- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
Istat, Confindustria e Banca d’Italia gridano alla ripresa. Dell’occupazione, dei consumi, delle immatricolazioni delle auto, degli investimenti e delle esportazioni. Ma, a quanto pare, dagli italiani, i segnali di ripresa non sono stati recepiti visto che le ricadute sulla quotidianità di questo progresso dell’economia nazionale sono (pressoché) inesistenti. Quasi a dire che la crisi sarà pure superata ma non per chi fa i conti quotidianamente con le difficoltà del bilancio famigliare.
E l’interiorizzazione della crisi? Forse, se si pensa che alla domanda ricorrente, posta dall’istituto di analisi e ricerche di mercato Ipsos e riportata nella ricerca La realtà complessa, se nei prossimi mesi si potrà vedere un miglioramento della condizione economica personale, prevale la percezione di peggioramento. E’ vasta l’area grigia di coloro che pensano che le cose non cambieranno. L’aria è di stallo.
E’ tumultuosa, invece, quando guardano all’immigrazione, ingannati come sono, gli abitanti del Belpaese, dall’impressione (distorta) che la presenza degli immigrati sia molto più ampia di quanto non sia nella realtà. Una presenza sovrastimata, smentita, però, dai numeri: gli immigrati, infatti, sono circa il 10 per ceno della popolazione residente in Italia a fronte del 26 per cento pensato dagli italiani. Una percezione che genera preoccupazione e malumore (infondati) tanto da invocare la chiusura delle frontiere, complice il nullo impegno dell’Europa a far fronte alla redistribuzione dei migranti. A confermare questo sentore, i sindaci, anche quelli più aperti all’accoglienza, che mostrano segni di cedimento nella gestione del fenomeno migratorio.
Oltre che per la (surreale) paura che tra i migranti sia nascosta dietro mentite spoglie una manica di terroristi, il rifiuto è, pure, per il conflitto sull’accesso ai servizi: non solo si spende per accoglierli ma esercitano, anche, un’indebita pressione sui servizi pubblici, drenando risorse che altrimenti sarebbero destinate ai connazionali. Per tacere dell’occupazione: il 49 per cento degli italiani è convinto che gli immigrati hanno reso più difficile trovare occasioni di lavoro. Non solo, rappresenterebbero una minaccia per la nostra cultura e le nostre tradizioni.Atteggiamenti protezionistici (dicono gli esperti) che rifuggono dall’idea di globalizzazione, da quella dell’apertura dei commerci e della libera circolazione delle persone, tanto cara agli italiani nella narrazione europeistica. Populismo o razzismo (visto che la chiusura si estende anche allo ius soli) che sia, gli italiani respingono il concetto che senza i migranti i conti del Paese sarebbero ancora più in rosso.
Pensassero, gli italiani, che il consolidamento della ripresa sia inversamente proporzionale all’arrivo dei migranti? Imparassero, piuttosto, a tradurre i numeri in fenomeni leggibili e a colmare l’abissale distanza tra il dibattito razionale e il sentire concreto. Solo allora la crisi potrà dirsi superata.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
Di fronte alla maccheronica ‘esitazione vaccinale’ tutta italiana (dall’inglese, vaccine hesitancy), che dal 2013 a oggi ha spinto a un calo progressivo del ricorso a tutti i vaccini, raggiungendo coperture inferiori al 95 per cento, la soglia minima raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, indispensabile per la protezione da alcune malattie e per interrompere la circolazione dei patogeni, la vaccinazione, ormai, è divenuta un obbligo.
Se gli sforzi compiuti negli ultimi quindici anni per promuovere un’adesione “consapevole e volontaria” alla vaccinazione non sono stati sufficienti per il raggiungimento del pieno successo di una radicale sensibilizzazione, con il decreto legge del 7 giugno 2017, numero 73, diventano obbligatorie le vaccinazioni per la frequenza scolastica dei minori fino a sedici anni.
Pena l’esclusione dall’iscrizione agli asili nido e alle scuole materne e il pagamento di una multa, dai cento ai cinquecento euro, per i ragazzi più grandi causa il mancato rispetto da parte dei genitori. Che non perderanno la patria potestà, inizialmente temuto in seguito alla presentazione di una proposta al decreto, ma saranno convocati presso le ASL di competenza per sollecitarne l’esecuzione.
Con buona pace degli antivaccinisti, non solo la vaccinazione diventa un obbligo ma aumento il numero di quelle obbligatorie: da quattro a dieci, per prevenire la gravità di certe malattie, considerando che l’attuale differenza tra vaccini obbligatori e raccomandati è da riferirsi alla mancanza di un aggiornamento della parte legislativa e non all’importanza, efficacia e sicurezza delle misure. Le quali, secondo quanto previsto dal decreto, verranno rivalutate attentamente a distanza di tre anni attraverso il monitoraggio delle coperture per rimodularne l’obbligatorietà.
Antimorbillo, antirosolia, antiparotite e antivaricella potrebbero sparire dalla lista dei vaccini obbligatori mentre quelli per combattere difterite, tetano, pertosse, poliomelite, epatite B e haemophilus influenzae tipo B rimarranno tali. Intanto, però, bisogna fare i conti con l’OMS Europa, essendo l’Italia impegnata nel Piano d’azione europeo per le vaccinazioni 2015-2020, un percorso verso “un futuro in cui ogni individuo potrà godere di una vita libera dalle malattie prevenibili da vaccino”.Alquanto bizzarro che la misura dell’obbligatorietà vaccinale, nata circa cinquanta anni fa, sia messa in crisi da una tendenza (omicida) con una duplice origine: dal clamore sui presunti (infondati) rischi di danni neurologici e autismo legati alla somministrazione del vaccino trivalente e dalla bassa percezione del pericolo delle malattie a livello individuale, perché alcune di esse vengono considerate rare o scomparse (senza ricordare che è un risultato frutto delle vaccinazioni). Insomma, dopo i seguaci di Di Bella, gli irresponsabili no vax. Non ci facciamo mai mancare niente.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
Che la cannabis sia la sostanza psicoattiva più diffusa tra i giovanissimi è ormai cosa nota ma che il suo consumo sia in aumento tra le donne, e in particolare tra le studentesse, è un dato nuovo che emerge dalla Relazione annuale 2017 sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, curata dal Dipartimento per le politiche antidroga. Nell’appendice, Donne e dipendenze, si legge che il 28 per cento di queste, fra i quindici e i diciannove anni, ha utilizzato almeno una sostanza illegale nel corso della loro (ancora breve) vita e il 20,7 per cento lo ha fatto nel 2016.
Nessuna differenza di genere, dunque, nell’uso della cannabis che, invece, si rivela spiccata nella percezione del rischio correlato al consumo di droghe: le ragazze che considerano molto rischioso consumare sostanze psicoattive sono sempre in quota superiore a quella dei coetanei e per tutte le tipologie di sostanza, senza sottovalutare, però, che il 17.7 per cento delle consumatrici di cannabis ne fa un “uso problematico”.
Sebbene inferiore a quella dei maschi, non è, comunque, trascurabile la percentuale, pari al 2,8 per cento, delle studentesse che, almeno una volta, ha fatto uso delle cosiddette NPS, nuove sostanze psicoattive che comprendono catinoni, ketamine e painkillers. In ogni caso, rimangono gli oppioidi la sostanza primaria di abuso che spinge le donne a rivolgersi ai SerD, le strutture pubbliche per le dipendenze: complessivamente, nel 2016 in Italia, sono state assistite circa sei donne ogni diecimila residenti (contro quarantadue uomini) e con un’età media pari a trentotto anni, più giovane di quella maschile nonostante il progressivo invecchiamento dell’utenza femminile.
Più o meno simile il numero delle donne ricoverate con diagnosi principale droga correlata per abuso di sostanze miste: in crescita, inoltre, l’incidenza delle diagnosi di HIV tra la popolazione femminile e i casi di epatite virale acuta, con l’epatite C in testa tra le donne per l’uso di sostanze iniettive. Fortunatamente negli ultimi dieci anni, si assiste a una diminuzione, più marcata tra le donne, della mortalità legata all’uso eccessivo di droghe.Ma se la mortalità cala, aumentano del 10 per cento circa le donne denunciate per reati connessi alle sostanze stupefacenti, con un incremento spiccato tra le minorenni. Seicentodiciotto donne, di età compresa tra i venticinque e i cinquantaquattro anni, nell’anno considerato, sono state condannate per reati di produzione, traffico e detenzione di sostanze illegali o per associazione finalizzata al traffico di queste e, dal punto di vista geografico, il Lazio è la regione più viziosa con trecentonovantotto donne coinvolte nel traffico di stupefacenti, seguita da Campania, Lombardia, Puglia, Sicilia ed Emilia Romagna, versus Molise, Basilicata e Valle d’Aosta, le regioni più virtuose.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
Non è il background migratorio, non sono le condizioni economiche e nemmeno la bassa scolarizzazione a spingere numerosi giovani musulmani che vivono nelle città europee a diventare foreign fighters jihadisti. Il fenomeno del fondamentalismo che li porta a partecipare attivamente alla lotta armata o ad aderire a reti internazionali di terrorismo è, piuttosto, la ‘deculturazione’ della religione. Che, in questo caso, assume la forma integralista per sancire una netta presa di distanza dal rifiuto dei valori della cultura occidentale.
Accomunati dalla necessità di riaffermare la propria fede in rottura con la tradizione culturale, questi gruppi rifiuterebbero, così agendo, la matrice che, nei secoli dei secoli, è stata imprescindibile punto di riferimento per i fedeli. E chechè ne dicano i più esperti studiosi dell’Islam, che la causa dell’arruolamento non sia da ricercarsi in motivazioni di ordine psichico, va da sé che, se la decisione di ‘cambiare’ la propria fede nasce da un bisogno soggettivo “legato a un desiderio di identità”, secondo quanto si legge nella ricerca “I processi di radicalizzazione religiosa nelle seconde generazioni” redatta dall’ISMU, le ragioni sono spesso psicologiche, strettamente legate a un vissuto personale.
Tanto che, nell’adesione alla comunità jihadista, la rottura con il mondo precedente diventa traumatica, investendo, in primis la propria famiglia ritenuta poco devota, e poi tutti coloro che non si rivoltano contro una società occidentale senza valori. La perdita di senso suscitata da un’esistenza dentro una società secolarizzata e il malessere (per la frustrazione dovuta al ruolo subalterno e remissivo interpretato dai genitori primomigranti) provocato dal caos del mondo moderno, coinvolge perlopiù le seconde generazione – i figli nati a seguito delle ondate di ricongiungimenti famigliari degli anni successivi al 1974.
Sono cresciute nel cuore dell’Europa e rifiuterebbero ciò che i loro genitori rappresentano, riconducibile a una spinta sottomissione alle regole formali delle società occidentali, l’ignoranza dei precetti religiosi e l’umiliazione che deriva da lavori servili sottopagati.
La percezione di profonda inadeguatezza nel vivere all’interno della realtà sociale in cui sono inseriti (e formalmente integrati) trova la via d’uscita al proprio dramma esistenziale nel terrorismo per ‘vocazione’: entrare a esserne membro attivo per appagare il bisogno di verità assolute, cioè di valori che diano senso alla loro vita, per sottrarsi all’abisso rappresentato dalla mancanza di significato nella propria esistenza finanche alienando il mondo circostante (che favorisce la disumanizzazione dell’altro così da rendere più facile commettere stragi e omicidi).Senza punti di riferimento stabili, cercano affannosamente una guida, un sistema di pensiero coerente e, soprattutto, rassicurante. Che propone un’ideologia totalizzante, violenta e radicale, capace di disciplinare tutti gli aspetti della vita, con una rigidità che abolisce ogni spazio di libera scelta individuale e che si fonda su una visione manichea del mondo. Il bene e il male.
Ma questo nuovo radicalismo islamico non è il palesamento dello scontro fra queste due realtà astratte e neppure fra civiltà quanto piuttosto la manifestazione di un problema di valori, di una richiesta di quella spiritualità (se ne esiste una) che sembra essere latitante nel mondo occidentale.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
In un’epoca storica in cui il confine tra disoccupazione, inoccupazione e inattività è sempre più sfumato e i giovani sempre più silenti e defilati rispetto alla partecipazione attiva alla vita politica e sociale, l’unico grido degno di nota è che la disoccupazione protratta nel tempo sia la più grande delle ingiustizie sociali. Pur avendo smarrito i luoghi e gli spazi nei quali coltivare le ambizioni e le realizzazioni e navigando in un abisso di diffidenza, i giovani, tra i venticinque e i trentaquattro anni, non hanno, però, perso la loro aspirazione: un’occupazione e non il reddito di cittadinanza.
Perché il lavoro mantiene, comunque, una fortissima centralità nella costruzione dell’identità dei giovani italiani: sebbene consapevoli che il lavoro ha perso, infatti, il valore rappresentativo del contesto sociale, è a questo che affidano il compito di sostanziare un progetto di vita tanto che, per loro, la correlazione tra condizione occupazionale e realizzazione personale è percepita come una delle chiavi principali di accesso alla felicità (pena scoprire, poi, che questa sia un grande inganno).
La lotta all’ingiustizia verso l’uguaglianza delle opportunità e la valorizzazione delle capacità individuali passa per l’equo accesso al mondo del lavoro, per entrare nel quale, i giovani, intervistati nella ricerca Lavoro consapevole, realizzata dal Censis, utilizzano ancora il canale informale basato sulle relazioni famigliari, parentali e amicali e, solo in seconda battuta, l’invio del curriculum a privati tramite strumenti digitali o comunità professionali on line (vedi Linkedin). Perché, tutto sommato, a loro manca la conoscenza approfondita delle modalità di accesso e dei meccanismi a sostegno dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro che parrebbero non essere sufficientemente sedimentati.
Un disallineamento che fa il paio, coinvolgendo la metà degli occupati, con quello tra le competenze acquisite nel percorso formativo e il lavoro svolto: a fronte del bisogno e dell’esigenza di mettersi in gioco, senza aspettare troppo, finisce per imporsi la necessità di accettare quello che offre il mercato. L’elevata propensione al sacrificio e la disponibilità a valutare offerte di lavoro, anche se a carattere discontinuo, confermano la tendenza delle nuove generazioni a combattere, in tutti i modi, il rischio dell’esclusione sociale.Sebbene in lieve miglioramento, le motivazioni alla base dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile ancora presente in Italia, per i giovani sono da ricercarsi nello spostamento in avanti dell’età pensionabile, nel mancato funzionamento delle dinamiche che sottendono all’incontro fra domanda e offerta di cui sopra, e nella crisi economica con la conseguente riduzione del tasso di assorbimento delle imprese.
Sotto accusa, anche, la scuola per lo scollamento tra istruzione e competenze richieste dalle aziende, la pubblica amministrazione che ha smesso di assorbire forza lavoro, e il sistema della formazione professionale. Restituire la fiducia e un’immagine di identità professionale reale ai giovani che cercano un impiego per la prima volta o a chi si trova nella condizione di doversi ricollocare è un atto dovuto, anziché no, un dovere istituzionale.