di Michele Paris

L’America ha cambiato pagina. Spazzando via tutte le paure che avevano pervaso il campo democratico negli ultimi giorni per un possibile ripetersi dell’incubo del 2000 e del 2004, Barack Hussein Obama ha conquistato una vittoria molto netta diventando il 44esimo presidente degli Stati Uniti, il primo di colore nella storia di questo paese. La notte elettorale dall’altra parte dell’Oceano ha segnato contemporaneamente il rifiuto finale di un presidente profondamente impopolare e della gestione repubblicana del potere che ha condotto l’America sull’orlo di una crisi economica senza precedenti nell’ultimo mezzo secolo e ad un ridimensionamento del proprio ruolo internazionale. Pesantemente condizionato dall’eredità di George W. Bush, nonché dai suoi stessi errori commessi in una lunghissima campagna elettorale, John McCain ha finito per soccombere di fronte al 47enne senatore dell’Illinois al suo primo mandato al Congresso.

di Fabrizio Casari

Il quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti d’America è Barak Hussein Obama, democratico e di colore. Mentre sono ancora in corso le operazioni di spoglio, Obama si è già aggiudicato 330 grandi elettori, quando ne bastavano 270 per vincere. La vittoria garantisce la maggioranza al Congresso e al Senato. E’ dunque un successo straordinario per il senatore afroamericano, che ha saputo convincere gli americani dell’urgenza del cambiamento. E che si siano convinti che solo il candidato democratico potesse rappresentare la via d’uscita dalla crisi economica, politica e morale che colpisce gli Usa, lo si evince dall’affluenza record alle urne. Quello che questa vittoria rappresenta, infatti, è in primo luogo la fine del reaganismo, imperante negli Usa dall’inizio degli anni ’80 e che nemmeno i due mandati di Clinton avevano messo in discussione, essendo stati caratterizzati da una sorta di continuità nelle politiche economiche e nella politica estera. Il voto americano si presenta comunque come una sentenza senz’appello nei confronti dell’Amministrazione Bush, la peggiore della storia americana; Bush che aveva ormai come unico estimatore Berlusconi, visto che gli stessi repubblicani - McCain per primo – hanno tentato di prendere le distanze in ogni modo dal texano dalla bottiglia facile.

di Marco Montemurro

L’accordo di cooperazione nucleare stipulato tra Stati Uniti e India è stato definitivamente approvato. Una delle ultime mosse dell’amministrazione Bush è stata condotta a termine il 10 ottobre quando il ministro degli affari esteri indiano, Pranab Mukherjee, ha firmato ufficialmente il trattato con la presenza del Segretario di Stato statunitense Condoleezza Rice. E’ un evento che sicuramente avrà ripercussioni in futuro nel settore dell’energia nucleare in tutto il mondo. Il trattato tra Usa e India rischia di aprire la strada verso accordi bilaterali tra singoli paesi riguardo la compravendita di materiale nucleare. E’ un precedente che è destinato a porre limiti all’influenza degli organismi sopranazionali. Il nuovo legame mette in discussione i principi di universalità contenuti nel Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Lo storico accordo, stipulato nel 1968 per regolare e sorvegliare il possesso di materiale nucleare, si basa infatti proprio sul presupposto che sia necessario porre limiti a tali tecnologie agendo sul piano internazionale e tramite la vigilanza di enti sovranazionali.

di Bianca Cerri

Vista da fuori, le baraonde elettorali negli Stati Uniti sembrano feste di paese, dove abbondano retorica stucchevole, sentimentalismi sopra le righe, patriottismo ridondante, ecc. ecc. Ma dietro le quinte si scopre invece che ci si trova di fronte ad una commedia dell’assurdo sofisticata e costosa a base di legami illeciti, falsità morali, interessi economici e fantascienza dialettica messa in scena dalle elites finanziarie che si rinnovano ogni quattro anni per assegnare ad un unico uomo il dominio dell’intero pianeta allo scopo di accrescere e tutelare i propri interessi. D’altra parte, i padri fondatori che nel 1789 diedero vita alla Costituzione americana avevano già intuito che solo legittimandosi come “rappresentanti del popolo” avrebbero consolidato i loro privilegi e quelli della upperclass. Il peso del passato è avvertibile ancora oggi nel bipartitismo che caratterizza il sistema politico degli Stati Uniti. Dal 1860 in poi tutte le elezioni sono state vinte da un democratico o da un repubblicano e lo stesso dicasi per la totalità del Congresso.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. “Se i democratici vogliono vincere le elezioni presidenziali, non dovranno semplicemente battere McCain nei seggi; dovranno batterlo con un margine superiore al livello di irregolarità messe in pratica dai repubblicani.” Questa è la conclusione dell'inchiesta sulle frodi elettorali repubblicane, pubblicata sull'ultimo numero di Rolling Stone. Così si spiegano i pressanti appelli al voto di Obama e di tutti i democratici, che nonostante otto punti di vantaggio nei sondaggi insistono sulla necessità di una larghissima affluenza per vincere le elezioni. Per evitare che ritorni lo spettro del 2000, quando Bush vinse per cinquecento voti in Florida dopo una massiccia campagna di cancellazione di voti ed elettori. I democratici questa volta hanno giocato d'anticipo sguinzagliando da settimane pattuglie di avvocati in tutti gli stati amministrati da repubblicani, per vigilare sulla registrazione elettorale.


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