavoro, Sempre in Italia il requisito dei documenti e l’iter burocratico rappresentano un ostacolo fortissimo al ricongiungimento familiare. Eppure il nostro paese vanta una posizione record nel coinvolgimento concreto degli stranieri alla vita civica.

Rimangono le difficoltà a parlare la lingua per mancanza di tempo e difficoltà ad accedere a corsi sostenibili, quasi tutti affidati alle forze del volontariato. Rispetto all’Europa nel nostro paese, nelle città campione di Milano e Napoli, gli stranieri dichiarano di sentirsi poco valorizzati rispetto ai titoli di studio, in controtendenza quindi con altri paesi. Situazione questa che tocca, peraltro, anche i cittadini italiani.

Da più  parti politiche arriva l’urgenza di normare la cittadinanza “di fatto” e di sistematizzarla in diritti riconosciuti, dal momento che i doveri ci sono già. Siamo in un vuoto giuridico tale per cui mentre un evasore fiscale può accedere ai servizi pubblici, nella totale impunità, un lavoratore regolare immigrato che paga tasse e servizi pubblici non può esprimere voto e partecipazione politica mentre aiuta tutto il Paese a pagare le pensioni, tenere aperte scuole e ospedali, mettere benzina al trasporto pubblico.

Il processo è già avviato, pur nella rimozione ufficiale della questione. Ad averlo inaugurato è stato proprio quel mito capitalista della globalizzazione che tanto osannato per l’opportunità dei guadagni urbi et orbi, sembra piacere sempre meno all’Occidente quando ad essere globalizzati sono i diritti, le conoscenze, la facilità dei contatti che ne segue. La globalizzazione si è trasformato in un cavallo di Troia restituendo indietro il colonialismo atavico con tutti gli interessi.

Da tempo la cittadinanza è un esercizio di funzioni secondo la legge e non una variabile cromosomica. Non c’è discorso più convincente di una bella fotografia sugli Stati Uniti d’America, su qualche grande metropoli europea o sulle nostre fabbriche. O ancora meglio dentro le nostre case.
 

di Rosa Ana De Santis

Le linee guida emerse nell’ultimo convegno programmatico dell’Agesci lanciano una condanna, solo in superficie edulcorata di tolleranza, sull’omosessualità. Sarebbe un problema serio avere capi scout omosessuali, non è da incoraggiare alcun “coming out” tra i ragazzi che mostrassero tendenze di questo tipo, ma piuttosto convocare con codice rosso genitori e psicologo. Perché no un esorcista, verrebbe da concludere.

Il manifesto del perfetto scout cattolico non poteva che essere in linea con la posizione ufficiale della Chiesa di Roma. Nessuno scandalo se l’educazione sessuale e l’identità di genere vedono nella funzione procreativa e quindi nell’eterosessualità l’unica legittima maniera di amarsi come Dio comanda.

Padre Francesco Compagnoni, docente di teologia morale all’Università S. Tommaso, intervenuto tra i relatori, riconosce all’omosessualità doti intrinseche di sensibilità e preziose attitudini artistiche (un ritratto che rasenta lo stereotipo più abusato), ma per quanto vada sostenuto il valore della tolleranza, questo non può restituire pari dignità morale a tutti i comportamenti.

Rimane quindi in serie B l’identità sessuale di chi non è etero ed e’ soprattutto sconsigliabile che siano omosessuali i capi scout che, per la funzione educativa e formativa che svolgono,  rappresentano un esempio a tutto tondo per i giovani lupetti. Poiché tutto il documento sgombra il campo da ogni confusione o sovrapposizione tra pedofilia e omosessualità, come giustamente è, non è ben chiaro quale sia il valore diseducativo dell’essere omosessuali se non la condizione in se stessa. Tutto cambia se il capo decide di tenere per sé la propria identità e non da mostra dei gusti sessuali. Una posizione a metà tra il comportamento ipocrita e l’ignoranza di credere che l’omosessuale sia una maschera folcloristica di vezzi femminili.

Tolleranza non è relativismo- recita il documento finale - e l’eguale dignità è delle persone non degli atti. Il parallelo, manco a dirlo, è con i criminali. Anche loro sono figli al cospetto di Dio. L’argomento non fa che riprendere la distinzione tra peccato e peccatore e tutta la potenza della misericordia di Dio che nell’enciclica Dives in Misericordia Giovanni Paolo II descrisse pensando proprio ai flagelli morali del disperato uomo contemporaneo.

Come metterla allora con tutti coloro che pur omosessuali volessero prendere i voti? E’ sufficiente la castità ad azzerare la peccaminosità del gusto sessuale considerato “deviato e non naturale”? Quindi è l’atto e non l’identità il vero imputato di tutto il ragionamento? Quindi è l’ipocrisia l’unico antidoto morale al male morale dell’anima?

All’Agesci va riconosciuta l’audacia, comunque preferibile al vuoto dell’omertà e della rimozione, di aver messo mano dentro le maglie complesse del rapporto con i giovani in una fase delicata della loro vita fisica ed affettiva. Sorprende però che non si parta dallo scandalo più grande che la Chiesa si porta dentro.

Quello dei preti molestatori, etero o omosessuali che siano  non importa. La sciagura delle molestie, degli abusi subiti nella vita del seminario. Tutte quelle devianze che quando non sono il frutto di autentiche personalità disturbate, sembrano piuttosto l’effetto collaterale di una vita affettiva e sessuale negata.

Un dogma davvero difficile da coniugare con il teorema della morale secondo natura. Non sarà che sono più coerenti i pastori protestanti? Dogma difficile soprattutto per chi non svolge una vita di contemplazione recluso in un luogo di preghiera, ma vive nel mondo.

Scegliere di parlare di omosessualità e non di pedofilia è il primo vero errore di questo decalogo dell’Agesci che più di altre organizzazioni cattoliche si confronta con il mondo giovanile. Sembra che ci sia troppa voglia di archiviare le nefandezze che proprio i più piccoli hanno pagato duramente annacquando i veri peccati con le sottili dissertazioni sull’identità di genere e quella sessuale.

E’ così ovvio riconoscere che la libertà di essere quello che si è non può fare del male a nessuno e l’unico atto colpevole è quello con cui si fa del male a qualcuno. Il gusto sessuale non si impone come un timbro sulla personalità, se è questo il grande tormento dei professori dell’Agesci, altrimenti da genitori etero non potrebbero nascere mai figli omosessuali.

Per mutuare il ragionamento teologico al fondo di tutto il teorema antiomosessualità possiamo dire che per gli  abusi e le violenze non c’è dignità morale. E forse non c’è nemmeno  per le persone, o almeno sembra impossibile vederla  se non si hanno gli occhi di quel famoso Dio della misericordia.

 

 

 


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