di Giuseppe Zaccagni

Un’ondata di proteste sconvolge la Georgia e quella “Rivoluzione delle rose” - che gli americani - Casa Bianca, Cia, Pentagono - avevano organizzato e sostenuto con tutti i mezzi - si sta appassendo a gran velocità. Gli scontri nelle piazze ne sono la prova più lampante, con centinaia di migliaia di georgiani che attaccano il presidente Michail Saakasvili chiedendo le sue dimissioni immediate (accusandolo di abuso di potere e di cattiva gestione economica), elezioni anticipate e una riforma costituzionale che abolisca la carica di capo dello Stato. Il caos, intanto, regna in tutto il paese che conta 5 milioni di abitanti. Le manifestazioni più imponenti avvengono nella capitale Tbilisi, ma molte sono le notizie che si riferiscono ad analoghe azioni di protesta sia nelle oltre cinquanta province che in quelle repubbliche autonome da sempre in rotta con il potere centrale: Abchasija, Adzaria ed Ossezia del Sud. Situazione quindi più che mai a rischio, mentre si delinea all’orizzonte un vero e proprio pericolo di “guerra civile”. Il Paese - un assetto etnico a pelle di leopardo - sembra proprio giunto alla fase finale della resa dei conti. Escono dagli armadi della storia più recente i tanti scheletri di vicende politiche interne, tutte manovrate dalle forze d’oltreoceano che hanno sempre considerato la Georgia come un trampolino di lancio per sferrare l’attacco alla Russia e alla sua influenza nel Caucaso.

di Carlo Benedetti

C’è stata la “stagnazione” sovietica che ha segnato il periodo di Breznev ed ora si scopre che c’è stata anche una “stagnazione” religiosa che ha segnato la gestione del papa polacco in riferimento ai rapporti con gli ortodossi. Lo rivela, pur con tutta la diplomazia tipica dell’Oltretevere, una nota dell’Osservatore Romano (passato ora sotto la direzione di Giovanni Maria Vian, docente di Filologia patristica all'università di Roma “La Sapienza”) nella quale si precisa che “un passo deciso nel dialogo ecumenico tra cattolici e ortodossi” rimette in moto “una situazione stagnante”. Il riferimento è preciso perché proprio in questo momento la diplomazia vaticana avvia una nuova fase distensiva nei confronti del mondo ortodosso del “Patriarca di Mosca e di tutte le Russie” Aleksei II. Quanto avviene ora non è quindi casuale. Si è, forse, alla vigilia di un atteggiamento più aperto e flessibile, perché Papa Ratzinger azzera la nomenklatura vaticana presente in Russia e ricomincia da capo la costruzione di una strada che faciliti l’incontro tra la Chiesa di Roma e quella di Mosca. Come prima mossa è sostituito quel monsignore polacco Tadeusz Kondrusiewicz, Arcivescovo metropolita dell'Arcidiocesi della Madre di Dio, da anni rappresentante del Vaticano a Mosca. Personaggio controverso e non sempre accettato dai “pope” russi che lo hanno considerato come una figura prettamente politica. Al suo posto, nel piccolo vaticano della capitale russa, arriva l’arcivescovo italiano Paolo Pezzi (un ravennate di 47 anni) finora Rettore del Seminario Maggiore "Maria Regina degli Apostoli" a San Pietroburgo. Kondrusiewicz va a fare l’arcivescovo Metropolita a Minsk-Mohilev, in quella Bielorussia dove ha vissuto i primi anni del suo ministero episcopale dal 1989 al 1991.

di Agnese Licata

Nehru e Gandhi, i due grandi padri dell’India, avevano sempre avuto idee molto diverse su quale sarebbe dovuto essere il futuro di una nazione che oggi è abitata da oltre un miliardo di persone. Il primo, favorevole allo sviluppo industriale e a un progresso di stampo occidentale. Il secondo, la “grande anima” non-violenta, sostenitore dell’importanza di dare forza e centralità alla società rurale, come unica via per garantire la convivenza tra le mille etnie che da secoli abitano la penisola indiana. Lo scontro tra queste due ideologie non si è certo risolto con l’uccisione dei suoi leader. Anzi, giorno dopo giorno, nonostante tassi di crescita imponenti che potrebbero far pensare a un assoluto successo del modello occidentale, più di un Paese asiatico si trova oggi di fronte a disuguaglianze sociali enormi che condannano alla povertà chi vive nelle campagne. A dimostrare che i nodi stanno arrivando al pettine e che bisognerebbe ripensare il sistema, ci sono le manifestazioni di contadini e povera gente, sempre più diffuse e sempre meno facili da nascondere.

di mazzetta

Tutti i giornali ed i media del mondo si sono riempiti della notizia dell’arresto di un gruppo di francesi e spagnoli in Ciad, accusati per il tentato rapimento di un centinaio di bambini locali. Grande eco ha avuto la visita di Sarkozy in Ciad che ha ottenuto la liberazione di alcuni degli arrestati, non direttamente coinvolti nel tentato rapimento. La vicenda che ha avuto per protagonista una sedicente organizzazione umanitaria francese, l’Arca di Zoe, è un triste riproporsi di tutto il peggio che si è già visto quando ONG di dubbio lignaggio hanno tentato di sfruttare le sofferenze del terzo mondo per acquisire soldi e benemerenze nel primo. I fatti dicono che si è trattato di un rapimento in piena regola. I rappresentanti dell’Arca di Zoe hanno millantato il soccorso ai poveri bambini del Darfur e hanno messo in piedi un’organizzazione tesa a soddisfare i buoni sentimenti di numerose famiglie europee ansiose di adottare i poveri bimbi africani. Adozioni impossibili secondo le numerose leggi locali ed internazionali che regolano la materia. Così i volenterosi dell’Arca si sono dovuti un po’ arrangiare architettando un vero e proprio piano criminale finito malissimo. Nessuno dei bambini che avevano in qualche modo raccolto proveniva dal Sudan, ben pochi di questi erano orfani, nessuno di questi era ferito.

di Eugenio Roscini Vitali

E’ dalla pagoda Shwegu di Pakokku che il 31 ottobre scorso è ripartita la protesta dei monaci Buddisti contro il regime del generale Than Shwe, Capo del Consiglio di Stato per la pace e lo sviluppo (Spdc) dal 23 aprile 1992 e Comandante delle Forze Armate - Tatmadaw Kyi - che da 15 anni governano l’Unione di Myanmar nella paura e nella repressione e che soffoca con la violenza qualsiasi forma di opposizione. Pochi giorni prima, a New York, l’Organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw) ha pubblicato una relazione sull’attuale stato dei diritti umani nell’ex Birmania. Nella relazione è contenuto un allarme inquietante: per far fronte alla crescente fenomeno della diserzione e alla mancanza di volontari, le Forze Armate rapirebbero, comprerebbero o costringerebbero gli adolescenti ad arruolarsi tra le fila dell’esercito. Si tratterebbe di un sequestro per migliaia di bambini strappati dalle proprie famiglie per diventare parte attiva di un regime tirannico che ormai va avanti dal 1962, anno in cui fu destituito il governo democratico di Thakin Nu da un colpo di stato militare condotto dal Generale Ne Win. Un incubo che ricorda il dramma dei bambini soldato in Cambogia, in Uganda, in Congo, nella Sierra Leone, in Liberia, in Rwanda e in molti altri stati, una tragedia che probabilmente non ha né confini spaziali né temporali e che si ripete ogni giorno davanti agli occhi del mondo intero.


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