di Eugenio Roscini Vitali

Sono passati novanta anni dalla dichiarazione di Balfour, 117 parole che hanno segnato il destino di milioni di persone e che hanno influito profondamente sulla storia del Madio Oriente. Era il 2 novembre 1917 quando l’allora ministro degli Esteri inglese, Arthur James Balfour, scrisse una lettera al principale rappresentante della comunità ebraica e del movimento sionista d’oltre manica, Lord Rotschild, illustrando la favorevole posizione del governo britannico verso la creazione di un focolare ebraico in Palestina. Tra le righe la dichiarazione citava: "Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e si adoprerà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che non deve essere fatto nulla che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni". I fatti che seguirono la dichiarazione non coincisero però con gli intenti espressi da James Balfour e con gli impegni presi dalla Società delle Nazioni, che avviò il progetto per la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina conferendo alla Gran Bretagna il mandato sulla regione.

di Bianca Cerri

Si sono aperti negli Stati Uniti i festeggiamenti dedicati ai reduci di guerra, che dureranno per quattro intere giornate. In molte località saranno presenti anche gli aspiranti candidati alla presidenza del paese che, a parte poche eccezioni, la guerra non l’hanno mai vista, né conoscono la storia dei reduci finiti a vivere nella strada, lunga come una scia di sangue che parte dalla prima guerra mondiale per allungarsi all’infinito. Nel 1918, il presidente Hoover fece cacciare dalla polizia i soldati tornati dal fronte accampatisi davanti alla Casa Bianca per ricordare al governo che aveva dei doveri nei loro confronti. Il governo rispose che avrebbero fatto bene a procurarsi dei giornali e a trovare delle auto abbandonate in cui dormire. In un’epoca in cui la gente faceva ore di fila per un po’ di pane ed era attanagliata dalla povertà, i reduci furono costretti a mendicare per sopravvivere. Un destino molto strano in un paese che già allora idolatrava le armi e l’esercito e già pianificava la propria espansione sull’intero pianeta. Con l’andar del tempo, l’indifferenza nei confronti dei reduci ha finito per trasformarsi in una disfunzione cronica, almeno a giudicare dai dati che rivelano una percentuale del 25% di ex-combattenti di Corea e Vietnam tra gli homeless. Tornati a casa con l’animo ferito dagli orrori della guerra sono invecchiati nella strada, estraniati dalle proprie famiglie ed incapaci di reintegrarsi e riprendere in mano le redini delle loro esistenze.

di mazzetta

Uno degli slogan portanti della War on Terror americana diceva che l’azione militare statunitense era volta a “portare la democrazia” in Medio Oriente. Pur concedendo che si trattasse di uno slogan vuoto ed ipocrita, più che altro mera propaganda, colpisce quanto poco gli USA abbiano ottenuto in questo senso dagli alleati nell’area. In Egitto, nominalmente una democrazia, Mubarak ha varato riforme costituzionali antidemocratiche volte ad assicurare la successione al ruolo di primo ministro di suo figlio Gamal. Riforme annunciate al lunedì è confermate con un referendum costituzionale la settimana successiva; un referendum nel quale hanno votato soltanto i fedelissimi del partito di Mubarak, visto che le altre forze politiche si erano rifiutate di prendere parte ad una farsa del genere. Nessuna cancelleria occidentale, e ancora meno il Dipartimento di Stato americano, hanno avuto nulla da eccepire. Anche in Italia poco interesse, i “democratici” dormivano. I governi regolarmente eletti di Libano e Palestina (gli unici due paesi musulmani con elezioni veramente free & fair dell’area) hanno fatto una brutta fine; all’avanzare di Hezbollah in Libano ha risposto un’invasione israeliana, all’affermazione di Hamas in Palestina ha risposto un golpe di Fatah, realizzato grazie alle armi fornite da Egitto e Giordania e all’aiuto logistico di Israele.

di Agnese Licata

Si annuncia una settimana di fuoco, quella che per la Francia di Nicolas Sarkozy inizierà stasera. Con la paura che uno sciopero contro la riforma del sistema pensionistico si trasformi in una contestazione ben più ampia al governo. Che i lavoratori del settore ferroviario e di quello energetico sarebbero arrivati alla seconda protesta in meno di un mese, è stato chiaro domenica scorsa, quando il presidente francese e il premier Françcois Fillon si sono mostrati intransigenti alle richieste dei sindacati. In ballo, l’abolizione del regime pensionistico speciale di cui godono in particolare queste categorie di operai. Se dovesse passare la proposta del governo, la loro posizione verrebbe equiparata a quella degli altri dipendenti pubblici: per godere di una pensione completa, dovrebbero maturare 40 anni di contributi, e non 37,5, come finora. Un cambiamento che riguarderebbe un milione e mezzo di persone. “I sindacati sanno che lo status quo non è più possibile”, ha replicato il primo ministro Fillon dalle pagine de Le Journal du Dimanche.

di Carlo Benedetti

Nell’Estremo oriente russo sono già presenti in massa. Lavorano nei campi e nei boschi. Trafficano nei mercati di Kabarovsk e di Vladivostock. Hanno invaso città come Irkutsk, Omsk, Tjumen, Tobolsk, Ulan Udè, Novosibirsk. Sono i cinesi che approfittano delle buone relazioni tra Pechino e Mosca per cercare il loro “posto al sole” nelle sconfinate lande siberiane. Ma ora puntano sulla capitale scegliendo le rive della Moscova come obiettivo finale della loro penetrazione silenziosa e pacifica. Ed eccoli accanto al Cremlino. Sono già in 500.000 secondo i dati ufficiali. Di loro un 40% lavorano nei mercati (in quello di Cerkisovo le loro bancarelle offrono bigiotteria classica con un giro di 15milioni di dollari l’anno), un 20% operano nel settore dei servizi (ristoranti e negozi). Tutti gli altri sfuggono ai pur severi controlli di polizia e sono, per lo più, collegati al mondo criminale. Quanto alle condizioni di vita gli organismi della Mosca ufficiale non riescono a dare risposte precise. I cinesi vivono in zone “grigie” e sfuggono ad ogni controllo: si nascondono e, di volta in volta, scompaiono. Vivono comunque in pessime condizioni: in 10-15 in una stanza di quei “casermoni” della più lontana periferia. Si sa che lavorano 12-13 ore al giorno e che a fine mese portano a casa circa 300 dollari. E più della metà li spediscono in patria… Ora però scatta una grande operazione che è destinata, in parte, a portare “il problema cinese” entro una certa normalità.


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