I missili iraniani abbattutisi sull’Iraq nei giorni scorsi sono stati ritenuti da alcuni analisti una operazione dovuta ma sostanzialmente innocua, mentre altri invitano a non ritenere affatto chiusa la stagione della vendetta persiana contro Washington. L’impressione è che gli USA cerchino di abbassare il livello dello scontro senza perdere la faccia, mentre l’Iran pare voler capitalizzare politicamente il costo che gli USA dovranno pagare, primo fra tutti l’uscita dall’Iraq e la mancanza di sostegno alleato. In attesa di misurare quali saranno e se si daranno le reazioni iraniane contro il terrorismo statunitense, lo scontro politico e le differenziazioni anche interne allo schieramento occidentale segnano al momento un certo isolamento di Trump. Vuoi per l’evidente errore politico, vuoi per la scarsa consultazione con gli alleati, vuoi per le contrarietà interne agli stessi Stati Uniti, Trump sembra pagare con un maggiore ripiegamento su se stesso la mossa che, nelle sue intenzioni, doveva farlo uscire dall’angolo e riaprire il dialogo con i dem.

Lo scontro tra Stati Uniti e Iran, nato dall’attentato terroristico costato la vita al Generale Qassem Soulemani, prosegue comunque anche sullo scenario mediatico internazionale, con il tentativo statunitense di assegnare a Teheran ogni qual si voglia responsabilità della crescente tensione. A questo proposito la macchina mediatica internazionale, gestita dal sistema di alleanze a guida statunitense e produttrice a getto continuo di fake news, è stata dapprima messa all’erta e poi resa operativa.

Nel frattempo sono partite le nuove sanzioni statunitensi contro l’Iran. Sono state comunicate dal Segretario di Stato - il nazi-evangelico Mike Pompeo - e colpiranno l'acciaio e il settore tessile, quello minerario, manifatturiero e delle costruzioni, oltre che i beni e le libertà personali di otto esponenti dell’establishment persiano. Prosegue dunque la guerra commerciale statunitense a tutti i paesi che possono rappresentare, direttamente o indirettamente, un canale importante per gli scambi economico-commerciali con Cina, Russia ed Europa. L’Italia, ad esempio, nel 2018 esportava verso l’Iran oltre un miliardo di euro, cifra che si è ridotta notevolmente nel corso del 2019 quasi dimezzandosi a 615 milioni. Stessa cosa si può dire per l’import, passato dai 2,6 miliardi del 2018 ai 119 milioni del 2019.

Mettere in ginocchio l’economia iraniana e ridurne le capacità estrattive, è utile a ridurre la ripresa persiana e, contestualmente, a mantenere in vita il regime agonizzante saudita attraverso la limitazione della commercializzazione del petrolio iraniano (quello iracheno, nel frattempo, è rubato dagli Stati Uniti, con un milione di barili al giorno che finiscono nelle tasche statunitensi). Con il Venezuela sotto blocco, la Libia nel caos e l’Iraq nelle mani USA, ridurre al minimo il petrolio iraniano rende gli Emirati il cuore della produzione di greggio e dunque, per conseguenza, Washington padrona della distribuzione dell’oro nero.

Ormai le sanzioni statunitensi abbracciano circa 75 Paesi ai quattro angoli del pianeta. Servono sì alla vendetta di Washington contro chi non si sottomette ai suoi piani imperiali di dominio unipolare, ma nello specifico s’indirizzano anche contro l’intesa tra Mosca, Pechino e Teheran che punta ad un diverso equilibrio nella regione del Golfo Persico e in Medio Oriente. Le sanzioni statunitensi, però, sono pensate e realizzate soprattutto per procurare vantaggi commerciali all’economia a stelle e strisce, vittima del declino imperiale, e della contestuale crescita di Russia, Cina, India ed altri paesi.

Proprio alle misure finanziarie e commerciali da prendere per azzerarne o quanto meno ridurne seriamente gli effetti, Russia e Cina stanno lavorando ormai da mesi e paesi come Germania e Turchia partecipano interessati all’elaborazione del progetto. L’urgenza di eliminare progressivamente l’utilizzo del Dollaro nelle transazioni internazionali è l’obiettivo finale, così da togliere spazio di manovra a Washington e recuperare la ragguardevole cifra di miliardi di dollari giornalieri che arrivano nelle casse USA dalle transazioni valutarie internazionali operate sul Dollaro. Quando questo avverrà, l’arroganza imperiale diverrà preoccupazione reale e la libertà commerciale di 194 Paesi tirerà un sospiro di sollievo.

La ritorsione iraniana per l’assassinio del generale Qasem Soleimani è alla fine arrivata nella notte di mercoledì con un attacco missilistico condotto direttamente da Teheran che ha colpito due basi militari americane in Iraq. Il blitz, del tutto legittimo, è sembrato avere comunque un valore principalmente simbolico, così da dimostrare da un lato le capacità offensive della Repubblica Islamica e da consentire alla Casa Bianca, dall’altro, di operare una qualche “de-escalation” che eviti l’esplosione di un conflitto rovinoso.

Le strutture colpite dai missili iraniani sono la base aerea di Al Asad, nella provincia di Anbar, a nord-ovest di Baghdad, e quella di Erbil, nel nord del paese mediorientale. Le basi ospitano anche contingenti di altri paesi NATO, tra cui l’Italia, e soprattutto la prima è servita per lanciare operazioni nello stesso Iraq, così come in Siria, e per addestrare le forze armate locali, ufficialmente nella lotta allo Stato Islamico (ISIS).

L’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani, ordinato la scorsa settimana dal presidente degli Stati Uniti Trump, ha provocato un legittimo senso di repulsione in tutto il mondo nei confronti della brutalità dei metodi dell’imperialismo americano. In patria e, frequentemente, tra i governi occidentali, l’attacco deliberato nei pressi dell’aeroporto di Baghdad è stato invece accolto con estrema ambiguità da parte dei media ufficiali e di gran parte della classe politica, inclusa quella di orientamento teoricamente progressista.

La tendenza alla guerra appare sempre più irrefrenabile, principalmente per effetto del declino della potenza statunitense che, sempre più in crisi da vari punti di vista, economicamente indebolita, socialmente disgregata, culturalmente devastata, cerca rifugio nel terreno militare, l’unico nel quale continui a mantenere una certa, seppure sempre più relativa, superiorità.

L’assassinio del generale Suleimani costituisce senza dubbio una manifestazione di questa tendenza, ed al tempo stesso una violazione evidente del diritto internazionale, un atto di terrorismo di Stato e un crimine gravissimo contro la pace.

Il presidente turco Erdogan ha annunciato l’inizio del dispiegamento di truppe del proprio paese in Libia a sostegno del Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite. La decisione, com’è noto, arriva in seguito alla stipula di un’intesa tra lo stesso Erdogan e il primo ministro libico, Fayez al-Sarraj, e rischia di infiammare ancora di più un quadro diplomatico e militare già caldissimo in cui si confrontano le principali potenze regionali e non solo.

Gli scenari che si stanno delineando nel paese nord-africano evidenziano il chiaro fallimento degli sforzi diplomatici, in particolare dell’Unione Europea, e il rapido precipitare della situazione verso un conflitto di vasta portata. L’intervento della Turchia ha a sua volta avuto un’accelerazione in parallelo al rilancio dell’offensiva contro Tripoli delle forze del cosiddetto Esercito Nazionale Libico (LNA), guidato dal generale Khalifa Haftar.


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