di Vincenzo Maddaloni

Le previsioni più ottimistiche indicano che entro trent'anni Venezia non avrà più residenti, ma soltanto proprietari di seconda casa e turisti in visita. Ottima notizia per quanti da decenni l’hanno attesa come fosse un traguardo  irraggiungibile. Pessima, per una città che nel 1500 con 150 mila abitanti - la sua soglia massima - era per numero dei residenti la seconda in Europa, dopo Londra. E’ da allora che i veneziani cominciarono a diminuire lentamente e inesorabilmente. Beninteso, anche per le ripetute pestilenze che colpirono la Serenissima durante i secoli; tuttavia mai con la velocità degli ultimi settant’anni del ventesimo secolo.

Poiché i veneziani che erano ancora 130 mila nel secondo dopoguerra, negli anni Ottanta si sono di fatto dimezzati. Oggi a mala pena raggiungerebbero i cinquanta mila secondo alcuni dati non ufficiali. Malauguratamente non per le pestilenze, ma per una politica culturale dagli effetti ancora più nefasti che da trent’anni a questa parte mira a fare di Venezia (uso un eufemismo) un centro di attrazioni, e che  trascura il veneziano, anzi lo ha relegato nelle squallide periferie di  Marghera http://margheraonline.it/blog/sicurezza/cronaca-di-un-disastro-ambientale-annunciato/ , Mestre, Carpenedo http://it.wikipedia.org/wiki/Carpenedo . Con la medesima tempistica si è mosso il saccheggio della città che fa leva sulla selvaggia lottizzazione immobiliare che non conosce crisi perché la pressante domanda della seconda casa sulla laguna mantiene i prezzi degli appartamenti alle stelle. Inavvicinabili per le coppie giovani, sicché risulta sempre di più una città di vecchi, di pensionati, che va perdendo l’anima originaria.

E’ difficile però valutare le dimensioni del fenomeno perché i veneziani hanno per misura la rassegnazione e sono poco inclini alle manifestazioni vistose anche nell’éra berlusconiana dove tutto è permesso a cominciare dall’arroganza. Per stare al certo si potrebbe dire che a Venezia, la politica, l’economia, la cultura in prevalenza mercantile hanno contribuito a rendere la gente sempre più schiva, frustrata. Non c’è disperazione sociale, questo no, non c’è nemmeno la preoccupazione di sprofondare nella laguna, le preoccupazioni semmai sono altre. Prima di tutto la marginalità, il timore di essere tagliati definitivamente fuori da ogni decisione sul governo della città. Poi, l’invadenza “forestiera”, i nuovi cittadini (italiani e stranieri) che hanno a Venezia la seconda casa, li hanno indotti su posizioni rinunciatarie, a fare ghetto, a difendersi da un modo di vivere che, a parer loro, stravolge i valori e le tradizioni della città.

Già si sono creati - a sentir loro - fenomeni allarmanti: la divisione, per esempio, tra centro e periferia che non ci  fu mai nella millenaria storia di equilibri policentrici dei Sestieri che suddividono in sei quartieri appunto il centro storico lagunare. Una città socialmente a “pelle di leopardo”, con quartieri ricchi e quartieri poveri, simile ai grandi centri urbani della terraferma i lagunari non l’accettano, forti di una consapevolezza, freudiana se vi fa piacere, di appartenere a una città che per centinaia di anni fu capitale della cultura e della politica.

Infatti, ogni qualvolta si tocca l’argomento, il confronto col “secolo dei lumi” http://it.wikipedia.org/wiki/Illuminismo è inevitabile, è una sorta di intima e ricorrente nostalgia, percorsa da personaggi illustri come Goldoni, Canaletto, Guardi, Casanova, dalle mille e una copertine delle Gazzette - le sole nell’Europa del tempo - a non essere soggette alle censure. Erano gli ultimi sprazzi di una Repubblica libera, dove il francese, il turco, l’ebreo potevano venire e convivere liberamente purché non facessero pubblica propaganda religiosa.

Nel 1739 Charles de Brosses, scrivendo di Venezia e del suo carnevale, raccontava: «Comincia già il cinque ottobre e ce n’è un altro di quindici giorni all’Ascensione, così che qui si possono contare all’incirca sei mesi in cui chiunque, compresi i preti, compreso il nunzio apostolico e il padre guardiano dei cappuccini, non esce che in maschera. Non scherzo: è l’uniforme di ordinanza». Insomma, divertimenti e quattrini in un’incredibile festa spontanea dei ricchi e dei poveri, internazionale e paesana dove «soltanto i morti i xe veci», come annotava Mozart.

Un secolo affatto dimenticato, anzi nei discorsi dei veneziani spesso additato, anche oggi,  come un confronto naturale col quale rapportarsi, nell’intento non ultimo di scrollarsi di dosso il mito romantico della “morte a Venezia” che li perseguita; poi  le inchieste sulla città che sprofonda che li avviliscono; poi ancora le cronache sugli effetti del Mose http://www2.comune.venezia.it/mose-doc-prg/  che li inquietano; e infine gli interventi degli esperti che vogliono salvarli.

Salvarli da chi? Si tenga a mente che da quando - trent’anni fa - ci si è accorti che i messaggi della città hanno indici di ascolto estremamente ampi in tutto il pianeta, nel senso che le genti di tutto il mondo vi partecipano fisicamente con il loro tempo e i loro quattrini, il “salvataggio” dei veneziani è diventato un problema secondario. E non poteva essere diversamente poiché nell’immaginario collettivo Venezia è sempre meno l’ex capitale della Serenissima, e sempre più un centro internazionale di aggregazione pilotata; perché le architetture, gli ambienti, i percorsi dove persino il traffico merci è distinto da quello pedonale, ne fanno una città  “a misura d’uomo”, come dettava Le Corbusier, e perciò un luogo unico e straordinario.

Tutti questi elementi, amplificati a dismisura dai mass-media internazionali, hanno consolidato l’immagine di una città dove ogni cosa che si discute, si mostra, si elabora, si produce, si trasforma quasi sempre in un frastornante evento globale. Ragion per cui siccome il segno encomiastico della dimensione a “misura d’uomo” viene in ogni occasione esaltato dai media, fino a stravolgerlo, diventa sempre più ardua una valutazione equanime sul destino della città e dei suoi residenti, sull’impresa turistica a maggior rendimento al mondo, e sul mito della città “a misura d’uomo” dove - è evidente ogni giorno di più - non tutto luccica.

Infatti, a chi viene a Venezia per visitarla sembra impossibile che ci siano poco più di 50 mila abitanti nel centro storico, tanto la città è affollata durante la bella stagione, nei week-end e durante le grandi manifestazioni. Accade infatti che a Venezia ci vengano di media più  50 mila turisti al giorno, ai quali si aggiungono  i  lavoratori pendolari e gli studenti delle varie facoltà universitarie presenti in città, più o meno altri venti mila. Una moltitudine per una città così minuta.

Pertanto, siamo di fronte ad un’operazione di marketing turistico sugli effetti della quale è bene riflettere, anche se brevemente. Come spesso accade nella vita, del ruolo della città si sono accorti prima i non veneziani. E’ cresciuta prima la domanda dell’offerta, i residenti sono arrivati in ritardo. Le strutture di governo cittadine si sono adeguate a una realtà imposta dal profitto, non sono state capaci di proporre alternative valide, come per esempio fermare l’esodo dei veneziani, invece di incoraggiarlo. Risultato? Spira nella Venezia d’inverno un forte vento di abbandono. Dove il calendario si regola sul flusso delle comitive dei turisti, questo è tempo d’inizio di ferie: cominciano a chiudere i negozi, e i ristoranti ne vanno al seguito. Acqua alta quasi sempre. Il disagio come abitudine.

Speculazione selvaggia - s’è detto - mancanza di alloggi, migrazioni dei giovani: e dunque città di anziani, città di pensionati, e si vede. Ogni tanto un tiepido sole gratifica, ed eccoli tutti ritrovarsi in Piazza San Marco, nei campielli, sulle rive. Felici di rivedersi, di ciacolar, di contarsi le rughe. La domenica è un passeggio per i consueti itinerari: Mercerie, San Marco, Strada Nova, Ferrovia.

Tutti a piedi, o in barca a remi, comunque in passerella. Dopotutto a Venezia il benessere non si misura in cavalli vapore; non è pensabile che vada oltre l’abito che s’indossa quella che Proust definiva «l’arte infinitamente varia di sottolineare le distanze ». Un confronto più accessibile che favorisce quella stratificazione sociale, quel sovrapporsi di corporazioni e di fasce di reddito che impediscono lo scontro di classe, affievoliscono le tensioni. Un modo di rapportarsi per certi versi unico che non è stato coltivato, studiato, incoraggiato, diffuso, portato avanti come esempio da imitare.

De Michelis e Degan, Brunetta e Cacciari, tanto per citare i primi che arrivano in mente. Tutte le giunte che si non succedute al governo della città, ma anche della Regione da sempre hanno dimostrato una grande miopia poiché tutte le scelte sono caparbiamente improntate alla difesa del potere in perfetta sintonia con il resto della nazione. Così, negli anni, Venezia è andata penalizzando il suo volto più “orientale”, quello della cortesia e dell’ospitalità e ha valorizzato invece quello “levantino” del baratto e del guadagno. In buona sostanza anch’essa si è adeguata al nuovo tempo, quello nel quale stiamo vivendo. “Eine Katastrophe”, una catastrofe, direbbero  i miei amici  tedeschi. Che, d’abitudine, vanno subito al sodo di ogni vicenda.

 

di Rosa Ana De Santis

La sentenza di primo grado è stata ribaltata, Raffaele Sollecito potrà lasciare il carcere e Amanda Knox oltre al carcere potrà lasciare anche l’Italia. Sono stati assolti perché “il fatto non sussiste”, che sembra voler implicare come il carcere patito sino ad ora sia stata una colossale ingiustizia. Insomma: i giudici della Corte d’Assise hanno condannato senza prove, perché “il fatto non sussiste”, quindi la condanna precedente è un obbrobrio giuridico, una colossale svista. O no?

Può darsi che sia così. Può darsi che effettivamente siano innocenti gli assolti di oggi. E certamente nessuno dev’essere condannato se non in presenza di prove inoppugnabili. Ma quella della Corte D’Appello è un’assoluzione che pesa come un macigno. Pesa in primo luogo sulle spalle dei genitori di Meredith, che si vedono privare della giustizia attesa. Pesa sull’impatto sociale di un processo che oltreoceano hanno voluto trasformare in un processo mediatico, schierando la stampa statunitense in blocco nella difesa non di una ragazza innocente, ma di una ragazza americana. Che per loro, comunque, è la stessa cosa.

Una campagna condotta senza risparmiare denaro, righe e pressioni d’ogni tipo che, si è capito, hanno inciso molto più di quanto si poteva prevedere. E pesa sul piano del sistema, giacché lascia impunito un crimine pazzesco, consumatosi in un intreccio di follia e d’infamia. In tanti anni, infatti, colpevoli e moventi sono rimasti ignoti. Amanda ha già pronto il posto a bordo dell’aereo che la porterà negli Usa. Qualora la Procura dovesse ricorrere in Cassazione, il processo sarà in contumacia, giacché Amanda non ci penserà nemmeno a tornare in Italia per farsi processare.

La folla fuori dal tribunale ha gridato “vergogna”. Non perché assetato di galera, ma perché è risultato evidente come la recita degli imputati è stata l’ultima puntata del serial dell’assoluzione mediatica che ha preceduto quella giudiziaria. Non ci piacciono le facce, le espressioni e l’arroganza dei due imputati, figli di buone e danarose famiglie e tenaci nel tentare d’infangare l’unico sfigato della compagnia che, stupidamente, non potendo contare sugli onerosi avvocati di famiglia degli altri due, ha patteggiato 16 anni di carcere. Chissà come l’ha presa Rudy Guede.

Non ci piace il circo mediatico-politico del quale si sono avvalsi, e ancora meno ci piace vedere i genitori di Meredith affranti, piegati da qualcosa più grande di loro. Non significa questo che la condanna sarebbe dovuta giungere ad ogni costo, ma certo che le circostanze emerse nel dibattimento possono difficilmente essere rimosse. Significa che quest’assoluzione si deve ad un collegio di difesa molto più abile dei pubblici ministeri; un collegio di difesa che solo i ricchi e i potenti possono permettersi, perché solo essi possono sognare di dipingere i fatti con i mezzi.

Meredith è morta sola, ma non era sola. Chi era con lei mentre moriva, era sul banco degli imputati, Da ora però, testimoni impotenti o assassini feroci che siano, sono soprattutto liberi, perché “il fatto non sussiste” e, soprattutto, perché il denaro decide. Meredith ha fatto male a fidarsi prima di morire e i suoi genitori hanno fatto male a fidarsi dopo.

di Alessandro Iacuelli

Succede in Campania, dove la presenza mafiosa si fa di mese in mese sempre più pesante. La direzione del quotidiano Metropolis ha denunciato un grave atto di intimidazione, dopo la pubblicazione di un articolo in cui si parlava del matrimonio e del pentimento di Salvatore Belviso, esponente del clan D'Alessandro. Alcune persone hanno fatto il giro delle edicole, strappando le locandine e intimando ai giornalai di non vendere Metropolis.

Un grave atto d’intimidazione, quello denunciato dalla direzione del quotidiano, diffuso nelle province di Napoli e Salerno. L'edizione del primo ottobre, infatti, riportava in prima pagina la notizia delle nozze in carcere di Belviso, definendolo "pentito". Intorno alle 6.30 del mattino, con la tiratura ancora fresca di stampa, secondo quanto riferito, alcuni familiari di Belviso si sono recati presso la sede della redazione, chiedendo senza mezzi termini, e non certo "per cortesia", di ritirare il giornale dalle edicole e di bloccare la messa in onda della prima pagina dell'edizione Sud nel corso della rassegna stampa del mattino di Metropolis Tv.

A recarsi presso la redazione sono stati due uomini e una donna, con intenzioni non proprio pacifiche. Salvatore Belviso, imputato nel processo per l'omicidio del consigliere comunale di Castellammare di Stabia del Pd, Gino Tommasino, crivellato di proiettili dai sicari della camorra un paio di anni fa, ha deciso di sposare in carcere una giovane di Castellammare. I famigliari di Belviso non hanno gradito la rivelazione di Metropolis, riguardo al presunto pentimento di Belviso, imparentato con lo storico e potente clan D'Alessandro, ancora attivo a Castellammare di Stabia.

Al raid, fatto solo di minacce verbali avrebbe partecipato una sorella di Belviso. I tre nonostante l'ora mattutina hanno intercettato alcuni giornalisti di Metropolis che si stavano organizzando per il lavoro quotidiano, e altri che stavano compiendo la rassegna stampa attraverso la loro televisione, Metropolis Tv. Immediatamente, i redattori hanno contattato telefonicamente il direttore Del Gaudio che si è sentito al telefono con gli emissari della famiglia Belviso.

All'agenzia Adnkronos Del Gaudio ha detto: "Non è la prima volta che ci accade di subire minacce. Noi facciamo il nostro lavoro. Raccontiamo i fatti e continueremo a farlo. Subire minacce non é piacevole ma noi continueremo a fare il nostro dovere di informare la popolazione vesuviana". Gli emissari della famiglia Belviso hanno chiesto con le minacce di sospendere la rassegna stampa e di ritirare tutte le copie del giornale dalle 28 edicole di Castellammare di Stabia.

Al rifiuto opposto dalla redazione, un certo numero di persone, non ancora valutato in piano, ha visitato tutte le edicole della città, strappando le locandine affisse ai chioschetti e imponendo dietro minacce agli edicolanti di non vendere Metropolis. Il direttore Del Gaudio ha poi raccontato il gravissimo episodio avvenuto ai carabinieri.

Probabilmente a non essere gradita è stata sia la notizia del matrimonio in carcere che, soprattutto, quella del pentimento di Belviso. Gli episodi d’intimidazione sono stati denunciati dal direttore responsabile Giuseppe Del Gaudio ai carabinieri del comando di Torre Annunziata, che sul caso hanno aperto un'inchiesta. "E' un episodio gravissimo", dichiara Del Gaudio, "è una vera e propria intimidazione che mira a limitare la libertà di stampa. Questo gesto non fermerà il nostro lavoro di cronisti che hanno sempre raccontato i fatti del nostro territorio".

L'edizione del 2 ottobre di Metropolis, sia cartacea sia web, riporta in prima pagina il racconto dell'initimidazione avvenuta. Nell'articolo viene riportato che "sin dalle prime ore del mattino il giornale non è stato venduto in tutte le edicole della città di Castellammare". A preoccupare è che l'azione intimidatoria sia stata diretta nei confronti di un giornale quotidiano, il che rappresenta un grave pericolo: quello d’ingerenze nella libertà di raccontare quel che avviene in Campania, il sogno di sempre di ogni clan, quello di poter operare nell'invisibilità e nel silenzio imposto con la forza.

E' il segno tangibile della forza che ancora esprime il clan D'Alessandro nella città campana, il segno di una capacità di intimidazione, da sempre caratterizzata dal passare dalle parole ai fatti. Stavolta questa forza è stata usata nei confronti degli edicolanti, due anni fa fu usata nei confronti di un consigliere comunale, assassinato in pieno centro, e la prossima volta?

di Mario Braconi

Da oggi, ad ogni australiano che chieda al Ministero degli Esteri l’emissione del passaporto, sarà consentito di scegliere quale genere meglio rappresenta la sua personalità. Se ci si trova a proprio agio nelle categorie più comuni (maschio o femmina), tanto meglio; qualora però nessuno dei due generi la rappresenti adeguatamente, alla persona viene data la possibilità di ufficializzare tale indeterminatezza, indicando alla voce “Sesso” una semplice X.

Fino a ieri agli Australiani era concesso di modificare l’indicazione del proprio sesso sui documenti ufficiali solo nel caso avessero già intrapreso (o completato) il processo di riassegnazione di genere: da oggi sarà sufficiente una dichiarazione del proprio medico.

E’ possibile che a spingere proprio l’Australia a legiferare in tal senso sia stato il caso di Norrie May-Welby, una persona scozzese, nata maschio nel 1962 ed emigrata in Australia quando aveva sette anni. Pur essendosi sottoposta all’età di 28 anni ad un intervento chirurgico di rassegnazione di genere, Norrie ha capito di non trovarsi a suo agio nemmeno nella condizione di donna. Pertanto ha chiesto, ed ottenuto, che le venisse assegnato il genere “neutro”. Il suo passaporto, infatti, alla voce “Sesso” mostra la dizione “Non specificato.

In un’intervista radiofonica, Sarah Dingle, della Radiotelevisione australiana (ABC), ha interpellato sull’argomento la senatrice laburista australiana Louise Pratt e il suo compagno Connor Montgomery, che, nato femmina, ha seguito una terapia ormonale ed ora vive come un uomo. “Sono numerosi i casi di persone con indeterminatezza di genere arrestate negli aeroporti esteri dalle autorità dell’Immigrazione solo perché quello che c’era scritto sui loro passaporti non combaciava con il loro aspetto esterno. Un fatto molto fastidioso, sgradevole e, in qualche caso, francamente pericoloso”, ha dichiarato Louise Pratt.

L’iniziativa del Ministero degli Esteri australiani non è certamente una panacea, dato che non tutte le nazioni del mondo sono di orientamento liberale quanto l’Australia. Come del resto specificano le linee guida del Ministero, infatti, si potrebbero registrare problemi proprio nel momento in cui si attraversano i confini e si entra in un altro Stato. In effetti, anche se il passaporto è un documento molto importante, i dati che in esso sono contenuti non possono essere diversi da quelli che risultano dall’atto di nascita. Per questa ragione, Connor Montgomery, ritiene che i cambiamenti sul passaporto siano un’ottima cosa, ma che non occorra fermarsi qui: le persone caratterizzate da diversità di genere, continua Montgomery, devono conquistare il diritto di poter modificare anche il certificato di nascita in accordo con il proprio sentire.

Al di là della sua portata pratica, il provvedimento australiano rappresenta una conquista importante per tutte le persone poco disponibili a sconti quando siano in gioco i diritti: come scrive Gooner, una delle animatrici del blog lesbico irlandese Gaelick, “in un mondo in cui, modulo su modulo, viene richiesto di scegliere tra maschio e femmina, fa piacere vedere dei Paesi che riconoscono ufficialmente il fatto che vi sono altre possibilità: transessualità, intersessualità e così via. Speriamo che l’Europa prenda esempio.” Un auspicio cui sarebbe bello potersi unire se non si trattasse di pura fantascienza in un Paese come Italia, la cui classe politica mediamente dimostra di essere o apertamente omofoba, o indifferente al problema.

di Mario Braconi

Ad Obama, come noto, non arride la fortuna: basti pensare che nei suoi giorni di vacanza si sono susseguiti un terremoto, un uragano grande come un Paese europeo e l’esplosione della crisi in Libia; per non parlare del divampare della crisi economica in Europa. Ce n’è abbastanza per far stracciare le vesti alla stampa conservatrice americana, ormai avvezza ad azzannare il presidente con ogni possibile pretesto: “Con tutti i guai che sta passando il Paese, il Presidente non può starsene in vacanza...”, risuona lo stucchevole mantra.

Moralismo a buon mercato, come sostiene anche l’autorevole periodico americano The Atlantic, citando diversi studi scientifici: le vacanze (pure quelle mentali che si prendono navigando su internet dall’ufficio) non solo fanno bene a chi se le prende, ma aiutano a migliorare significativamente l’efficienza generale delle organizzazioni.

Nel lontano 1999 la compagnia assicurativa New Century Global finanziò una ricerca molto interessante: per dieci settimane venne analizzato il rendimento di due gruppi di impiegati, uno dei quali usava un software che richiamava regolarmente l’attenzione del lavoratore sul mantenimento di una postura sana e soprattutto sull’opportunità di concedersi una breve pausa caffè. I risultati, furono sorprendenti, almeno per l’iperattiva America: gli impiegati “imbeccati” dal loro mentore digitale svolgevano il loro lavoro con un’efficienza superiore in media del 13%.

A distanza di undici anni l’indicazione del vecchio studio è confermata, anzi rafforzata. E questo a dispetto del fatto che oggi l’accesso generalizzato alla Rete da parte di qualunque postazione d’ufficio abbia obiettivamente aumentato le possibili “distrazioni”.

Lo conferma perfino il Wall Street Journal, foglio non proprio di tendenze laburiste. Secondo uno studio dell’università di Melbourne nel 2009, navigare qualche minuto su Internet dall’ufficio “permette alla mente di svagarsi, consentendo maggiore concentrazione nel resto della giornata lavorativa, e quindi creando le premesse per un aumento di produttività”. Addirittura, la ricerca ha concluso che sprecare meno del 20% del proprio tempo in ufficio a farsi i fatti propri su Internet rende gli impiegati più efficienti del 9% rispetto ai colleghi che resistono alla tentazione di aprire il browser.

Consentire un livello fisiologico di distrazione sul posto di lavoro, dunque: atteggiamento padronale illuminato o trucco per lubrificare masse incatenate ai loro compiti alienanti? Il dibattito è aperto. In ogni caso, niente di nuovo sotto il sole: come ricorda The Atlantic, infatti, a proporre simili concetti per la prima volta all’inizio del secolo scorso fu Henry Ford, ideatore dell’eponimo modello industriale, il quale ripeteva: “Così come l’aver portato l’orario di lavoro ad otto ore ci ha aperto la strada della prosperità, il passaggio da sei a cinque giorni lavorati la settimana ci consentirà una prosperità ancora maggiore”. Eppure, negli Stati Uniti si continua a lavorare tanto. Troppo, forse, se si pensa che, secondo un sondaggio, sempre pubblicato da The Atlantic, in media un lavoratore americano matura 18 giorni di ferie l’anno e non riesce nemmeno ad utilizzarle tutte.

Niente di più sbagliato, spiega Daniel Cook, fisico e fondatore di Lost Garden, una software house specializzata in videogiochi: la regola aurea per massimizzare i risultati è non lavorare più di 40 ore a settimana. Chi pensa di spremere i gruppi di lavoro tenendoli inchiodati al tavolino 60 ore alla settimana, sia pure per brevi periodi, ottiene un aumento di produttività illusorio: a fronte di un incremento temporaneo di valore, il team tenderà a spomparsi. Per ottenere la necessaria decompressione, si renderà necessario un periodo con medie nettamente al di sotto delle 40 ore settimanali.

In un ideale grafico in cui la linea orizzontale è l’aurea mediocritas delle 40 ore, attraversata da un sinusoide che rappresenta gli straordinari e il periodo compensativo, quest’ultimo segmento ha invariabilmente un’area più grande. In altre parole, mandare un gruppo di lavoro in fuorigiri è controproducente. Cook sostiene che le 40 ore possono essere modulate come si vuole, per dire quattro giornate da 10 ore e tre giorni a casa. Chi svolge un lavoro creativo dovrebbe poi considerare che la capacità di produrre idee nuove tende a deteriorarsi ancor prima della fatidica quarantesima ora di lavoro, e precisamente dopo la trentacinquesima. Perdere il sonno su un problema complesso, infine, non aiuta particolarmente: molto meglio, sembra, concedersi otto ore filate di sonno e riattaccare la mattina presto a mente fresca.

Suggerimenti di senso comune? Certo, ma supportati anche dalla ricerca. Insomma, la scienza si schiera a favore delle vacanze prolungate come le piccole, innocenti evasioni dal pc dell’ufficio. Chissà se queste idee prima o poi verranno adottate anche nelle stanze dei bottoni, anche se due storie di cronaca recente prese a caso continuano a raccontare una verità molto più amara di cieco sfruttamento: si pensi ai bambini schiavizzati da un contractor brasiliano di Zara e agli operai che negli stabilimenti H&M in Vietnam lavorano fino allo svenimento.


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