È forse un luogo comune affermare che, di fronte all'evidente incapacità dei governi ucraino e della NATO di ottenere successi in campo bellico, il principale sforzo bellico ha iniziato a essere condotto sempre più nei media, dove gli Stati Uniti e l'Occidente hanno ancora un grande vantaggio, dato il loro controllo sull'apparato mediatico culturale che stabilisce gli standard per ciò che è vero e ciò che non lo è, ciò che accade e ciò che non accade.

Era "naturale" per questi strumenti ricorrere alla sottomissione dell'informazione per costruire false "verità", ma era anche normale fare appello alla finzione e alla sottigliezza del linguaggio, cercando di mantenere una compostezza che sostenesse il loro trito discorso della "libertà di stampa", “l'uguaglianza dei diritti dei cittadini di fronte alla legge", il "rispetto dell'integrità fisica e morale dei cittadini", "l'innocenza delle persone prima che sia provata la loro colpevolezza" e altre sciocchezze che sono state costruite nel corso dei secoli per sostenere lo schema di dominio dominante.

Quando un regime ricorre sistematicamente a metodi di censura e ad azioni, degne del nazismo, volte a realizzare un vero e proprio genocidio culturale, il tentativo di raffigurare questo stesso paese come un eden democratico da difendere a tutti i costi diventa un esercizio molto complicato da sostenere. Il riferimento è ovviamente all’Ucraina, che dall’inizio delle operazioni militari russe, provocate dall’Occidente e dallo stesso regime di Kiev, ha accelerato l’implementazione di misure ultra-reazionarie per cancellare la lingua e la cultura russa. Una delle ultime e più radicali iniziative annunciate è quella della distruzione fisica di qualcosa come 100 milioni di libri definiti di “propaganda russa”, tra i quali figurano anche i capolavori di Tolstoj e Dostoevskij.

Una mostra dal titolo di grande attualità, Contagion, ma che nulla ha a che fare con la pandemia. Il 31 maggio, alle ore 16.30, alla Casa del Cinema a Villa Borghese, Sala Kodak, a Roma sarà presentato il progetto proposto e realizzato dalla casa editrice Gn Media. Dalle serie metafotografiche Contagion2013 e Contagion2021, di Fabrizio Borelli - fotografo, regista, art maker - nascono Contagion Hypercasual multiplayer experience, una inedita App, e Contagion Nft, una collezione di oggetti digitali (Non Fungible Token), opera dello stesso autore.

L’appuntamento sarà occasione per il lancio dell’App e per la presentazione di Contagion Nft_0, versione demo della collezione. Sarà presente Andrea Guzzon, rappresentante della Criticaldrop Entertainment S.r.l., che ha ideato e realizzato l’applicazione.

Durante l’incontro sarà annunciata la mostra Contagion - che espone le serie analogiche originali 2013 e 2021 - in calendario dall’11 al 19 novembre 2022 al Mlac - Museo Laboratorio Arte Contemporanea, Università Sapienza, Roma - a cura di Maria Italia Zacheo.

Nucleo e anima del progetto sono proprio le due serie metafotografiche di Fabrizio Borelli, sequenza narrativa di quindici più quindici tavole, griglie ortogonali di venticinque celle ciascuna. Segno-base un encefalo umano, elaborazione di immagine diagnostica riconoscibile.

Nella prima e nella penultima tavola l’immagine è grande, unica, centrata, invade lo spazio. L’ultima tavola è nera: il buio, il vuoto.

Così annota Fabrizio Borelli: le immagini diagnostiche vanno nel profondo della materia di cui siamo fatti, segni certi dell’essere o dell’essere stati in vita.

La forma-archetipo rappresenta concettualmente l’individuo, l’umana essenza.  Scrive Maria Italia Zacheo: la sequenza rappresenta una comunità che, inizialmente affollata, improvvisamente e senza ragione apparente, a poco a poco lascia vuoti, trasformando l’assetto appena raggiunto, pregiudicando gli equilibri in essere. L’opera individua, nell’assenza, una possibile altra presenza, il diverso, l’intruso. È un’invasione, una contaminazione? Nell’intento provocatorio è aperta la risposta, è sospeso giudizio.

Preziosa intuizione l’idea di trasformare l’opera analogica – narrazione ineluttabile - in un game, o più precisamente, un idle game. Dall’Opera nasce una creatura interattiva. Nel gioco un passaggio vitale.

Contagion, attraverso il processo della gamification, vuole incoraggiare il coinvolgimento, sollecitare la partecipazione. Nell’ipotetico paradosso del gioco solitario matura e si sviluppa un vero e autentico engagement.

Giocare è partecipare. Giocare l’arte, giocare con l’arte, qui significa prendere parte al processo di crescita culturale nell’ibrido dell’esperienza artistica e umana, nella fluttuante ineffabilità del mondo virtuale.

Scrive ancora Maria Italia Zacheo: La complessità nella quale predisporsi e allenarsi alla condivisione e alla partecipazione è il solo modo/mezzo per fronteggiare la forza che la natura lascia sfuggire dai suoi territori ancora inesplorati, senza freno né regole. 

Con la App Contagion l’opera si dissemina nel web, diviene bene collettivo, patrimonio di una potenziale comunità.

Contagion, strumento di connessioni multiple e complesse, interroga il desiderio di riconoscersi in una comunità, stimola emozioni e interazione sociale. E il binomio connessione-condivisione è già nel lavoro corale svolto – artista, curatrice, ideatore dell’App, coordinatore, organizzazione generale – verso la realizzazione dell’obiettivo, l’idle game con la sua comunità. Nel contesto delle trasformazioni tecnologiche Contagion - Hypercasual Multiplayer Experience rende l’opera d’arte esperienza partecipativa.

Contagion Hypercasual Multiplayer Experience sarà disponibile gratuitamente dopo il 31 maggio 2022, dopo la sua presentazione e dopo il rilascio su https://www.apple.com/app-store/ e https://play.google.com/store/

L’intervento è stato realizzato con il sostegno dei Fondi Por Fesr Umbria 2014-2020 – Az. 3.2.1 – Bando per il sostegno agli investimenti nel settore culturale, creativo e dello spettacolo.

La guerra, oltre a seminare morte e distruzione, paralizza il pensiero. Non solo sul versante emotivo, e cioè le reazioni che tutti indistintamente abbiamo vedendo immagini strazianti o sentendo notizie raggelanti, ma anche riguardo la difficoltà nel far emergere un’analisi che vada oltre la scontata condanna e la demonizzazione del cattivo di turno. Ormai, qualsiasi considerazione commento o finanche un semplice interrogativo sul conflitto bellico in corso, devono essere preceduti da una sorta di professione di fede, una excusatio non petita che escluda a priori la accusatio manifesta e una possibile “eresia”. Pena la immediata censura, o meglio l’ostracismo da parte dei numerosi Catoni presenti sugli schermi televisivi sulle prime pagine dei giornali e nella galassia social.

Più precisamente, c’è il rischio reale di imbattersi in una vera e propria scomunica; il riferimento a una dimensione religiosa, e contemporaneamente a una inevitabile modalità stigmatizzante, segnala da subito una delle enormi contraddizioni che riscontriamo con sempre maggiore assiduità. Vale a dire, l’esortazione reiterata e inascoltata di Papa Francesco a rafforzare la diplomazia in luogo della istigazione all’invio massiccio di armi a una delle parti contendenti.

Aggredita, invasa, occupata come nessuno si sogna di eccepire; altresì descritta come se non avesse una propria storia antecedente all’alba del 24 febbraio 2022. Una data che al momento marca “solo” un tragico passaggio temporale, ma è molto probabile assuma in futuro un significato, storico economico politico e culturale, di indiscutibile rilevanza.

In un futuro, che ci auguriamo il più prossimo possibile, in cui non parlino i carrarmati ma prenda voce la coscienza dei popoli. In cui abbiano la priorità assoluta gli interessi della maggioranza e non le convenienze di un oligopolio.

Ci rendiamo conto, che a tutt’oggi la sola formulazione di un tale auspicio sia più utopico del raggiungimento della pace. I giorni passano, e la distanza da un pur timido segnale di distensione, è più grande di quella che ci separa da latitudini che forse pensavamo fossero più vicine, più aderenti alla nostra concezione di convivenza pacifica. Parole vuote, come la memoria dell’Occidente rispetto alle proprie responsabilità per aver elevato la pace dalle rovine del Novecento salvo poi impallinarla di nuovo.

A freddo, o con calcolato metodo. Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen, per non parlare della “eterna” questione mediorientale che altro non è che la sistematica prevaricazione dello Stato d’Israele ai danni della Palestina. E ancora, i crimini commessi in Africa con il rovesciamento violento di governi poco graditi da “ex” potenze coloniali a vantaggio di altri regimi molto più sanguinari ma conformi al loro standard di benessere e di supremazia.

In America Latina, lo status di “giardino di casa” è stato continuamente giustificato e perseguito dalla Casa Bianca modificando le tecniche di intervento e ingerenza ma conservando la stessa vocazione predatoria del secolo passato, quando coccolava le giunte militari e i golpe che le generavano, in funzione anticomunista.

Argentina, Cile, Bolivia, Uruguay, Paraguay, Nicaragua, Brasile, El Salvador, Guatemala, Cuba, hanno saggiato il polso fermo della democrazia neoliberale, quando questa viene messa in discussione, con un saldo di centinaia di migliaia di vittime. Pertanto, il concetto stesso di libertà ha subito diversi scossoni da questa parte del pianeta, dove l’economia di mercato è più importante dei diritti inalienabili dell’essere umano. O che tali si vorrebbero ma che in realtà non lo sono. Sanità, istruzione, sociale, lavoro, mobilità, ambiente, sono variabili del profitto, risorse preziose da estirpare dal pubblico per seminarle nelle fruttifere terre del privato.

Le esperienze al di là di quella che una volta era la linea di demarcazione tra due blocchi contrapposti, tra un mondo e l’altro, non sono certo tutte entusiasmanti e ammirevoli. Ne sono stati sottolineati limiti errori e nefandezze, da sempre, e con il sostegno della Storia, non con il beneficio della propaganda. La casualità di essere nati in un Nord autoreferenziale si trasforma così in privilegio, a detrimento di un Sud eternamente periferico, pertanto condannato a divinis alla spoliazione e allo sfruttamento.

In questa particolare geografia del dominio, rientra anche l’ineluttabile allargamento della NATO a Est, costruito sul certosino lavoro di assimilazione dei paesi che appartenevano alla galassia sovietica, e sul discredito di potenze commerciali emergenti come la Cina. Inizialmente silenziosa, ha preso le distanze dalla decisione del Cremlino di muovere le truppe verso Kiev, per poi dichiarare con fermezza quanta irresponsabilità ci fosse nel collocare basi militari ai confini russi e utilizzare l’Ucraina per destabilizzare Putin.

Un progetto nato dal 2014 con la rivolta della cosiddetta Euromaidan, in pieno stile imperialista. I fiumi di denaro che da Washington scorrevano verso Kiev, hanno armato un esercito che ostentava svastiche e simboli del passato collaborazionismo nazista, alimentando un (anacronistico) sentimento antisovietico. Si potrà legittimamente obiettare che le colonne militari in viaggio verso le frontiere ucraine non sono l’Armata Rossa e non stanno liberando Auschwitz, evento storico che per altro rappresenta un sacrificio costato all’URSS più di venti milioni di vittime nella lotta al nazismo.

Un aspetto spesso deliberatamente dimenticato, subordinandolo al ruolo esclusivo ed egemonizzante delle Forze Alleate. Così come spesso si dimentica, tornando alla drammatica attualità, una guerra sporca e crudele che dura da otto anni e che ha causato quindicimila morti. Di serie B, riposte in un comodo oblio. Nel Donbass, all’indomani della destituzione di Janukovich, e del referendum che proclamava la indipendenza dal governo ucraino, si è scatenata una caccia al “filorusso” e al comunista, condotta dal Battaglione Azov e dal Pravy Sektor, formazioni di inequivoca ispirazione nazista. E che affascinano la sinistra salottiera nostrana che li innalza a esempio moderno di Resistenza, senza neanche un fremito di vergogna.

D’altronde, nel conflitto parallelo che si combatte sui mezzi d’informazione, non c’è spazio per il dubbio e per una posizione equilibrata della tragedia in atto; si preferisce abbracciare una visione autoassolutoria, appiattita su interessi altrui per alleggerire il peso di invocare la pace con il ricorso alle armi. Da noi inviate, in sfregio a una Costituzione che agitiamo opportunisticamente riducendola da bandiera a canovaccio.

Alle frontiere dell’Europa si consumano i crimini di una dignità lacerata da guerre nascoste e rimosse, precipitate nel buio delle nostre coscienze. Donne uomini e bambini che non trovano accoglienza per affinità religiosa e somatica, ma filo spinato e idranti che li respingono. Li rimandano oltre una Cortina di Ferro rinnovata e invisibile, o utilizzati come moneta di scambio da dittatori che in fondo così tirannici non lo sono, se massacrano popoli che destano poca attenzione. Appartengono a un emisfero minore; sono una umanità minore. Qui, nel cuore dell’Occidente, abbiamo smarrito il senso profondo della Solidarietà e della Memoria, e non sappiamo se un altro mondo è ancora possibile. Di sicuro, un altro mondo è sconosciuto.

Il recente tentativo di scalata a Twitter di Elon Musk ha provocato un dibattito infuocato negli Stati Uniti sui limiti alla libertà di espressione e sulle implicazioni del passaggio della proprietà del popolare social media all’uomo più ricco del pianeta. Il fondatore di Tesla ha offerto 43 miliardi di dollari per acquisire tutte le azioni di Twitter non in suo possesso, dopo che negli ultimi due mesi si era accaparrato il 9,2% della società californiana. L’offerta per ogni azione è pari a 54,2 dollari, cioè superiore del 54% al valore registrato alla fine di gennaio, quando Musk aveva iniziato ad acquistare le sue quote, e del 18% rispetto alla chiusura nella giornata in cui ha indirizzato la sua proposta al consiglio di amministrazione di Twitter.


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