di Rosa Ana De Santis

La Grameen Bank, l’istituto del microcredito, arriverà in Italia. A dare l’annuncio, durante una conferenza stampa presso la Fondazione Cariplo a Milano, è stato Muhammad Yunus, premio nobel per la pace nel 2006, economista e fondatore della banca dei poveri. Il progetto è agli accordi finali e a sedersi intorno al tavolo ci sono, in qualità di partner, l’Unicredit e l’Università di Bologna, ateneo che ha sempre riconosciuto dignità accademica al pensiero dell’altromercato. Grameen Italia non è il primo caso di esportazione del progetto. Negli Stati Uniti conta già risultati che Yunus definisce “eccellenti”. Si potrà partire forse già da quest’anno e la congiuntura sfavorevole della crisi economica sarà probabilmente la cornice più difficile e nello stesso tempo il banco di prova più attraente per misurare il giusto valore di questo coraggioso esperimento dell’economia. Coraggioso e scientifico.

di Ilvio Pannullo


La vera causa prima dell’attuale crisi finanziaria ha un nome ben preciso. La bolla speculativa del mercato immobiliare, il crescente peso nel sistema finanziario degli intermediari non bancari (e dunque non regolamentati) e l’abuso di strumenti finanziari innovativi, tra cui i derivati di credito, sono tutti fattori che, pur rappresentando essi stessi il necessario dante causa dell’attuale crollo dei mercati internazionali, non rappresentano altro se non un’inevitabile conseguenza di un sistema marcio nelle sue stesse radici. La vera causa dell’attuale situazione economica ha un nome diverso: il signoraggio bancario. Noto già agli antichi romani - Nerone fu il primo a diminuire la quantità di argento presente nelle monete, lasciando inalterato il loro valore nominale - il termine signoraggio indica, per l’appunto, l’aggio del signore; il potere, cioè, spettante a colui che detiene la sovranità monetaria all’interno di una data comunità. Un potere che si esprime nella capacità di battere moneta. L’unica moneta avente valore legale all’interno della comunità stessa, l’unica moneta che dovrà essere accettata da chiunque per lo scambio di beni e servizi.

di Ilvio Pannullo

Per la prima volta dopo poco più di 5 anni, i titoli di Stato a 3 mesi, con scadenza il 15 aprile 2009, registrano un calo di 0,805 punti all'1,659% lordo, mentre i BoT a 12 mesi sono scesi oltre il precedente minimo storico del giugno 2003 (1,860%), toccando la risibile quota di 1,84% d’interesse sul capitale investito. Mai nella storia del nostro paese il rendimento dei titoli di Stato era sceso tanto in basso. La causa di una così scarsa redditività è dovuta alla robusta domanda da parte degli operatori, con quasi 20 miliardi di titoli richiesti a fronte dei 13 miliardi offerti. La crisi finanziaria che tanto ha ridimensionato la credibilità del settore bancario ha, infatti, massimizzato lo scetticismo e la diffidenza degli investitori, che ormai vedono i titoli di Stato come l’unico porto sicuro e si precipitano in massa ad ordinarli.

di Mario Braconi

L’Italia è in recessione. Le stime OCSE prevedono che il prodotto interno italiano decrescerà dello 0,4% nel 2008 e dell’1% nel 2009. Nel nostro Paese ben 400.000 persone perderanno il lavoro, mentre il tasso di disoccupazione toccherà l’8% (oggi è il 6,9%). Ad aggravare la preoccupazione dei cittadini, lo spettacolo di un’Europa concorde nel riconoscere il fallimento del mercato, eppure incapace di attuare misure unitarie o almeno fortemente coordinate contro la crisi. L’Ecofin del 2 dicembre scorso, infatti, si è concluso con una dichiarazione piuttosto generica che, oltre a stabilire un tetto per gli interventi dei governi (200 miliardi di euro, ovvero l’1,5% - circa - del Prodotto Interno Lordo UE), contiene affermazioni piuttosto ovvie (ad esempio “gli stimoli fiscali a breve termine devono essere coerenti con strategie di bilancio a medio termine prudenti”; gli interventi “aumenteranno temporaneamente i deficit pubblici”).

di Mario Braconi

L’industria automobilistica globale è in grave crisi. Negli Stati Uniti, poi, il settore è al collasso: a spacciarlo l’ostinazione di non voler investire in modelli meno inquinanti e gli effetti della crisi finanziaria sulle disponibilità economiche delle famiglie: sia la General Motors (il più grande costruttore di automobili al mondo) che la Chrysler hanno già bussato più volte alle porte del Congresso chiedendo complessivamente 15 miliardi di dollari per consentire loro la sopravvivenza fino a marzo 2009. La Ford, che pure versa in uno stato di salute leggermente migliore, ha bisogno di una linea di credito come dell’aria. Nel complesso, l’industria ha bisogno di 34 miliardi di dollari per continuare a vivere.


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