di Giuseppe Zaccagni

Ad Harare crollano promesse ed ideali e l’intero paese - lo Zimbabwe - si ritrova sconvolto, in uno stato di continua contraddizione fra la retorica dei propri obiettivi e la realtà dei fatti: completamente stroncato economicamente e socialmente da un’inflazione iperbolica con più dell'80 per cento della popolazione che è disoccupata e bisognosa di aiuti umanitari per sopravvivere. Non ci sono più, di fatto, medicine e le epidemie falcidiano senza sosta: l’Aids colpisce un terzo della popolazione, la mortalità infantile è di 81 bambini su mille, la malaria imperversa a causa della mancanza di acqua potabile anche nelle città. Crolla così quell’impero costruito dal presidente Robert Mugabe che oggi, ultraottantenne e forte di un potere pressoché incontrastato che dura da 28 anni, è riuscito a mettere in ginocchio l’intera realtà nazionale un tempo nota come il granaio dell'Africa.

di Bianca Cerri

“Buon viaggio”, queste erano state le ultime parole di Michael Richards prima che i veleni dell’iniezione letale iniziassero ad invadere il suo sangue la sera del 25 settembre 2007. Come tutti i condannati a morte, Richards aveva voluto accomiatarsi dal mondo con un epitaffio personale. Dopo sette mesi durante i quali nessun nuovo epitaffio era andato ad aggiungersi alla lunga serie di quelli esistenti, da ieri la tradizione avrebbe dovuto riprendere con l’esecuzione di William Lynd, la prima portata a termine dopo la decisione della Corte Suprema sull’ammissibilità dell’iniezione letale. Ma Lynd ha preferito finire la sua vita in silenzio, senza lasciare dietro di sé neppure una parola. Poche ore prima il Board of Pardons & Paroles aveva rifiutato di accogliere la richiesta di clemenza presentata dai suoi avvocati.

di Michele Paris

A quasi due mesi di distanza dall’ultimo grande successo in una delle primarie in corso per la nomination democratica (1 marzo in Mississippi con un margine di 24 punti percentuali), Barack Obama torna a conquistare uno Stato prevalendo in North Carolina con il 56% delle preferenze contro il 42% della sua rivale. Una vittoria limpida quella del Senatore dell’Illinois che, assieme al quasi pareggio dell’Indiana (49% a 51%), gli permette di consolidare il suo vantaggio su Hillary Clinton sia nel bilancio dei delegati conquistati, sia per quanto riguarda il voto popolare, nonché di guardare con una certa fiducia ai rimanenti appuntamenti in calendario fino ai primi di giugno vedendo aumentare anche le proprie chances di unificare il Partito Democratico intorno alla sua candidatura dopo le polemiche delle ultime settimane. Per l’ex First Lady, sulla quale verosimilmente nei prossimi giorni aumenteranno le pressioni per un ritiro dalla competizione, non è arrivata invece quella vittoria travolgente che auspicava in Indiana sulla scia delle precedenti affermazioni in Ohio e in Pennsylvania, né il margine in North Carolina è stato ridotto in maniera significativa nonostante il potente dispiegamento di mezzi messo in campo dal suo staff.

di Carlo Benedetti

Arriva il cambio della guardia. Tutto come previsto dai signori del Cremlino. Vladimir Putin lascia la presidenza e passa il testimone a Dimitry Medvedev. Ed è la cerimonia del 7 maggio che sancisce l’inizio del nuovo periodo istituzionale. Ma Putin non esce di scena, perché si fa subito incoronare primo ministro. E così, in pratica, siede su due poltrone, perché si sa che il delfino Medvedev ha già accettato di essere un presidente dimezzato. L’era di Putin, quindi, continua. E potrebbe continuare alla grande perché a Mosca c’è chi sostiene che, in futuro, ci potrebbe anche essere un ritorno di Putin tra le mura del Cremlino. E, ovviamente, sulla poltrona che ha già occupato. Intanto l’astuto ex presidente ha provveduto a mettere alcuni paletti sul suo campo d’azione. Ha fatto approvare leggi e regolamenti che sanciscono il controllo del capo del governo sull’apparato economico e burocratico dello Stato, riuscendo a limitare non poco il potere presidenziale.

di Saverio Monno

A sentire i fori economici internazionali le cose vanno a meraviglia in Egitto. Lo scorso ottobre, il Fondo Monetario Internazionale presentava una relazione che esaltava i fasti di un sistema economico in mirabile fermento. Un tasso di crescita del 7,1%, una diminuzione della disoccupazione di 9 punti percentuali, investimenti esteri per circa 11 miliardi di dollari. Questi alcuni numeri dello straordinario “boom” egiziano. Le cause dell’exploit risiederebbero, secondo la relazione dell’FMI, nel grande dinamismo di un settore privato, assistito dalle “premure” del presidente Hosni Mubarak. Il dittatore egiziano, infatti, ha avviato, ormai da qualche tempo, la privatizzazione di alcune importanti imprese pubbliche, comprese banche e terreni.


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