di Luca Mazzucato

“Abbiamo completamente fallito nell'Intifada. Non abbiamo ottenuto alcun risultato,” afferma Zubeidi, fino a pochi mesi fa a capo delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa a Jenin. “Un fallimento schiacciante: non siamo riusciti a tranformare le azioni militari in risultati politici. L'attuale leadership non vuole resistenza armata e dalla morte di Abu Ammar [Yasser Arafat] nessuno è capace di usare le nostre azioni per raggiungere alcun obiettivo. Con la morte di Abu Ammar, è morta l'Intifada armata.” Questa pesante sentenza è il giudizio definitivo di colui che per i palestinesi di Jenin rappresentava il simbolo della resistenza. Ora ha rinunciato alla lotta e trascina le sue giornate in un piccolo teatro, nel campo profughi di Jenin. Girando le strade di Jenin, parlando con i passanti, sembra di essere in una cittadina di campagna: e di questo si tratta, a otto anni dall'inizio dell'Intifada di Al-Aqsa. Nulla rimane più della resistenza palestinese in città: con l'Operazione Scudo Difensivo del 2002 e l'interminabile sequenza di arresti ed esecuzioni, l'esercito israeliano ha stroncato le organizzazioni militanti, neutralizzato qualsiasi velleità di ribellione all'Occupazione. Ciò che rimane è rassegnazione, a poche centinaia di metri dal Muro che separa la città dal verde panorama della Galilea.

di Elena Ferrara

Ora, dopo cinque anni di duro carcere americano a Baghdad, arriva per il settanduenne Tariq Aziz il giorno del giudizio. Era stato primo ministro dell’Iraq ed anche ministro degli Esteri con Saddam Hussein del quale era il principale negoziatore ai tempi della guerra del Golfo. Volto noto in ogni parte del mondo - anche come esponente cristiano - si era conquistato la fama di pragmatico capace di stabilire buoni rapporti con il mondo cattolico e con il Vaticano in particolare. Nato a Mosul da una famiglia cristiano assira con il nome di battesimo Michaele Yohanna (cambiato poi in Tariq) si era consegnato spontaneamente alle forze di occupazione americane il 24 aprile 2003, a pochi giorni dalla caduta di Baghdad. Ora arriva in Tribunale perché incriminato - come informa Jaffar al-Mussawi, pubblico ministero presso l'alto tribunale dell'Iraq - per aver avuto un certo ruolo nell'esecuzione, nel 1992, di una quarantina di commercianti che erano stati accusati di aver incrementato i prezzi dei beni essenziali al tempo in cui l'Iraq versava in gravi difficoltà economiche per le sanzioni imposte dall'Onu a causa dell'invasione del Kuwait.

di Giuseppe Zaccagni

La Russia di Putin-Medvedev sostiene che le relazioni del governo di Pechino con il Dalai Lama sono “una questione interna” e, di conseguenza, critica i tentativi di “politicizzare” il prossimo appuntamento dei Giochi Olimpici in Cina. Eppure mentre la Russia ufficiale alza la voce per rafforzare sempre più i suoi legami con Pechino c’è chi rema controcorrente. E si tratta di una voce autorevole. Perché interviene il Lama locale - Tasci Gjazo - che a Mosca dirige il “Centro tibetano per la cultura e l’informazione”. Il personaggio (classe 1967, nato nel Tibet orientale) si è distinto in questi anni per il suo pragmatismo e per la sua volontà di stabilire buone relazioni con la dirigenza russa. Forte dell’appoggio di quelle repubbliche autonome a maggioranza tibetana (Baskiria, Buriatia, Calmucchia, Tuva) si è insediato nella capitale dopo essere stato cacciato dal Tibet: presentato direttamente ai monaci della Buriatia dal grande Dalai Lama ha assunto poi la direzione del centro buddista di tutte le Russie che è un’istituzione ufficialmente registrata - dal 1993 - presso il ministero della Giustizia della Russia. Accettato ed accreditato dal Cremlino Tasci Gjazo è ora una spina nel fianco del potere russo. E’ lui che sta organizzando una campagna in favore del Tibet e, quindi, di dura polemica con la Cina.

di Eugenio Roscini Vitali

La tenace resistenza con la quale si sta opponendo all’embargo e all’azione militare israeliana, il risonante effetto ottenuto sull’opinione pubblica con l’abbattimento del muro di Rafah e la crescita di consensi guadagnata a discapito di Fatah sono i fattori che fanno di Hamas la principale forza politica palestinese: un movimento che sul terreno rappresenta più di un terzo della popolazione, che dal 25 gennaio 2006 controlla il Consiglio Legislativo Palestinese e che può diventare determinante nel processo di pace con Israele. Una forza che va vista nell’ottica di una guerra che quasi tutti considerano insostenibile e la cui risoluzione non può prescindere dal suo coinvolgimento. Di questo ne è convito soprattutto Jimmy Carter che, nonostante le critiche dell’amministrazione americana e degli stessi israeliani, rimane il principale fautore di questa tesi (Palestina, alla disperata ricerca di una soluzione, 15 gennaio 2008). E così, mentre l’amministrazione Bush continua caparbiamente a battere la pista Olmert-Abbas, l’ex presidente Americano vola a Damasco dove incontra il leader in esilio del movimento islamico, Khaled Meshaal, per trattare una tregua più che mai necessaria.

di Elena Ferrara

Ora, senza pudore, ci sbattono in faccia i loro “sistemi”, le loro bugie. Ci informano - a posteriori s’intende - che gli esperti di comunicazione della Casa Bianca avevano messo in piedi un team di “commentatori” che avevano come obiettivo quello di rendere popolare la guerra contro l’Iraq. E così erano stati assoldati alcuni personaggi (“autorevoli ed indipendenti”) che dalle tv americane avevano il compito di addolcire la pillola, presentando la guerra di Bush, come una missione sacra, nuova crociata dell’Occidente contro gli infedeli dell’impero del male. Tutti questi analisti erano passati attraverso le scuole e le caserme del Pentagono. C’erano - sull’etere e sul video made in Usa - il colonnello Kenneth Allard che, dalla rete Nbc, “bombardava” i telespettatori con le sue analisi ottimistiche; c’era il generale Wayne Downing che si faceva riprendere in tenuta casalinga, con sullo sfondo la sua biblioteca. Parlava delle azioni militari e dipingeva un futuro roseo. E poco dopo la sua apparizione arrivava il generale Thomas Mcinerney che alla Foxtv riferiva sulle azioni vittoriose dell’armata statunitense. Anche lui ripreso in borghese e sullo sfondo del palazzone della Casa Bianca. Poi, a ruota, gli altri “giornalisti” tutti al soldo del Pentagono e della Cia: i generali Robert Scales dai microfoni di National Radio, Mongomery Meigs della rete Today-Nbc e, infine, Don Sheppard il falco della Cnn.


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