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di Rosa Ana de Santis
Prima della guerriglia del gennaio 2010 sembrava che gli schiavi delle arance fossero sbucati dalla terra come spettri. All’improvviso. Braccati dai padroncini, rinchiusi nei capannoni della malavita, stipati come animali. Gli africani allora scesero nelle piazze denunciando il loro sfruttamento e le spietate regole del capolarato. Basta farsi un giro oggi a Rosarno per capire che nulla è cambiato. Si viene pagati a giornata o a cassetta per avere la schiena china sulla piana di Gioia Tauro. Si ottengono 20/25 euro al massimo per 10 ore di lavoro e più, senza alcun servizio di alloggio. Braccianti senza casa, senza servizi igienici, stritolati dalla malavita.
Nei giorni dei cortei di fuoco si era invocata la lotta alla clandestinità, nel cuore di una Rosarno esasperata dove era più facile per tutti colpire gli stranieri piuttosto che denunciare la malavita che sui lavoratori stranieri aveva costruito l’ennesimo affare, nel silenzio delle Istituzioni.
L’Ispettorato del Lavoro si è visto giusto nelle settimane della rivolta, poi niente. Cinque ispettori su tutto il territorio della provincia sono davvero pochi e le ispezioni non vanno avanti. I sindacati, CGIL compresa, non hanno saputo fare molto altro che non azioni di vertenze individuali, ma la responsabilità maggiore è delle Istituzioni che non hanno pensato a servizi di alcuna natura per questi lavoratori stranieri e che continuano ad ignorare la simbiosi ormai permanente tra clandestinità, malavita e territorio.
Era accaduta la stessa cosa dopo la strage di Castel Volturno del settembre 2008 e l’uccisione di sei africani e un italiano da parte della camorra. Anche lì l’intervento dello Stato, minimo e superficiale rispetto alla questione della malavita, manifestatosi con la repressione poliziesca del Viminale tutta estemporanea e scenografica, era servito a scaricare sui clandestini e gli stranieri la colpa del disagio, del degrado e dell’insicurezza ottenendo il solo di fine di esasperare la convivenza con gli italiani.
Il sindaco di Castelvolturno è il miglior rappresentante di questa strategia politica che preferisce parlare dell’invasione straniera piuttosto che della camorra. Il razzismo e la paura degli stranieri sono diventati sempre di più strumenti comodi e facili all’uso per un governo che nei fatti non sa come fare per scongiurare, in special modo in alcuni punti critici del territorio, il rischio banlieue.
Le “polveriere” a rischio sarebbero Foggia, Siracusa, Caserta e tutta la Piana di Gioia Tauro. La combinazione di clandestinità e lavoro nero, sfruttamento e malavita, il tutto unito ai mali endemici del nostro Mezzogiorno, sono la causa del disordine e dell’incertezza che va diffondendosi nel territorio e nella società.
Non c’entra la nazionalità, non c’entra l’afflusso di stranieri che invece a quelle economie serve e come. Ma serve così, a queste condizioni. Silenziosi, vessati, anonimi e invisibili. La clandestinità è la garanzia di un mercato prolifico per i mafiosi di casa nostra, un meccanismo efficiente che lo Stato non ha voglia di sbrogliare e che per ora pagano sulla pelle questi lavoratori. Tanto è nera, dirà qualche nostalgico.
Alla prima rivolta di rivendicazione e diritto rimane la scappatoia di chiamarli clandestini in tv e sui giornali, utilizzando le paure collettive e occultando la verità. Quel marcio che la parata di qualche volante mandata dal Viminale dopo i fatti di sangue non basta nemmeno a disturbare. E’ in questo modo che quelle immagini di cassonetti alle fiamme e di strade ridotte a trincee da barricate improvvisate non potranno mai diventare il simbolo di una denuncia sacrosanta contro la mafia e per i diritti, perché quei lavoratori non ne possiedono alcuno. Non sono cittadini, non esistono per nessuno se non per chi li usa come schiavi. Così quando la polveriera esplode, come a Rosarno, nemmeno muoiono, né spariscono. Perché morti lo sono già.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Un milione di persone in marcia per Manhattan, al grido di “Grazie Cuomo!” La prima gay parade della nuova era, consapevoli che la vittoria dei diritti è storica e non si potrà più tornare indietro. Una festa colore arcobaleno che da New York si spande in tutta la nazione, in festa non è solo il movimento GLBT ma tutta la città, vecchi, bambini, poliziotti, religiosi, nessuno escluso. Simbolo della città, l'Empire State Building è stato illuminato fino alla punta con i colori della bandiera arcobaleno. Il governatore Cuomo, alla parata, rivendica orgoglioso la sua legge: “Questo è un segnale forte e chiaro, è tempo che tutta l'America segua il nostro esempio e legalizzi i matrimoni gay!”
I carri in maschera che celebrano l'orgoglio omosessuale quest'anno sembrano non finire più. La parata comincia a mezzogiorno e dopo sette ore è ancora un fiume in piena, giù per la Fifth Avenue verso il West Village, roccaforte storica del movimento omosessuale americano.
La sorpresa è che non ci sono solo carri delle associazioni per la parità di diritti, come tutti gli altri anni. Quest'anno, i carri sponsorizzati dalle grosse corporation sono i più grandi. Macy's con i suoi enormi palloni colorati, poi una decina di banche internazionali come la HSBC e la TDBank. Tra tutti, svetta Google, i cui dipendenti brandiscono cartelli con la scritta “Nell'armadio ci stanno solo i nostri computer”, riferimento al “coming out of the closet” di chi rivendica pubblicamente la propria omosessualità.
Un episodio racconta della festa e della gioia condivisa più di ogni altro. Un ramo troppo basso minaccia l'enorme carro in maschera dell'associazione GLBT di Harlem. Non si può proseguire la parata, bisogna rimuovere l'ostacolo. Una camionetta di poliziotti NYPD arriva in pochi secondi. Un poliziotto esce dalla porta posteriore e si arrampica sul tetto della camionetta, nel bel mezzo della strada, mentre i suoi colleghi gli danno indicazioni. Dopo mezzo minuto, con un colpo di reni l'eroe in uniforme strappa il ramo e lo getta a terra. Un boato erutta dalla folla circostante e decine di fustaccioni in perizoma e tenuta da Moulin Rouge accorrono verso la camionetta, lanciando baci roventi al poliziotto salvatore. Che, tra gli applausi dei colleghi e della folla, raccoglie con le mani i baci immaginari e si inchina al suo pubblico adorante. Insomma, per un giorno anche la polizia è gay a New York!
Questo episodio è il segno del clima che si respira in città da quando venerdì scorso il Senato dello Stato di New York, a maggioranza repubblicana, ha approvato la legge di “uguaglianza matrimoniale”, come viene chiamata da queste parti. Per i newyorkesi si tratta dell'orgoglio ritrovato: la nuova legge è una vittoria di tutta la città e non solo del movimento omosessuale. Milioni di abitanti della Grande Mela si sono svegliati sabato mattina con la consapevolezza di essere tornati alla guida dell'America dei diritti, dopo essersi attirati le ire di tutto il mondo con la crisi finanziaria del 2008 a Wall Street.
Quattro senatori repubblicani hanno votato insieme alla minoranza democratica, approvando la legge presentata dal governatore democratico Andrew Cuomo. Questo spirito bipartisan assolutamente inedito è il frutto di un nuovo modo di interpretare la politica conservatrice. Alcuni dei ricchissimi sostenitori del Partito Repubblicano hanno pubblicamente annunciato che avrebbero finanziato generosamente la campagna elettorale di quei senatori repubblicani che avessero votato in favore della legge. Per due motivi.
Prima di tutto, i sondaggi più recenti mostrano che per la prima volta la maggioranza degli americani è in favore dell'uguaglianza matrimoniale. Ma il grosso argomento a favore è quello economico. In un momento di recessione, questa nuova legge porterà ad una vera e propria esplosione di investimenti e di lavoro in città e in tutto lo Stato di New York. Che da oggi ha strappato ufficialmente a San Francisco la bandiera del movimento GLBT. Secondo il New York Times decine tra agenzie matrimoniali, aziende di catering e di pianficazione di eventi hanno traslocato nottetempo da Boston a New York, appena avuta la conferma dell'approvazione della nuova legge.
Uno degli aspetti più interessanti della nuova uguaglianza matrimoniale è il fatto che, chi vorrà, potrà dire il sospirato “Sì!” in chiesa. L'offerta religiosa negli Stati Uniti è tale per cui, anche se il vescovo cattolico di New York non ha commentato ufficialmente la legge, molte confessioni religiose si sono espresse in favore della legge e pronte a celebrare i matrimoni gay. Alla gay parade non mancano infatti i carri religiosi. A partire dalla “più grande sinagoga GLBT del mondo” di rito ebreo ortodosso, ad una congregazione cristiana i cui fedeli innalzano decine di cartelli con la domanda retorica “Gesù ci discriminerebbe?”, una presa in giro del celebre motto della destra cristiana fondamentalista “Cosa farebbe Gesù?”
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di Cinzia Frassi
L'Autorità garante per le comunicazioni (AgCom) si accinge ad intervenire a gamba tesa sulla tutela del diritto d'autore on line con un provvedimento che, dal 6 luglio, consentirebbe agli ISP - Internet Service Provider - di rimuovere contenuti dal web. In sostanza sarebbe sufficiente la segnalazione di una violazione da parte del titolare del diritto d’autore direttamente all'ISP per rendere irraggiungibile il sito che abbia pubblicato il contenuto "protetto".
Un provvedimento, quello dell’AgCom, che ha suscitato grande dibattito e un fronte di oppositori massiccio. Il garante non sembra proprio avere facoltà di introdurre una normativa per regolamentare direttamente un diritto fondamentale quale il diritto all’informazione, cosa che spetterebbe chiaramente al Parlamento.
Inoltre, la procedura che si vorrebbe introdurre è di natura puramente amministrativa e, per giunta, può portare a sanzioni piuttosto forti. Si aggirano quindi due tutele: il giudice naturale competente e l’introduzione di una procedura puramente amministrativa per un diritto fondamentale dell’individuo. Non solo, l’oscuramento così ottenuto sarebbe notificato solo all’ISP e non anche ai proprietari dei siti.
E' da tempo che si parla di interventi volti a regolamentare l'accesso a contenuti via web e il diritto d'autore ed è da tempo che l'AgCom prepara la pillola amara. Così il web nel frattempo si è organizzato e sono state numerose le iniziative e le proteste in risposta al provvedimento. Lo scorso giugno è stato presentato alla Camera dei Deputati il "Libro Bianco su copyright e tutela dei diritti fondamentali sulla rete internet". Si tratta di un documento dettagliato che fa il punto sul contenuto di due diritti contrapposti: da un lato la libertà d’informazione, con tutto quello che comporta e dall'altro il copyright.
Ci sarebbe da aggiungere che le violazioni del diritto d’autore possono essere le più varie e per di più in molti casi non essere nemmeno tali. Si è etichettata la pirateria come un aspetto del furto e come un comportamento univoco, senza giustificazioni. In realtà le cose stanno in modo differente. Da un lato sarebbe da discutere sui contorni della violazione, dell’opportunità di maggiori contentuti e di un’offerta più ampia, soprattutto liberamente scaricabile.
Di certo non si può pensare che tutto sia vendibile: la cultura, l’informazione, la formazione, la condivisione, non sono certi valori cedibili a titolo oneroso. Un film, un documentario, una trasmissione televisiva, dovrebbero essere considerati cultura fruibile liberamente da tutti. Non solo: una piccola parte d’intervista televisiva pubblicata sul web potrebbe non essere violazione del copyright, ma parte necessaria di un’informazione completa, che é diritto di tutti. No, non sono degli estremisti a sostenerlo.
Basti considerare come siano presenti da sempre due modi diametralmente opposti di concepire il web. Per qualcuno è una risorsa, per altri uno strumento di interessi economici. Chi pensa che la rete sia una risorsa concepisce il web come uno spazio per l'esercizio di grandi libertà, un luogo aperto, democratico, libero dai gruppi di potere dove sia l'accesso che i contenuti debbano esistere senza paletti. Per chi, al contrario, il web è una risorsa prima di tutto economica, ci vede invece una percentuale del Pil.
Il presidente francese Sarkozy aveva sottolineato, in occasione ell'E-G8 tenutosi a Parigi lo scorso 23-24 maggio, che "a costo di essere impopolare voglio dirvi che non potete rifiutare un minimo di regole e valori comuni. Non si può veicolare il male senza ostacoli né ritegno". In paesi come il Brasile, la Cina o la Corea del Sud il commercio online porta quasi il 4% del Pil. Tra i paesi europei nel periodo 2004-2009 ha portato il 12% del Pil all’Italia, il 33% alla Svezia, il 24% alla Germania e il 23% a Regno Unito.
Dall'altro invece c'è chi rifiuta l'idea di imporre rigide regole ma pensa che "la miglior politica per un governo è dare la banda larga fissa e mobile a tutti i cittadini". Parola di Eric Schmidt, amministratore di Google. "Prima di pensare a progetti di regolamentazione, chiediamo ai governi di studiare soluzioni tecnologiche per risolvere i problemi da un punto di vista globale". Aggiunge ancora, sempre in occasione dell’incontro a Parigi, che "la miglior politica per un governo è dare la banda larga fissa e mobile a tutti i cittadini".
Certo, le parole vengono da Google che non brilla sicuramente in termini di rispetto della privacy, ma centra il punto e la materia del contendere: soluzioni globali e banda larga questo potrebbe portare ad una crescita esponenziale nel nostro paese. Vale a dire regole precise e niente digital divide. Tra l’altro fu proprio Calabrò, nell’annuale relazione sullo stato del paese, a sottolineare come meno del 50% degli italiani ha un collegamento alla rete in banda larga, fisso o mobile, mentre la media europea è del 61%.
Intanto la rete si mobilita, raccoglie contributi e forme di reazione alla proposta del Garante. La questione è affrontata in termini molto netti e di rifiuto di un provvedimento fuori luogo che porta con se l’apertura alla censura in rete: oggi per i contenuti audiovisivi e domani? Attendiamo i prossimi giorni per capire se l’ennesimo tentativo di governare la rete andrà a vuoto oppure no.
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di Rosa Ana De Santis
Il dibattito dell’estate nasce dopo le dichiarazioni sconcertanti del sindaco Pdl di Sulmona, che in una registrazione del 2006, quando era consigliere di An, aveva definito gli omosessuali, “malati da curare” e “aberrazione genetica”. Il primo cittadino, peraltro medico, queste affermazioni le ha rivendicate tutt’ora, scatenando una durissima replica da parte di tutte le associazioni impegnate per i diritti dei gay, in prima fila il responsabile diritti civili e associazionismo dell'Italia dei Valori, Franco Grillini e la deputata Pd Paola Concia.
A seguire il sindaco di Bologna, Virginio Merola, che ha dichiarato di voler favorire le coppie eterosessuali legalmente spostate nelle graduatorie pubbliche al posto di quelle di fatto, omosessuali comprese. In questo caso quindi si profila un’ipotesi di discriminazione non solo nel merito di una scelta e di un orientamento sessuale, fatto già grave in sé, ma di una penalizzazione di tutte quelle numerose “famiglie” di fatto che non sono legalmente sposate.
E’ stato il prof. Veronesi, a margine della presentazione dell’annuale Conferenza mondiale “The future of science” che si terrà a Venezia il prossimo settembre, a replicare con durezza e anche con una certa dose di provocazione. Oltre a condannare le posizioni discriminatorie contro gli omosessuali, Veronesi, proprio partendo dalla propria storia di uomo di scienza, ritiene inaccettabile oltre che falso accettare una spiegazione di ordine chimico-genetico all’omosessualità o, quantomeno, la sua interpretazione come deviazione patologica dalla normalità al pari di una malattia.
Tutto sommato è intuitivo riconoscere che la condizione dell’amore omosessuale non solo è presente in natura, ma ha sempre accompagnato la storia del genere umano e attraversato numerose civiltà. Il grande discrimine con l’amore etero è solo e unicamente legato alla procreazione ed è proprio questo elemento - qui sta la provocazione di Veronesi - a rendere l’amore tra i gay meno strumentale e più legato alla purezza dei sentimenti. Ovviamente anche questa è una frase ad effetto perché sappiamo bene quanto anche gli omosessuali, uomini e donne, combattano tra adozione e frontiere della procreazione, per avere figli propri e poter diventare famiglia.
Giovanardi, peggior Catone del 2011, ha risposto invocando premi per il delirio estivo del Prof. Veronesi. Quale che sia la radice di una natura omosessuale, tra chimica, psicologia e stili di vita, l’idea di tradurla come una malattia e come qualcosa da curare, oltre ad essere un falso scientifico, basta il più superficiale empirismo a testimoniarlo, autorizza la peggiore e più crudele legittimazione di moltissimi abusi e di tanti orrori storici. Torneremo forse anche all’antropologia criminale di Lombroso per processare gli indagati. E’ l’ancestrale intolleranza alla libertà personale e la supremazia culturale della famiglia di Nazareth a convincere Istituzioni e tanta parte dell’opinione pubblica nostrana ad avvertire nell’omossessualità un pericolo e un’insidia.
L’Italia rimane infatti l’unico paese tra quelli fondatori dell’Ue a non avere una legislazione ad hoc contro l’omofobia, di questo dovrebbe seriamente preoccuparsi il sottosegretario. Oltre al fatto che tanta arte, poesia e civiltà d’insuperabile valore intellettuale hanno fatto dell’omosessualità una forma di elezione spirituale e un criterio distintivo dell’aristocrazia. Se Giovanardi conoscesse Saffo capirebbe meglio il senso delle parole del Prof. Veronesi.
La sensazione è che nel dibattito pubblico e mediatico sulla questione sessuale, in ogni sua espressione, manchi in Italia una padronanza onesta del linguaggio. Si va avanti per evocazioni e suggestioni. Omosessuali come pedofili (quando invece sono gli eterossessali gli artefici dei peggiori atti sessuali ai danni dei bambini), omosessuali come malati, perversi, come vettori di Hiv.
Aiuterebbe però, all’educazione pubblica, se anche le manifestazioni per i diritti civili dei gay perdessero quel carattere carnevalesco e quella scenografia da set porno che non aiuta la comprensione della normalità di chi vive l’amore omossessuale. Perché la trasgressione non è né omo, ne etero. Perché essere omossessuali non è uno stigma o un bollino. E’ la rivendicazione di una differenza all’interno dell’eguaglianza.
La normalità e le battaglie politiche, questo forse è il passaggio che manca al mondo gay e alle sue legittime richieste, non hanno bisogno di stratagemmi esasperati e volgari, così come la libertà di una donna perde dignità e valore quando diventa solo la libertà di mettere un corpo nudo sulle copertine dei rotocalchi per la delizia del pubblico ormone.
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di Rosa Ana De Santis
Sì è celebrata il 20 giugno la Giornata Mondiale per i rifugiati politici. Sessanta anni fa nasceva l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e poco dopo la Convenzione in merito alla quale tutt’ora l’agenzia interviene per soccorrere coloro che abbandonano i propri paesi per motivi di discriminazione politica, religiosa, etnica o razziale.
La ricorrenza ritorna con un carico simbolico molto forte. Nell’anno della guerra in Libia, degli esodi dal Nord Africa, dei barconi inabissatisi sotto le onde appena qualche giorno fa e soprattutto nel coro di un governo assediato sulle posizioni dei rimpatri e sull’isteria di un esodo da collasso che, numeri alla mano, non c’è stato. Un’improvvida rincorsa alla banalizzazione di questa categoria politica, piuttosto alla sua negazione prima teorica e poi pratica è il modo in cui la maggioranza che guida il Paese ha affrontato questa giornata di riflessione e di memoria.
Ma non basta. Alla propaganda populista sulla difesa accorata dei confini è seguito l’accordo con il Comitato nazionale di Transizione libico per i rimpatri forzati verso le zone di guerra e la detenzione nei centri di accoglienza prolungata fino a 18 mesi, alla stregua di una pena per un reato. Tutto questo per poco meno di 19mila persone scappate dalla Libia dall’inizio della guerra e arrivate sulle nostre coste, a differenza della Tunisia che ne ha accolte quasi 300mila.
E’ dal 2009 inoltre che l’Italia ha visto una drastica diminuzione delle domande d’asilo, preferendo respingimenti indiscriminati prima di qualsiasi valutazione delle richieste d’asilo, come la fuga di tanti disperati da paesi in guerra avrebbe dovuto suggerire.
A questo clima politico va aggiunta una solita modalità estemporanea e priva di sistematicità con cui l’Italia ha gestito queste procedure, delle quali non abbiamo neppure, a differenza degli altri paesi europei, stime e numeri precisi.
La questione italiana rimane in certa misura irrisolta proprio perché è la stesso programma di Stoccolma, approvato dal Consiglio Europeo nel 2009, che si limita a proclamare che “il rafforzamento dei controlli alle frontiere non dovrà impedire l’accesso ai sistemi di protezione a chi ha diritto di beneficiarne”, senza dirci nulla sul come.
Il dato certo è che la politica dei rimpatri e l’impedimento delle partenze ab origine non ha affatto sradicato l’immigrazione clandestina, ma piuttosto ha inciso negativamente, riducendolo di molto, il diritto ad essere accolti come rifugiati.
Solo il 10% delle domande viene accolto al termine di lungaggini burocratiche incomprensibili, di errori e lacune procedurali, di mezzi e persone insufficienti senza alcuna assistenza o supporto per le persone richiedenti.
Dovrebbe essere proprio questa eccezionale condizione di cittadinanza, quella dei rifugiati politici, a darci il segno tangibile di una nazionalità transnazionale. Il sogno del più classico cosmpolitismo settecentesco, l’utopia della città globale, il diritto come categoria di giustizia, senza particolarismi di sorta. Ed è proprio questa idea a soccombere sotto il peso di ogni rinuncia aprioristica all’accoglienza e alla gestione seria di chi arriva sui barconi. Quelli che la cronaca dipinge come invasori e conquistatori e che la storia ricorderà solo come i più disperati.
Sarà allora forse che l’esame della nostra democrazia avrà i suoi voti peggiori, quelli che ora suonano come un rimbrotto accademico dell’Europa o dell’UNHCR alle uscite del Ministro Frattini e che un giorno saranno invece una vergogna.
L’odiato fantasma della clandestinità perpetua è proprio figlio del limbo giuridico in cui queste persone sono costrette a vivere in attesa di un’audizione che può arrivare anche 24 mesi dopo, per assicurare un rimpatrio all’ennesimo straniero di troppo.
Uno di quelli che senza identità giuridica, intrappolati nel non riconoscimento silenzioso, diventano “la schiuma della terra”. Scriveva così Anna Harendt per parlare di questi fantasmi che venivano privati di quei diritti di umanità intrinsechi alla condizione stessa di cittadinanza, diventando un po’ meno umani.
Perché è proprio questo a renderci uomini e donne, insieme alla nostra stessa natura. E’ la presenza o l’assenza di patria a darci un luogo, ed è la cittadinanza universale a darcene uno solo davanti a tutti che si chiama dignità. Quel riconoscimento in mezzo agli altri che ci salva dalla solitudine dell’anonimato. Quello che ne ha rovesciati tanti nel mare senza sepoltura, né un nome, di notte. O quello che li ha lasciati nelle dune del deserto, scheletriti dal sole.
Tutti costoro che erano cittadini, e come decaduti dallo stato di umanità, per naturale e necessaria condizione, sono morti in viaggio per non esserlo stati più.