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“It’s coming to Rome!”, grida Bonucci davanti alle telecamere inglesi. Fa il verso a quel motto - football is coming home, il calcio torna a casa - che i nostri avversari ripetono da anni, a volte con ironia, altre con arroganza. La Coppa viene a Roma, 53 anni dopo l’ultima volta, 21 anni dopo la maledetta finale contro la Francia, nove anni dopo il poker subìto per mano della Spagna, tre anni e 9 mesi dopo il pareggio contro la Svezia che ci negò la qualificazione ai Mondiali russi. L’Italia è Campione d’Europa.
Senza stelle da copertina, gli azzurri hanno saputo imporsi con il gioco di squadra, dimostrando una coesione e un’intesa fra i giocatori che raramente si trova nelle nazionali. Fondamentale si è rivelata la panchina lunga: è vero, non avremo gente come Pogba o De Bruyne, ma possiamo contare su tanti cambi di qualità (soprattutto a centrocampo, con Pessina, Locatelli e Cristante). Una caratteristica ancora più decisiva ora che di cambi se ne possono fare cinque, ma soprattutto in grado di sopperire alle mancanze dell’attacco, dove manca un bomber capace di lottare spalle alla porta, come richiederebbe il gioco di Mancini (Immobile è una prima punta da profondità e Belotti non è un bomber).
Alla fine, però, nonostante il pressing alto e il possesso palla sfoggiato in queste sette partite, la chiave del successo italiano è sempre in difesa. Un dato su tutti: l’ultima partita persa dagli azzurri con Bonucci e Chiellini in campo risale al 2015. Se a quei due si aggiunge un’alternativa di livello come Acerbi e soprattutto un Donnarumma in versione Vallo di Adriano, oltre a infrangere il record d’imbattibilità di Zoff si può sperare anche di battere chiunque.
Eppure la finale contro l’Inghilterra inizia proprio con un errore difensivo: preoccupati di Kane, ci scordiamo sul secondo palo Shaw, abilissimo a insaccare con un sinistro al volo un cross a giro di Trippier. Wembley esplode, è una bolgia di gente in maglia bianca (anche perché i biglietti venduti ai tifosi italiani sono pochissimi, una vergogna). Per i primi 20 minuti dominano i padroni di casa e rischiamo di sbandare. Ma a quel punto l’Italia dimostra una qualità da grande squadra: invece di farsi prendere dall’ansia inizia a gestire il pallone, fa calmare gli avversari, entra in partita con la testa e comincia a giocare come sa. Le statistiche finali diranno che il possesso palla è nostro al 62%, per un totale di 20 tiri contro 6 degli inglesi. E tanti saluti al catenaccio.
Il pareggio arriva però solo al 67esimo, quando Bonucci, sugli sviluppi di un calcio d’angolo, ribatte in rete una grande parata di Pickford su Verratti. Il gol era nell’aria da tempo, ma non era ancora arrivato proprio per la bravura del portiere inglese (bellissimo anche il suo intervento su Chiesa qualche minuto prima) e per le solite difficolta di Immobile.
Il Ct se ne accorge e cambia: fuori il centravanti della Lazio, dentro il falso nueve del Sassuolo, Mimmo Berardi. Una mossa vincente, come Cristante per lo stanco Barella, mentre quelle successive (dentro Bernardeschi, Belotti, Locatelli e Florenzi al posto dell’infortunato Chiesa, Insigne, Verratti ed Emerson) fruttano meno del previsto.
Per fortuna, i cambi di Southgate si rivelano un disastro. L’allenatore inglese – che nel 1996, da giocatore, sbagliò il rigore decisivo in semifinale contro la Germania – si tiene le sostituzioni in vista dei tiri dal dischetto e alla fine inserisce Rashford e Sancho proprio per farli tirare dagli 11 metri. Peccato per lui che sbaglino tutti e due: il primo prende il palo, mentre il secondo si fa parare il tiro da Donnarumma. Stessa sorte per il giovanissimo Saka, che a 19 anni forse non era pronto per una responsabilità del genere. Tra gli azzurri, invece, sbagliano Belotti e Jorginho, mentre vanno a segno Berardi, Bonucci e Bernardeschi: finisce 4-3 per noi.
“Siamo stati bravi, abbiamo preso gol subito e siamo andati in difficoltà, ma poi abbiamo dominato la partita – le parole di un Mancini con gli occhi lucidi – I ragazzi sono stati meravigliosi, questa vittoria è importante per tutta la gente, per tutti i tifosi, siamo felici. La squadra è cresciuta tantissimo e può migliorare ancora, sono orgoglioso dei miei ragazzi, non ho parole. Appuntamento al Mondiale? Godiamoci questo. Oggi si è chiuso un cerchio, i nostri ragazzi sono stati incredibili”.
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Abbiamo ridefinito il concetto di “sfangata”. La sportività dimostrata dagli spagnoli prima e dopo la semifinale di martedì sera ci impone la massima onestà: i nostri avversari hanno dominato la partita quasi per intero. Alla fine, però, abbiamo vinto noi. Come abbiamo fatto? Le ragioni principali sono tre.
La prima ha a che vedere con la Spagna. La nazionale guidata da Luisa Enrique non rinnega la filosofia di gioco della Roja imbattibile di qualche anno fa: possesso palla esasperato, circolazione veloce, pressing e recupero alto del pallone. Il problema è che quando a eseguire questo schema era un centrocampo animato dal genio di Iniesta e di Xavi, alla fine il tiki taka portava sempre qualche giocatore solo davanti al portiere. Ora non è più così: la nuova generazione spagnola gioca bene, mantiene il possesso e fa correre a vuoto gli avversari più di chiunque, ma in fase di finalizzazione è assai meno efficace che in passato. A ben vedere, martedì sera gli spagnoli hanno tenuto le redini del gioco per quasi tutta la partita, ma alla fine non hanno avuto un numero di occasioni da gol molto superiore a quello degli azzurri.
La seconda ragione del successo italiano è da ricercare in casa. Malgrado la Spagna non sia più la corazzata che ci distrusse nella finale dell'Europeo del 2012, resistere all'assedio rosso per 120 minuti non è da tutti. Ci è voluta anche una certa umiltà: gli uomini di Mancini hanno dovuto accantonare per una sera la strategia offensiva messa in mostra nelle prime cinque partite della competizione e ripiegare su un più classico e nostrano catenaccio-e-contropiede. Peraltro, i giocatori per fare male in ripartenza non ci mancano, tanto è vero che il gol di Chiesa arriva proprio al termine di un contrattacco in velocità da manuale. L'unica nota stonata della serata riguarda Bonucci e Chiellini, che sporcano una prestazione pressoché eroica facendosi bucare al centro da una triangolazione fra Dani Olmo e Morata. Alla fine l'attaccante spagnolo, compagno di squadra dei centrali azzurri nella Juventus, segna il gol del pareggio nell'unico modo possibile per il gioco della sua squadra: entrando in porta con la palla.
Il terzo e ultimo fattore è la fortuna, una componente sempre necessaria negli scontri che finiscono ai calci di rigore. È vero, avevamo il vantaggio di iniziare a battere, per di più nella porta davanti alla curva occupata dai tifosi italiani. Ma dopo l'errore iniziale di Locatelli c'era il rischio di cadere in una spirale mortifera, anche perché Mancini – autore di più d'una sostituzione discutibile – aveva levato dal campo quasi tutti i principali rigoristi della squadra (Immobile, Verratti, Insigne). Battere gli spagnoli presentandoci sul dischetto con Bellotti e Bernardeschi non era affatto scontato, ma ce l'abbiamo fatta, anche perché a tradire gli iberici è stata proprio la coppia che poco prima aveva confezionato il gol del pareggio: Dani Olmo e Morata.
La semifinale vinta martedì sera con la Spagna è probabilmente uno dei successi più faticosi e sorprendenti nella storia della nazionale italiana. Ora dobbiamo essere bravi a sfruttare questi giorni per recuperare le energie fisiche e mentali necessarie per affrontare nel migliore dei modi la finale di domenica.
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Nove volte su dieci, quando una squadra con il bel gioco incontra una squadra con i campioni, la squadra con il bel gioco viene sconfitta. Non è andata così in Italia-Belgio, che ha visto le stelle di Lukaku e di De Bruyne eclissarsi di fronte alla voglia degli azzurri di giocare a calcio insieme.
È vero, sul 2-1 che ci manda in semifinale contro la Spagna ha un peso non secondario la Dea Fortuna, intervenuta a nostro favore sia prima della partita (Eden Hazard fuori per infortunio, De Bruyne non al meglio per un problema alla caviglia) sia durante l'incontro (almeno due occasioni solari mancate dai nostri avversari nella ripresa, di cui una con un salvataggio clamoroso quanto fortuito di Spinazzola su Lukaku).
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Un girone molto facile, con tre avversarie ben più deboli del previsto, ci aveva illuso di avere una “macchina da guerra”, per usare le parole di un telecronista grottescamente incline all’enfasi. La partita contro l’Austria ci ha svegliato dal torpore. Alla fine gli azzurri ce l’hanno fatta di nuovo, ma la vittoria ha richiesto una dose di fatica ben superiore al previsto (e anche una discreta porzione di fortuna: vedi il gol annullato ad Arnautovic).
Certo, i meriti degli avversari non vanno sottovalutati. La formazione austriaca sarà anche priva di capacità tecnica, ma è organizzata, si difende bene occupando ogni centimetro ed è capace di un pressing asfissiante. Corrono, inseguono, all’occorrenza picchiano.
Quanto agli azzurri, i problemi iniziano in difesa. Acerbi è un ottimo difensore, ma non ha l’esperienza internazionale di Chillini, né la sua capacità di comandare la difesa. Bonucci, invece, vive una serata a dir poco negativa, mancando una serie di anticipi che una volta avrebbe portato a casa a occhi chiusi e riuscendo nell’impresa di far sembrare Arnautovic un giocatore di calcio professionista.
A centrocampo i guai sono fisici. Verratti non sta bene e si vede, mentre Barella è condizionato dalle botte che riceve nella prima fase della partita. Jorginho gioca una gara ordinata, ma gli manca sempre il guizzo, la giocata capace di trovare spazio dove gli altri non ne vedono.
In avanti, Berardi è il più appannato e non riesce mai a dialogare con i compagni di reparto. Immobile, incastrato nella difesa muscolare austriaca, cerca palloni tornando indietro e colpisce l’incrocio con un tiro da 30 metri (l’unica occasione della sua partita).
A decidere l’incontro in favore dell’Italia sono tre cambi di Mancini: Locatelli per Verratti, Pessina per Barella e Chiesa per Berardi. Gli ultimi due subentrati sono gli autori dei gol che ci portano ai quarti di finale. Si può pensare che il Ct abbia sbagliato la formazione iniziale e che se avesse messo dal primo minuto questi giocatori avremmo sofferto meno. Il ragionamento è forse plausibile per Locatelli, vista la condizione di Verratti. Un giocatore effervescente come Chiesa, invece, è probabilmente più efficace quando entra in campo a partita in corso, quando gli avversari sono stanchi e faticano ancora di più a stargli dietro.
La mossa di Mancini più difficile da comprendere è l’ingresso di Belotti per Immobile. L’attaccante del Torino è generoso, protegge il pallone, subisce falli e fa salire la squadra. Ma ha un problema: non segna mai. Il suo utilizzo ha senso quando abbiamo un risultato di difendere; se invece dobbiamo buttarla dentro in qualche modo, non ha senso privarsi di Immobile. Il centravanti della Lazio sarà pure lontano da quello che ha vinto la scarpa d’oro, ma il suo senso del gol non è paragonabile a quello di Belotti.
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Con una partita buona e in controllo, l’Italia batte il Galles 1-0 e passa agli ottavi degli Europei da prima del girone. I ragazzi di Mancini stabiliscono addirittura un record: nella storia del torneo, nessuna squadra prima di loro aveva mai chiuso il girone a punteggio pieno e senza subire gol.
Certo, il valore degli avversari era più che modesto (la delusione maggiore riguarda la Turchia, che pur avendo diversi giocatori di buon livello chiude il girone con zero punti e un solo gol segnato). Questo però non toglie nulla alla brillantezza degli azzurri, che giocano un calcio propositivo, fatto di pressing e verticalizzazioni. Dopo parecchi anni, le partite della nazionale sono tornate a essere piacevoli da guardare.
Il problema principale di questo Europeo riguarda l’eccesso di entusiasmo che si è creato intorno alla nostra squadra. La responsabilità, diciamolo subito, ricade in buona parte sui giornalisti di Rai Sport, che narrano l’evento come bambini di 12 anni e in ogni intervista costringono il povero calciatore di turno a esprimersi sulle possibilità di vittoria finale nel torneo.
Ora, al di là della scaramanzia (che ad esempio sconsiglierebbe il riferimento ossessivo alle Notti magiche del 1990, le quali non finirono bene), conviene riflettere con un minimo di onestà sulla domanda preferita dai cronisti del servizio pubblico: dove può arrivare questa Nazionale?
La selezione italiana è forte, ma non è la più forte dell’Europeo. Sulla carta, ci sono almeno un paio di squadre superiori (Francia e Belgio) e altre che sono più o meno al nostro stesso livello (Germania, Inghilterra, Portogallo). Poi c’è l’incognita Olanda, mina vagante che potremmo trovarci di fronte ai quarti se passassimo il prossimo turno, presumibilmente contro l’Ucraina di Shevchenko.
A livello di rosa, l'Italia ha un ottimo centrocampo. Mancano stelle internazionali del calibro di Pogba o di De Bruyne, ma in questo reparto non ci sono altre squadre che possano contare su un livello medio alto come quello degli azzurri, soprattutto se prendiamo in considerazione anche la panchina.
Il discorso è molto diverso per quanto riguarda l'attacco, dove gli esterni e le mezzali non mancano, ma Immobile è di fatto l'unica prima punta di livello su cui possiamo contare. Raspadori è infatti ancora troppo acerbo e inesperto, mentre Bellotti non è più il calciatore prolifico di qualche anno fa.
Quanto alla difesa, rischiano di pesare i guai fisici di Chiellini, che è senza dubbio il più grande stopper azzurro dai tempi di Cannavaro ed è l'unico vero leader di reparto. Acerbi è un buon sostituto, ma in termini di carisma e di esperienza internazionale non c'è nemmeno da fare il paragone.
Il più grande motivo di ottimismo legato a questa squadra è l'età media. Per moltissimi anni siamo stati abituati a guardare una nazionale fatta di campioni sul viale del tramonto. Adesso, finalmente, abbiamo di che sperare per il futuro.