di Vincenzo Maddaloni

Tutto quest'odio delle milizie jihadiste dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (meglio noto come Califfato dell’ ISIS) verso gli Stati Uniti, ha scatenato una campagna mediatica che ci rimanda indietro di un decennio e più. E per certi versi all'America giova. Infatti tutto suonerebbe molto strano se non si sapesse che la religione è stata ed è un elemento fondamentale, sicuramente centrale, dell’identità americana, plasmata per quasi quattro secoli dai movimenti religiosi.

L’America è di gran lunga la più praticante delle altre nazioni industrializzate. Gli americani, o per essere più esatti la gran parte degli americani, rispecchia la propria identità nazionale nelle proprie origini e nella propria religione.

Anzi, secondo lo scomparso politologo di Harvard, Samuel Huntington, l’identità tradizionale americana è costruita intorno al ‘the Creed’ (“il Credo”), ossia la fede tipicamente americana nella libertà, nella democrazia e nei diritti individuali. Una matrice, secondo Huntington, pienamente anglosassone, intorno alla quale si saldano la cristianità, la lingua inglese, the rule of law, la responsabilità dei legislatori, i diritti del singolo, insieme a elementi spiccatamente protestanti come la fede nella capacità e nel dovere dell’uomo di provare a creare un paradiso in terra. Quella che gli ambienti evangelici chiamano ‘a city on the hill’ (“una città sulla collina”).

Huntington è rimasto un personaggio molto ascoltato e molto discusso da quando pubblicò, alla fine del secolo scorso, “Lo scontro di civiltà e la ricostruzione dell’ordine mondiale”, nel quale teorizza che “gli scontri tra civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal pericolo di una guerra mondiale”.

Dopo la tragedia dell’11 settembre Samuel Huntington aveva goduto di attenzioni sempre maggiori da parte dei media, americani e non. Prova ne fu il putiferio che nell’estate del 2005 aveva destato negli Usa l’uscita del suo ultimo libro, Who are we?, che si confronta con la questione dell’identità nazionale americana. “Anche Sparta e Roma sono infine cadute. È dunque giunta l’ora degli Usa?”, si chiedeva preoccupato l’autore. Sicuramente se lo domandano anche oggi in tanti mentre scorrono le immagini sull'Iraq.

Molto vi influisce anche il fatto che negli Stati Uniti vivono circa 6 milioni di musulmani, la maggior parte dei quali non ha origini arabe: il 40 per cento è afro-americano, il 25 per cento indo-pakistano e il restante 35 per cento è composto da arabi, afghani, turchi, africani e caucasici (uzbeki, turkmeni, tartari, eccetera). Circa i tre quarti degli arabi americani sono immigrati negli Stati Uniti dopo il 1965 quando l’Immigration Act ha portato ad un’estensione del sistema a quote.

Benché una parte consistente degli arabi americani non sia musulmana, ma cristiana (i primi gruppi di immigrati arabi negli Usa arrivarono alla fine dell’Ottocento e si trattava perlopiù di cristiani provenienti dalla Siria e dal Libano) non fa differenza per l'America “bianca”, che è tornata a vedere nemici dappertutto, come non accadeva dai tempi dell'attacco alle due Torri.

E' un sentimento di paura sul quale fanno leva personaggi come il senatore repubblicano John McCain, che è il leader dell'opposizione politica al presidente Obama, ma nello stesso tempo egli è pure uno dei suoi più alti funzionari perché, come ricorda il politologo Thierry Meissan, “McCain è dal 1993 il presidente dell'International Republican Institute (IRI), il ramo repubblicano della NED/CIA. Questa cosiddetta "Ong" è stata ufficialmente istituita dal presidente Ronald Reagan per estendere alcune attività della CIA in collegamento con i servizi segreti britannici, canadesi e australiani”.

Naturalmente quella che per noi appare come un'insanabile contraddizione, risponde a un disegno preciso che si riassume nello slogan: “Invece di essere il mondo a plasmare l’identità americana, sarà l’identità americana a ridefinire il mondo”. Insomma pur di tenere alto il concetto dell'Imperial America i repubblicani e i democratici si affratellano, poiché è opinione diffusa che sebbene la tesi di Huntington sullo scontro di civiltà si era rivelata superficiale e politicamente pericolosa, l’America se ne era servita per lanciare un'offensiva mediatica che giustificasse l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. E il risultato fu giudicato più che buono.

Su quella tesi aveva lavorato un piccolo nucleo di neoconservatori, a iniziare da Norman Podhoretz, Richard Pearle, David Frum, Bernard Lewis, Fuad Ajami e dal ‘prediletto’ del presidente George W. Bush, l’ex dissidente sovietico e politico israeliano di destra Natan Sharansky. Tutti uomini accomunati dalla stessa visione del mondo musulmano, descritto come un universo in decadenza continua, dovuta ai difetti culturali, psicologici e religiosi delle società islamiche.

E’ l'immagine dell'Islam che viene riproposta in queste settimane dalle televisioni, e fa da sottofondo mentre scorrono le riprese che giungono dall’Iraq. Di fronte a un terrorismo che, in qualsiasi momento, può ricorrere alle armi di distruzione di massa, (chimiche, batteriologiche, perfino nucleari) l’America - questo è il messaggio - non può aspettare, ma deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, eliminandone le tare e costringendolo a democratizzarsi. Il che vuol dire piantare city on the hill dappertutto anche con l'aiuto dei droni o dei carri armati se necessario.

Così conclamando gli Stati Uniti si assicurano ogni libertà d’azione, un po’ come nel secolo scorso accadeva con la minaccia del ‘socialismo reale’ dell’Unione Sovietica. E nel contempo essi si presentano come i veri “difensori della democrazia”, come il “modello di civiltà”. Sicché il Medio Oriente in fiamme, diventa la preziosa occasione per riaffermarsi agli occhi del mondo nel ruolo di superpotenza. Così l'Imperial America può regnare sovrana, senza il timore di essere sopraffatta, poiché, come ricorda il film con Alberto Sordi, “Finché c'è guerra c'é speranza”.

La veste di “difensori della democrazia”che gli Stati Uniti si assumono, è una configurazione teorica che mette insieme il fondamentalismo cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, per certi versi seducente nella sua perversione. Avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana si proietta verso l’esterno assumendo una forma aggressiva, unilaterale, arrogante, ma seducente agli occhi di chi la sostiene.

Infatti, in un’intervista rilasciata a Jeffrey Goldberg, giornalista dell’Atlantic, l'ex segretario di Stato Usa Hillary Rodham Clinton ha criticato duramente il presidente Barack Obama (ai minimi di popolarità negli Stati Uniti). Secondo Hillary Clinton, se lo Stato Islamico è riuscito a conquistare tanto terreno in Iraq è grazie a un vuoto di potere creatosi sul campo. Vuoto di cui gli Usa sarebbero diretti responsabili, a partire dalla decisione di non intervenire nella guerra civile siriana.

Insomma, ella ha lasciato capire senza mezzi termini,  che considera l’ approccio del presidente Obama alla politica estera troppo cauto poiché è convinta che, “Obama deve prendere esempio da Netanyahu, perché se avessimo agito con la stessa decisione in Siria i combattenti della Jihad non ci sarebbero sfuggiti di mano, come poi è accaduto.”, ha concluso l’ex segretario di Stato.

Stando così le cose non c’è speranza di modificare - Obama vi ha tentato soltanto a parole - una politica estera indissolubilmente nazionalista stravolta da una de-secolarizzazione crescente. Infatti, il ‘the Creed’ è diventato quasi una sorta di ossessione. Non c'è discorso, commento, nel quale non venga menzionato. Questo spiega la facilità con cui si continuano a tollerare metodi come la tortura e si investe di poteri illimitati il Presidente, consentendogli di tenere in carcere indefinitamente persone che non solo non sono state giudicate, ma sovente nemmeno accusate.

Secondo Amnesty International, dopo l’11 settembre oltre 1200 persone di origine mediorientale (o appartenente a comunità musulmane) erano state arrestate. Più di un anno dopo, 327 erano ancora segretamente detenute, dopodiché il Dipartimento di giustizia ha smesso di fornire le cifre. Sicché la questione della sicurezza nazionale ha portato ad abusi (Guantanamo) che hanno scavalcato il drammaticamente famoso reticolato delle basi militari, diventando una pratica corrente, destinata a durare chissà per quanto tempo ancora.

Intanto, le ultime notizie del New York Times narrano di  un governo americano che discute sulla possibilità di allargare alla Siria il suo impegno contro lo Stato Islamico (IS), la milizia di estremisti sunniti che - come detto - ha conquistato gran parte del nord dell’Iraq e della Siria orientale. A confermare la volontà degli Stati Uniti di aumentare l’impegno contro l’IS, Martin Dempsey, capo dello stato maggiore congiunto (cioè l’ufficiale di rango più elevato delle forze armate), ha dichiarato l’altro ieri, che non è possibile sconfiggere l’IS senza colpire in Siria.

Poche ore dopo, il segretario alla Difesa Hagel ha ammesso che al momento “tutte le possibilità sono prese in considerazione”. Anche i membri del partito repubblicano - e non potrebbe essere diversamente - sono favorevoli a un intervento maggiore. A togliere le ultime perplessità ci ha pensato il senatore John McCain,  ricordando al Congresso che lo Stato islamico «è un cancro che si è diffuso nella regione e che può arrivare fino in Europa e negli Stati Uniti».

Riemerge così lo scenario del Golfo di dieci anni fa. E dunque, la guerra in Medio Oriente, la Jihad, offrono di nuovo il pretesto per riproporre il tema della superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica, o della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana.

Con l’intento di riaffermare le vecchie immagini, gli antichi capi d’accusa secondo i quali l’Islam è una religione violenta e che si è diffusa con l’uso delle armi; una religione dissoluta dal punto di vista morale, piena di false affermazioni e di consapevoli capovolgimenti della Verità.

Pertanto, Maometto, con tutte le sue debolezze morali, non poteva che essere il fondatore di una falsa religione e, come tale, uno strumento o un inviato del demonio. Dichiarazioni come quella del senatore John McCain, ci riportano di colpo all’epoca delle crociate, durante le quale la ricerca di un nemico detestabile per una guerra giusta e santa - la liberazione dei cristiani d’Oriente - necessaria alla creazione del mito aggregante dell’Europa attorno al papato, non indicò più i musulmani come la gens perfida Saracenorum del monaco Flodoardo del X secolo, ma a individuare nei musulmani il nemico da abbattere.

Si negava in tal modo alla cultura musulmana ogni significato spirituale o religioso attraverso gli scritti di Pietro il Venerabile, San Tommaso d’Aquino, Ricoldo di Montecroce. L’Islam diventava impostura, perversione deliberata della Verità, la religione della violenza e della spada, con Maometto che rappresenta l’anticristo, e via di questo passo. Così gli stereotipi negativi sul mondo musulmano hanno percorso l’Europa, varcato gli oceani sopravvivendo nella coscienza occidentale. Anzi sono riesplosi dopo che si è visto il video con  l'esecuzione del giornalista americano James Foley.

Questo accade anche perché le insoddisfazioni sociali, la partecipazione comunitaria che nel secolo scorso erano espresse dalle ideologie marxista o nazionaliste, si sono incanalate sui percorsi religiosi assumendone i rituali e i linguaggi. Se l'America si avvita intorno alla city on the hill, al ‘the Creed’, l'Europa cristiana tende l'orecchio a papa Francesco e ne assorbe i consigli.

Dall'altra parte del Mediterraneo, il bisogno di sicurezze, di valori autentici in un’epoca così confusa e incerta ha ritrovato, dopo il fallimento delle tante primavere arabe, nell'Islam l'unico punto di riferimento. Il Califfato ne è la conferma?

Si tenga a mente che l’Occidente ha dedicato fondi ed energie per studiare gli usi e i costumi dei musulmani, ma nessuno ha mai veramente concesso agli altri di studiare gli usi e i costumi dell’Occidente. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalla possibilità per i musulmani agiati di andare a studiare a Oxford, a Parigi, ad Harvard. Perché una volta tornati a casa, sono proprio costoro che si arruolano per primi nei movimenti fondamentalisti? Perché hanno scoperto che in Occidente qualcosa non funziona? O le ragioni sono altre? Gli Stati Uniti la risposta l'hanno data, l'Europa in silenzio si associa.












di redazione

Scritto, diretto ed interpretato da Simona Lacapruccia, con i danzatori Daniele Toti e Silvia Pinna, realizzato con la produzione GDO, lo spettacolo Bellissima - omaggio ad Anna Magnani è stato vincitore del concorso teatrale nazionale “Teatrando, oggi il teatro lo facciamo noi” nel 2013. Ora, dopo aver debuttato nel 2014 al teatro Tordinona e Studio Uno di Roma, è in questi giorni in concorso alla manifestazione del “Roma Fringe Festival” 2014.

Proprio a 40 anni della morte di Anna Magnani è giusto che venga ricordata e omaggiata una donna che tanto ha dato all’Italia, al cinema e al teatro con il suo lavoro, fatto con estremo amore e dedizione.

Bellissima - omaggio ad Anna Magnani
, è uno spettacolo delicato che ripercorre le tappe più importanti della vita della grande attrice romana. Una donna forte, passionale ma anche dolce e sensibile, che metteva tutta se stessa nel lavoro e nei rapporti umani. Grazie all’intrigante connubio con la danza, che esemplifica nel gesto le parole, il pubblico si immerge nella vita di Nannarella, simbolo di Roma e del cinema internazionale.

Una vita piena, vissuta con coraggio; dall’infanzia priva degli affetti più importanti, quelli di un padre e di una madre, alla passione travolgente per la recitazione, dalle relazioni turbolente con uomini come Roberto Rossellini all’amore più forte, quello per l’adorato figlio Luca, malato di poliomelite. Ragazzo timido ma forte, che le rimase accanto fino alla fine con coraggio, quando un tumore al pancreas la portò via troppo presto ad una Roma in lacrime.

Attraverso il monologo, nel quale le parole di Anna Magnani risuonano, il pubblico entra nell’intimo dell’animo della grande attrice, delicata e passionale, taciturna e “caciarona”, nostalgica e intraprendente.

L’attrice metteva tutta se stessa nell’interpretazione dei personaggi, delle donne a cui dava voce, corpo e anima grazie a uno studio intenso e approfondito.

Pina, la protagonista di Roma città aperta, la monumentale e tragica Mamma Roma di Pasolini che balla lo struggente valzer con l’attore-figlio o Maddalena, protagonista divertente ma intensa di Bellissima, tutte le donne da lei interpretate avevano qualcosa di se stessa: la forza, la dolcezza, la poesia, il dolore, l’inconfondibile risata…Quello che si evince dallo spettacolo è che a rendere indimenticabile Anna Magnani sia stata proprio la passione.

Bellissima è scritto e recitato da Simona Lacapruccia in forma di monologo, come fosse una lunga lettera composta da tante ipotetiche lettere che Anna Magnani avrebbe potuto scrivere, alla madre che l’ha abbandonata troppo piccola, al figlio Luca, ma è anche una sorta di “confessione” o “sfogo” che l’attrice fa al suo pubblico.

La passione per il suo lavoro, per la vita anche se difficile, per gli uomini, per il figlio, per l’arte e per il cinema che l’ha tanto osannata quanto poco considerata alla fine della sua carriera come filo conduttore di una vita intera.

Come dice il figlio Luca, Anna Magnani si è fatta strada in un mondo maschile e maschilista e l’ha fatto da sola, spinta dall’amore per il suo lavoro, dallo studio profondo per migliorare, dall’essere autocritica e pignola e dall’amore per la recitazione.

Lo spettacolo è impreziosito e reso ancora più emozionante dalle coreografie dei danzatori, che danno corpo alle parole di Anna Magnani, arrivando a toccare con la loro danza le corde del cuore degli spettatori.

di Vincenzo Maddaloni

Quando, giovedì 18 maggio del 1989, piazza Tienanmen si gonfiò di operai, contadini, massaie, in aggiunta alle migliaia di studenti impegnati in un drammatico sciopero della fame che li abbatteva a decine per sfinimento, e mentre l'esempio di Pechino veniva seguito dalle altre maggiori città del Paese, il sogno di libertà e democrazia sembrava - 25 anni fa - a portata di mano in Cina.

Infatti, non c'era stata nessuna violenza da parte dei dimostranti, i militari s'erano dichiarati non disposti a marciare «contro i nostri figli», le reiterate promesse di Zhao Zyang, segretario del Partito comunista cinese  (che poi sarà punito dal regime cinese con gli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta all'età di 85 anni nel 2005), tutto insomma sembrava presagire l'arrivo di una "primavera" che si andava delineando da tempo e che si manifestava apertamente alla vigilia della visita in Cina del segretario del Pcus Michail Gorbaciov. Siccome gli studenti avevano cominciato a chiedere una informazione senza bavaglio, i giornali erano  come non  mai, in quei giorni, un osservatorio privilegiato su quanto andava accadendo.

"Hanno ragione gli studenti ad esigere la libertà di stampa», mi diceva Fan Rong Kang, "fanno bene i giornalisti ad accodarsi al loro coro: bisogna cambiare». Il signor Rong Kang a quel tempo era il vice direttore del Quotidiano del Popolo, 4 milioni di copie, l'organo del Partito. L'avevo incontrato nell'ultimo giorno del vertice russo-cinese, che era stato l' esatto contrario di quel "momento storico" che tutti noi “inviati a Pechino” ci eravamo immaginato di descrivere.

Le giornate di Michail Gorbaciov in Cina dovevano essere per Deng Xiaoping le giornate del trionfo, il punto culminante dei suoi settant'anni di carriera politica, che comprono la gran parte della storia del comunismo cinese. Deng rappresentava negli Anni '49-'58 l'amicizia con l'Urss, poi la rottura, della quale fu uno dei massimi protagonisti, il più esposto alle umiliazioni quando Krusciov nel luglio del 1960 ritirò i tecnici e i crediti con i quali la Repubblica popolare iniziava a risollevarsi dai disastri della guerra.

Il fatto che Gorbaciov avesse finito con l'accettare tutte le richieste poste dalla diplomazia cinese doveva essere appunto per Deng Xiaoping il coronamento della sua carriera di leader. Invece, dapprima la rivolta degli studenti che agitavano striscioni con su scritto "Liberiamo la Cina dal feudalesimo", e "Benvenuto compagno Gorbaciov, iniziatore della glasnost", e poi il dilagare della protesta nel Paese, gli avevano non soltanto eroso il prestigio, ma anche guastato la festa facendo prevalere, su ogni altra, l'immagine della gravissima crisi che stava vivendo nel 1989 il regime comunista cinese.

«La stampa ha la sua grande parte di colpa - mi spiegava Fan Rong Kang - i guai sono cominciati verso la fine di Aprile, quando gli studenti sono andati a protestare davanti alla sede del Partito. Sono nati dei tafferugli, gli studenti sostenevano di essere stati duramente picchiati dalle forze dell'ordine. Queste affermavano il contrario. I giornali hanno taciuto, a cominciare dal mio. Sarebbe bastato riportare le due versioni. Non lo si è fatto poiché, come è abitudine nei sistemi socialisti, le notizie non vengono diffuse prima che le indagini siano concluse. L'eccessiva prudenza, questa volta, ci si è rivelata fatale».

Per giorni e giorni c'eravamo chiesti come sarebbe finito l'assedio di piazza Tienanmen. Se avrebbe prevalso la ragione cercando il dialogo con la società e cogliendo l'occasione per ampliare alla sfera politica il rinnovamento già attuato in quella economica. Invece prevalse il folle istinto della restaurazione, tremenda fu la controffensiva di un gruppo di potere che si sdraiò sulle baionette dei suoi soldati lanciando anatemi contro «le forze controrivoluzionarie» che andavano liquidate con «una guerra ad oltranza».

Così, con raffiche delle mitragliatrici s'era disintegrata la posizione di prestigio che la Cina s'era conquistata in dieci anni di riforme. Il bagno di sangue l'aveva di nuovo isolata dal resto del mondo, aveva dissolto l'immagine di Paese pragmatico, interessato soprattutto alla crescita economica che Deng aveva pazientemente tessuto per quasi un decennio conquistandosi la popolarità internazionale.

E' proprio l'enormità del massacro, visto da milioni di occhi collegati via satellite alla piazza Tienanmen, che condannò la Cina al più cupo isolamento. La sproporzionata repressione, il ricorso al linguaggio del comunismo "puro e duro", l'improvvisa marcia indietro, restano a tutt'oggi incomprensibili. A meno che non si cerchi una spiegazione di quanto è accaduto nella Storia stessa della Cina. Infatti, il rifiuto d'una cultura arcaica che da secoli s'oppone ai cambiamenti, era stato da sempre il filo conduttore delle rivolte studentesche: dal 1919 alla guerriglia contro il Kuornintang, alla Rivoluzione culturale, ai moti del '74 e del '78 contro il maoismo, alle dimostrazioni per la democrazia dell'86 e dell'aprile-maggio di 25 anni fa. «Non ci accontentiamo di diventare adulti», gridavano i ragazzi cinesi. «Vogliamo diventare uomini».

Ricordo che in piazza Tienanmen avevano innalzato lo stesso tatzebao che un anno prima era affisso nel campus di Beida, il più prestigioso ateneo di Pechino. Vi era scritto: «Siamo una generazione con il senso dell'individualismo e dell'inventiva, ricca di ideali che la danneggiano, piena di curiosità inopportune, considerata l'atmosfera. Vorremmo dare un nostro contributo, ma le aspirazioni battono il naso nella realtà, i progetti si dimostrano inattuabili, lo spirito fa a pugni con il corpo. Che tristezza! I sogni e l'entusiasmo muoiono, a causa della contraddizione fra i diritti con cui ogni essere umano nasce e le catene che gli vengono imposte». E poi c'era la chiusa contro il potere: «Il Governo ci ha dato un po' di benessere, ma sul piano morale nulla: non ha valori da proporre alla società se non il valore dei soldi».

Gli universitari chiedevano la modernizzazione nella quale la democrazia, una democrazia minima, di base - libertà d'espressione, di riunione, di stampa - rappresentava soltanto l'aspetto politico. Più importanti erano le loro richieste d'ordine morale (pulizia nell'apparato amministrativo, lotta alla corruzione), e d'ordine culturale, che sono poi le caratteristiche del movimento studentesco cinese a cominciare dalla sua nascita, 95 anni fa, il 4 maggio del 1919.

«L'immagine che i giovani hanno oggi della classe al potere è la peggiore di questi quarant' anni per via della corruzione dilagante, con migliaia di funzionari del partito sotto inchiesta; per via degli squilibri che la riforma ha provocato nella società: la nuova povertà dei salariati e la nuova ricchezza dei piccoli imprenditori, dei commercianti, dei burocrati, che per firmare una licenza esigono tangenti», mi diceva Shen Rong, quasi certamente la più impegnata scrittrice cinese del Novecento.

Avevo chiesto a Shen Rong se davanti alla sfida della piazza, una sfida pacifica ma non per questo meno rivoluzionaria, il potere cinese avrebbe potuto cavalcare la tigre del malcontento aprendo alla democrazia con una soluzione "gorbacioviana". Lei aveva risposto richiamandosi al concetto chiave della civiltà cinese, quello dell'armonia sulla quale andrebbero monitorati i rapporti tra gli uomini. «Non possiamo compiere fughe in avanti. Con questo non voglio dire che non bisogna aprire alle tecnologie occidentali, ma tutte queste iniziative vanno intraprese cercando nel frattempo di imporre alla nostra società una crescita armoniosa. E non ci può essere armonia se accanto ai nuovi ricchi c'è una massa con degli stipendi da fame».

Più o meno ella mi aveva ripetuto quello che Lu Xun, l'ideologo della prima rivoluzione studentesca, scrisse nel 1919: «Il Paese corre verso il baratro. Ciò accade perché non possediamo una nuova morale e una nuova scienza. Ciò accade perché abbiamo una cultura che fa pietà, dopo essere stata tante volte demolita e tante volte rabberciata». 

Venticinque anni dopo c'è ancora il silenzio su quelle immagini dei morti di piazza Tienanmen. Non c'è stato un chiarimento sulle cause vere che avevano provocato quella primavera di sangue. Cosa gridavano gli studenti in quei giorni di giugno del 1989? Gridavano: «Non ci proponiamo di abbattere il partito, ma semplicemente di spingerlo a prendere coscienza dei grandi cambiamenti che è stato capace di produrre negli ultimi dieci anni e ad adeguarvisi».

Chiedevano il riscatto dell'utopia cinese classica della Grande Armonia, secondo la quale la democrazia va appunto intesa come la grande armonia. Di fronte ai problemi di sempre: disoccupazione, sovrappopolazione, corruzione i giovani avevano rispolverato il concetto della Grande Armonia, senza sapere che né Zhao Ziyang, né tanto meno Li Peng avrebbero potuto creare dal nulla i dieci milioni di posti di lavoro per gli altrettanti studenti che si sarebbero diplomati nei tre anni successivi.

Tuttavia, quale altra protesta potevano sollevare se la loro esperienza storica sul progresso e sulla democrazia era tutta racchiusa negli ultimi 80 anni di Storia della Cina: il crollo del Celeste Impero, l'assorbimento del marxismo ancora in chiave confuciana, la rivoluzione di Mao, le riforme di Deng? Beninteso che le riforme, la politica della "porta aperta", la "grande apertura verso il mondo" avessero provocato storture e malesseri era prevedibile da tutti, ma nessuno si aspettava di vedere falciare tanti giovani dai cingoli dei carri armati. Meno che mai gli studenti di piazza Tienanmen.

Invece, dopo il massacro di quel 4 giugno del 1989 accanto a Deng Xiaoping riapparvero gli ottuagenari, i conservatori del "Consiglio dei saggi" usciti dalle tenebre dove erano stati ricacciati dal Congresso del 1987. Le telecamere si posarono su quei visi immobili, su quella gerontocrazia della Lunga Marcia che accumulava sospetti sulla perestrojka e sulla glasnost, moltiplicava le diffidenze sulla sincerità riformista di Gorbaciov e sul successo duraturo delle sue trasformazioni. Del resto la Cina con quel processo di “apertura" s'era già spinta più avanti della Russia di Gorbaciov. Una classe media si stava già consolidando, gli studenti educati con gli slogan della “porta aperta” esigevano una nuova morale, l'ala del partito che faceva capo a Zhao Zyang considerava già inevitabile il varo d'una riforma politica.

Nel 1989 in Cina, l'egualitarismo, l'obbedienza, il sacrificio erano diventati concetti desueti. Le riforme economiche stavano uccidendo la vecchia ideologia, senza crearne una nuova, perché il Pcc, una volta sfaldatasi la retorica socialista, non aveva saputo far altro che tentare la via del pragmatismo, che era stata poi quella che aveva dato lo spunto alla contestazione studentesca. Poi, come accadde nel 1966 ai tempi della rivoluzione culturale, la Cina fu riportata all'ordine dai militari e fu annunciato il nuovo rigore dal quale avrebbe dovuto nascere la nuova Grande Armonia orchestrata dai militari. Sicché Deng, l'uomo delle riforme che sembrava guardare con simpatia alla Russia di Gorbaciov, si consacrerà alla Storia come l'uomo che il 4 giugno del 1989 in piazza Tienanmen seppellì nel sangue un sogno.

A ben vedere, il  "Diario di un Pazzo", scritto e pubblicato nel 1918, conserva il sapore della profezia, poiché Lu Xun - l'autore - raccolse l'appello comune che avrebbero voluto lanciare all'unisono tutti i giovani intellettuali cinesi dell'epoca, le cui idee nuove, le cui speranze, venivano frustrate dall'apatia, dalla rassegnazione, e dall'ottusità delle classi dirigenti e della società stessa. «Dovete cambiare, cambiare dal profondo dei vostri cuori. Dovete capire che non ci sarà più posto per i mangiatori di uomini in futuro. Se voi non cambiate, finirete tutti mangiati, gli uni dagli altri... finirete uccisi come i lupi dai cacciatori, come i rettili!». A distanza di così tanto tempo  il suo appello è quanto mai attuale, e non soltanto in Cina. Provate a pensarci.


di Liliana Adamo

Se per Michael Crichton il global warming è giusto una sovrastruttura mentale, un artificio che in realtà non esiste, gonfiato a dismisura da un gruppo di maniaci ambientalisti, sostanzialmente diversa è l’opinione di Jared Diamond, autorevole “biogeografo”, psicologo evoluzionista dell'Università della California a Los Angeles, già vincitore del premio Pulitzer con il bestseller “Guns, Germs, and Steel”, che ci illustra come alcune civiltà, di fatto e con disinvolta ottusità, depredando sistematicamente il proprio ambiente, si siano indirizzate al suicidio di massa.

Dal suo libro “Collapse: How Societies Choose to Fail or Succede” (tradotto e pubblicato in Italia da Einaudi, che presenta anche il suo ultimo lavoro,“Il mondo fino a ieri”), un monito a tirarci fuori pericolo finché siamo in tempo.

Stimando l’enorme successo commerciale raggiunto negli States di questo splendido (e sconcertante) saggio, siamo portati a considerare unilaterale la sensibilità degli americani: nulla han potuto Kyoto, AbuGhraib, Guantanamo e l’unanime biasimo alla politica bellicista dei neocon e dei loro sostenitori, gli yankee paiono sconvolti dalle prospettive di disastro ecologico incombente sul pianeta (in ogni luogo, finanche a casa loro), piuttosto che prestar fede alle aprioristiche rimostranze di noi europei.

Un’intera sezione ispirata al bestseller e alle posizioni del professor Diamond è riconoscibile fra i padiglioni del “Natural History Museum” di Los Angeles. Spettacolari proiezioni di costruzioni ancestrali, raggi di luci misteriose a memoria d’antiche civiltà cadute, per un evento tra show e cultura, una serie dinamica d’esposizioni e discussioni intorno alle tematiche ambientaliste, le cui sorti sono legate alla società globale contemporanea. A questo proposito la domanda che ci si pone è se “gli irritanti rumori di fondo”, tali stati ravvisati gli argomenti dell’attuale movimento ambientalista d’oltreoceano, si rianimeranno grazie alle riflessioni sollevate da un “biogeografo” di fama, o perdureranno nella consueta rotta fallimentare.

In un recente editoriale del New York Times, Nicholas D. Kristof, autore di reportage, ecologista e premio Pulitzer, scriveva: “Da un certo punto di vista, siamo tutti ambientalisti, ora…Più di tre quarti degli americani concordano sul fatto che il nostro paese dovrebbe fare ogni cosa per proteggere l’ambiente; ma il sostegno all’ambiente fa coppia col sospetto verso gli ambientalisti.

La Morte dell’Ambientalismo sottolinea come un sondaggio del 2000 rileva che il 41% degli americani considera gli attivisti di quest’area come degli estremisti. Esistono ambientalisti seri, naturalmente, ma quelli con eccesso di zelo hanno fatto terra bruciata. La perdita di credibilità è un fatto tragico, perché d’ambientalisti ragionevoli c’è un urgente bisogno…Sarebbe un fattore critico avere un movimento ambientalista credibile, articolato e dotato di sfumature, molto rispettato. Ma ora, temo, non ce l’abbiamo.”

Dunque, l’America è persuasa alle tesi di Diamond, o solo genericamente sedotta dal proliferare di un “nuovo sentire sociale”, pur diffidando dei propri attivisti e “delle azioni estreme”, in assenza di un movimento “articolato” (come suggerisce Kristof), dinamico sul territorio, le speranze per risollevare il problema sotto il mero aspetto politico, si riducono al minimo, a danno del mondo intero.

Di fronte al collasso incombente, la richiesta sempre più pressante di difenderci unicamente da noi stessi e dal caos che abbiamo generato, di fronte alla storia che ci ha preceduto, ricorre un eccedente d’esempi rivelatori, anche quando si rimescola ai miti e leggende, alle utopie, alla fantascienza o alle più irreali creazioni letterarie, propinata come un ammonimento e un modello di prova, senza però riuscire ad avere risposte per sollecitare interventi, per sapere qual è la direzione.

Esistono disuguali dinamicità: se da una parte la società occidentale ha imboccato la strada di non ritorno (il protocollo di Kyoto appare un trattato già scaduto, inadeguato, a dispetto del fatto che la prima potenza mondiale lo rigetti tout court), dall’altra l’indagine empirica sulle ragioni di una società organizzata che cessa di vivere e tramandarsi, è appena agli albori.

Così come le recenti tecnologie e nuovi sistemi d’idee e d’organizzazione collettiva, in grado di risanare il pianeta ed evitare il tracollo, al momento rimangono, per gran parte, impraticabili. Di queste colpe e omissioni la nostra civiltà dovrà renderne conto già dalla prossima generazione (e, parafrasando Kristof, non crediamo affatto d’essere estremisti).

L’impianto narrativo che adotta il professor Diamond si serve di un metodo comparativo basilare, descrivendo e classificando, riferendo dei problemi in modo schietto e diretto. La domanda è molto semplice ed è riportata sul retro copertina:”Perché” si chiede, “alcune società e non altre perdono il criterio fino ad auto-distruggersi? Perché alcune società prendono decisioni disastrose e cosa comporta questo per noi?

Il lungo resoconto è attraversato dai tentativi fallimentari di società e d’intere popolazioni. Analizzando analogie e discordanze, un metodo già adottato in opere antecedenti (vedi “Why Is Sex Fun?: The Evolution of Human Sexuality), il riscontro con situazioni presenti nel nostro momento storico è a tal punto calzante che produce al lettore l’effetto di un brivido gelido lungo la schiena.

Paradossale quanto la nostra civiltà conclusa nella globalizzazione non abbia distribuito pari opportunità a tutti, invece che un’interdipendenza di disgrazie: alterazioni climatiche, modificazione degli habitat naturali, distruzione delle bio-diversità e degli ecosistemi. Le medesime fragilità e instabilità sociali e politiche, guerre globali.

Certo, usiamo internet e gli aerei, ci serviamo di tecnologie domestiche che soltanto vent’anni fa erano impensabili, siamo forniti di conoscenze e competenze che potrebbero procurarci la chiave di lettura per disporre del nostro destino in modo benevolo, attuando una svolta.

Jared Diamond, studia a fondo dati apparentemente secondari e congiunturali di società primitive, sopraffatte da un disastro ecologico auto-prodotto. Un corto circuito che ha annientato del tutto un lungo degrado; in questo modo remote civiltà polinesiane dell’isola di Pasqua, i Maya, i Vichinghi dell’antica Groenlandia, si mettono a confronto, in assetto “scientifico”, con gli stati emergenti del Terzo Mondo, come il Ruanda, Haiti, la Repubblica Domenicana.

Paesi che difficilmente potranno sopravvivere al disordine, alla disorganicità, con governi scriteriati, povertà e sovrappopolazione; viceversa, paesi apparentamenti forti sui mercati globali come la Cina, l’Australia, gli stessi Stati Uniti, sistemi organizzati e complessi che mostrano già le loro crepe, le sindromi di sperpero e decadenza.

Gli antichi “Moai” simboli di potere e solitudine

Eclatante storia quella di Rapa Nui o Te Pito o te Henua, o comunemente detta, Isola di Pasqua (nome dato da Jacob Roggeveen, nel giorno di Pasqua del 1722). E’ in questa grande roccia di 166kmq, nata dai vulcani del profondo Oceano Pacifico, una terra vuota e desolata, dove oggi non c’è più nulla e nessuno se non mandrie di cavalli allo stato brado che corrono sulle piatte e aride colline e quei grandi, solenni Maoi, testimonianze di un’enigmatica traccia, che Diamond ravvisa il germe, il sintomo premonitore per le società occidentali. Affascinante teoria, certo, non priva di un certo fondamento; il microcosmo e l’ecosistema di questo lembo remoto, al largo delle coste cilene, sta a rappresentare emblematicamente la “nostra terra”, l’ambiente che abbiamo manipolato e trasformato.

L’originaria Rapa Nui, prima di mutare nel simulacro di un’autodistruzione collettiva, era un’isola verdissima, con grandi e rigogliose foreste di palme e toromiri, (ne sono stati analizzati i pollini). Unica oasi per moltissimi chilometri traboccava d’ogni specie di uccelli, d’acqua e di terra, sule, gufi, aironi, rallidi e pappagalli. Intorno al 400 d.c., i Polinesiani della tribù dei Maori vi portarono galline, una specie di roditori commestibili e perfino maiali, al posto delle palme interrarono banano, canna da zucchero, taro, patate dolci.

Il suolo d’origine vulcanica di Rapa Nui era talmente generoso che le piante coltivate dai Polinesiani prosperarono con una facilità miracolosa. I Maori cominciarono così a disboscare le foreste per avere sempre più terreni a disposizione, e i roditori fecero la loro parte, divorando i semi degli arbusti autoctoni.

Per costruire canoe e trasportare le sculture in pietra dei Moai, si disboscarono le foreste in modo inesorabile, finché, nel giro di un millennio, sull’isola non rimase un solo albero; le piogge corrosero il suolo privo di vegetazione, causando l’impoverimento della terra e della resa agricola nel momento stesso della massima incidenza demografica (i Maori erano arrivati a 9000).

Il terreno eroso provocò la siccità dei corsi d’acqua che inaridirono. Privi del legno necessario per costruire imbarcazioni per catturare pesci e delfini, di cui si cibavano, i Maori e le loro gigantesche sculture di pietra rimasero “imprigionati” nella loro Rapa Nui, per sempre.

Mangiarono tutti i polli, poi tutti gli uccelli originari dell’isola. Fu sterminata ogni forma di vita vegetale e animale, cosicché iniziarono a mangiarsi tra loro, con veri e propri atti di cannibalismo. I gruppi di famiglie, costretti all’antropofagia per sopravvivere, intrapresero cruente guerre e quando nel 1722 l’olandese Roggeveen, sbarcò sull’isola, non vi trovò che centinaia di ossa ammucchiate in una terra desolata e pietrosa e pochi sventurati che guerreggiavano per sfamarsi. Molte statue dei Moai erano state distrutte, la ferocia dei loro creatori si abbatté come una mannaia per cancellare le “personificazioni” di un potere con cui gli antichi capi avevano raschiato la natura rigogliosa dell’isola e dunque la vita. Un potere che, alla fine, li aveva annientati.

Siamo ben consapevoli che Rapa Nui o comunemente detta Isola di Pasqua, nella sua “magnifica desolazione”, è soltanto una roccia sperduta nell’Oceano, al largo del Cile, battuta dalle tempeste e racchiusa nelle sue cupe leggende. Ben altro è il mondo occidentale, nei suoi insiemi sociali, culturali, dove tuttavia si dipanano le catastrofi descritte da Jared Diamond. Dove, tuttavia, agiscono persone e collettività dotate di volontà, sensibilità, capacità di decisione e d’azione. Diamond indica alle nostre società (e lo fa continuamente) d’operare una scelta. Ognuno di noi è l’esito delle sue propensioni, ma esistono margini per scegliere?





di Vincenzo Maddaloni

Con l’Ucraina “sull’orlo della guerra civile” come avverte Vladimir Putin, le minoranze in Europa diventano  di un’importanza cruciale. Fino al 2003 quando l’Ue era di 15 Stati esse raggiungevano i 20 milioni di persone, il 5 per cento della popolazione. Con l’Europa dei 28 sono 42 milioni, e rappresentano l’8,7 per cento dei 481 milioni di cittadini europei. Non c’è un dato ufficiale sul numero dei musulmani.

Il sociologo egiziano Ali Abd al-Aal, sostiene che sono più di 50 milioni quelli presenti in tutta l’ Europa. Secondo il Central Institute Islam Archive ce ne sono 16 milioni nell’Unione europea. In Bulgaria dove ne vivono un milione, dei quali 700 mila sono turchi, c’è senza dubbio la comunità meglio organizzata sotto il profilo politico.

Infatti, è quella bulgara la prima minoranza musulmana autoctona che dispone di  visibilità politica. Essa ha dal 1990 un proprio partito, il Movimento per i diritti e per le libertà, il DPS (in bulgaro: Dviženie za Prava i Svobodi; in turco: Hak ve Özgürlükler Hareketi, DPS o HOH), che alle ultime europee ha ottenuto il 20 per cento dei voti e che, dopo le lezioni politiche del 2013 occupa 36 seggi nel parlamento bulgaro.

Ma è in alcuni Paesi, come nelle repubbliche baltiche, che le minoranze hanno un peso numerico determinante per gli equilibri politici: il 17 per cento in Lituania, addirittura il 42 per cento in Lettonia. In Estonia dove raggiungono il 32 per cento  una persona su quattro è di madrelingua russa. Pertanto non è fantapolitica sostenere che, la crisi in Ucraina potrebbe avere effetti contagiosi irreversibili in tutta l’Europa, mettendo a rischio  la stabilità dell’ intera Ue.

Infatti, la Nato ha iniziato le esercitazioni aeree il 1° aprile sulla Lituania con atterraggi di emergenza ed operazioni di ricerca e di salvataggio. «Lo scopo di tali esercitazioni è risvegliare gli istinti da Guerra Fredda e dimostrare la necessità della Nato nelle condizioni di sicurezza attuali», ha detto l’inviato russo alla Nato, Aleksandr Grushko, aggiungendo che la Russia, «in ogni caso prenderà tutte le misure necessarie per garantire in modo affidabile la propria sicurezza».

La replica è giunta dall’ambasciatore dell’Estonia, Lauri Lepik: «Ciò che i Paesi baltici vogliono - ha dichiarato - è la presenza sul campo degli alleati». Un ex-ministro lettone è stato ancora più esplicito: «Vorremmo vedere un paio di squadroni statunitensi qui, soldati e anche una portaerei», ha dichiarato a l’Economist.

E così gli Stati Uniti hanno inviato sei F-15C in Lituania e una dozzina di F-16 e in Polonia, e hanno previsto ulteriori contingenti per le esercitazioni in Polonia e nei Paesi baltici, nonché l’aumento dei voli d’intelligence sul centro Europa. Il comandante dell’Alleanza, il generale Philip Breedlove ha spiegato quanto sia opportuno l’incremento delle potenza aerea e delle navi nel Mar Baltico, la creazione di una forza navale sul Mar Nero e l’arrivo dal Texas di una brigata di 4500 effettivi dell’esercito americano.

Si tenga a mente che il Guardian qualche giorno fa, ha tradotto e stampato il documento riservato di sette pagine pubblicato in esclusiva dal settimanale tedesco Der Spiegel, nel quale tra l’altro si legge che i comandanti della Nato hanno approvato il piano di esercitazioni di addestramento congiunto  con l’Armenia, l’Azerbaigian e la Moldavia per migliorare “l’interoperabilità tra le diverse forze armate e per assicurare la difesa dei giacimenti di petrolio e di gas sul Mar Caspio”.

Questo è nel più e nel meno lo scenario alla vigilia delle elezioni europee e 57 anni dopo la firma del trattato di Roma - 25 marzo 1957 - che suggellò la nascita della Comunità economica europea (Cee) divenuta poi Unione europea (Ue). Naturalmente da quando è caduto il Muro di Berlino la divisione fra «Est» e «Ovest» appare meno artificiosa, ma è emerso in maniera contraddittoria, da una parte il cosiddetto risveglio delle nazionalità e dall’altra parte il formarsi di enormi aggregati sopranazionali tenuti insieme dal miraggio di un facile benessere economico.

Così l’umanità che vi abita è dilaniata da una parte da particolarismi di sangue, di lingua e di religione ribelli e dall’altra parte dalla rincorsa quasi ossessiva verso un capitalismo sfrenato con la certezza che la crisi economica sia soltanto un fenomeno passeggero.

Va ricordato pure  che 12 dei 28 capi di governo che siedono attorno al tavolo del Consiglio europeo, inclusa la cancelliera Angela Merkel, fino a vent’anni fa erano sudditi di dittature comuniste. Sanno che cos’è la libertà perché hanno sperimentato cosa vuol dire non essere liberi. Tutti sono disponibili a trasformare la propria politica interna, l’economia, il diritto, i media, pur di assicurare libertà e welfare, ma la formula per riuscirvi è un continuo, delicato esperimento.

Infatti, non è difficile immaginare il malessere delle genti dell’Europa “allargata”, quelle che fino all’altro ieri, dietro la cortina di ferro, ambivano al benessere occidentale sperando nella fine del comunismo sovietico e che ora si ritrovano prigioniere della povertà, turbate dal crollo delle usanze tradizionali, furenti per le promesse non mantenute dall’Occidente, spesso disperate, spesso costrette a lasciare il proprio Paese o “peggio ancora” a fare emigrare i propri figli perché si ritrovano in casa la disoccupazione che prima non conoscevano.

Stando così le cose, la crisi in Ucraina rischia di produrre effetti imprevedibili  nell’éra della “surrealpolitik” il  nuovo genere di politica che subentra alla realpolitik della Guerra Fredda la quale era cinica ed insensibile, ma almeno si basava su una realtà oggettiva che le parti poterono comunemente riconoscere e quindi negoziare. Nel clima di surrealpolitik, dove tutto quello che si afferma essere vero viene difeso come vero, nonostante la realtà, e dove tutto oscilla sulla versione e sull’interesse di ciascuna parte, il confronto diventa arduo se non del tutto impossibile.

A far da fondale al tutto c’è pure il pesante malessere dei cittadini europei (20 milioni secondo il direttore del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde) che non hanno più lavoro, più casa, più risparmi, che si chiedono come potranno sopravvivere negli anni a venire e che vedono nella crisi ucraina un peggioramento delle proprie condizioni. Poiché lo scenario che si prospetta è quello segnato da una escalation delle tensioni fra gli Stati, dal momento che più le economie occidentali scivoleranno nel baratro dei deficit di bilancio, più gli altri fattori di destabilizzazione agiranno sulla governance mondiale.

C’è aria di Chagall in quelle dacie di vecchie scure travi, con le finestre ingentilite da tendine bianche e fiori in vasi e da cornici allegre e fantastiche intagliate e dipinte come merletti, seminate nei dintorni di Plovdiv, dove gli alti funzionari sovietici vi venivano a trascorrere il fine settimana. Plovdiv è la seconda città della Bulgaria, situata nella parte meridionale, lungo la strada che unisce l’Europa occidentale a Istanbul.

La fondò Filippo II di Macedonia (340 a.C.) chiamandola Philippopolis. In età romana fu il capoluogo della provincia di Tracia col nome di Trimontium, poi di Filibé durante la dominazione ottomana. Ma le popolazioni locali hanno continuato a chiamarla Pulpudeva (traduzione di Philippopolis) e in seguito Puldin per marcarne la connotazione slava, sebbene nutrita sia la presenza dei pomacchi o dei musulmani bulgari. Con quelli degli altri paesi dell’Europa centro-orientale essi rappresentano l’eredità religiosa dell’impero ottomano. Con la Turchia il rapporto è stretto.

Sicuramente, tra i cristiani e i musulmani dell’Europa dei 28 c’è una condivisione di idee  sugli effetti della dottrina dell’intervento armato preventivo - promosso dagli Stati Uniti con la guerra mondiale contro il terrore - che è sempre stata accolto con molta diffidenza dalle genti europee o almeno da una sua vastissima parte. E’ opinione diffusa che per riuscire a mobilitare l’economia mondiale dietro i loro interessi egemonici, gli Stati Uniti debbano creare situazioni in cui la posta in gioco è altissima, come lo è in Ucraina appunto.

Dopotutto, gli strateghi del Pentagono e della Casa Bianca da sempre sono addestrati a non escludere nessuna opzione pur di salvaguardare gli interessi della prima potenza mondiale. Destino delle minoranze incluso.



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