di Tania Careddu

Sono bastati cinque minuti di lucida determinazione omicida per bruciare i sogni e la libertà di Sara, uccisa, quasi un anno fa, dall’ex fidanzato, Vincenzo Paduano. Condannato all’ergastolo, il 5 maggio scorso. Una pena che arriva come una condanna sociale a una prassi criminale che non può essere confusa con la fatalità. Non è un errore che diventa orrore. Non deriva da una passionalità incontrollata né da un impeto eccessivo: è, piuttosto, l’estremo epilogo di un raggelamento di sé e del mondo, di una desertificazione della realtà circostante. Che la psichiatra e psicoterapeuta, Barbara Pelletti, che ha collaborato alla stesura degli scritti difensivi, spiega così.

Quale è la matrice alla base di questi brutali omicidi?
E’ l’anaffettività e quello di Sara, oltre che brutale, è stato un omicidio agghiacciante: per la lucida premeditazione, per la modalità, per l’idea di bruciare per far sparire, annunciata da un post di Facebook che ha preceduto di poco il passaggio all’atto. Senza dimenticare che il delitto è stato preceduto da una lunga fase, un intero anno, di una persecuzione che aveva evidentemente come scopo la distruzione dell’identità della ragazza. Alcuni frammenti delle conversazioni di Sara con le amiche mostrano bene come perfino la sessualità fosse gestita lucidamente per soggiogare Sara.

Può un uomo, le cui azioni sono state compiute secondo un preciso ordine rigorosamente logico, essere considerato malato di mente?

Assolutamente sì, e la malattia è la schizoidia, la perdita totale degli affetti e con essi della capacità di fare rapporti umani. Quando si avvicinano agli altri, questi soggetti lo fanno senza alcun reale interesse per l’altro, per quanto spesso siano molto seduttivi e sempre capaci di confondere l’altro attraverso comportamenti che sono solo apparentemente amorosi, ma più profondamente privi di reale contenuto. E come ogni malattia, la schizoidia ha delle cause, una sua genesi e una storia. La causa è nell’anaffettività stessa dell’ambiente umano in cui il soggetto è immerso fin dall’inizio della sua vita. La genesi, che è il motore di questo circolo vizioso, è nella pulsione d’annullamento, scoperta da Massimo Fagioli. La storia è la ripetizione di questa dinamica che facendo sparire, annullando, appunto, il rapporto con l’altro fin da tempi molto remoti, i primi mesi e anni di vita, finisce per svuotare completamente il soggetto della sua umanità. L’annullamento del rapporto a quel punto può arrivare fino all’estremo dell’eliminazione e addirittura della totale sparizione fisica dell’altro, come in Paduano che brucia il corpo, ormai privo di vita, di Sara.

E la malattia mentale non lo rende scevro da imputabilità…
E’ importante sottolineare che, per quanto si tratti di malattia e anche gravissima, non inficia la capacità di intendere e volere, perché questa è intesa finora dalla norma giuridica proprio come lucidità, assenza, nel momento in cui il soggetto compie il gesto criminoso, di fattori che ne alternino la consapevolezza cosciente e la libertà di scelta, potremmo dire, di quanto sta facendo. E qui si dovrebbe aprire un grande dibattito…

Qual è il confine tra la cattiveria e la malattia mentale quando si deprivano di senso persino gli affetti più cari?
Nel senso comune la cattiveria rimanda più al sadismo, cioè alla dinamica di mettere in atto comportamenti manifesti - che a loro volta sottendono dinamiche di rapporto più profonde - che fanno soffrire l’altro. Qui c’è ancora, per quanto deteriorata e impoverita, una affettività e, se vogliamo, il rapporto sadomasochistico, l’homo homini lupus, è culturalmente considerato ancora, purtroppo, la norma del rapporto umano. Quando tutto perde senso e valore umano, come nel caso Paduano, siamo molto oltre il sadismo. E le conseguenze di questa disumanizzazione sono le tragedie che le cronache ci raccontano.

Ma che, forse, questa pena adeguata e giusta, stando a quanto dichiara l’avvocato Stefania Iasonna, difensore della mamma di Sara, potrà scoraggiare.

Che cosa ha indotto il giudice a infliggere il massimo della pena, nonostante il rito abbreviato che prevede, in caso di condanna, lo sconto di un terzo di questa?
Vincenzo Paduano è stato condannato alla pena dell’ergastolo perché il GIP, Gaspare Sturzo, lo ha dichiarato colpevole del reato di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla minorata difesa, dai futili motivi e dallo stalking, ed anche di tutti gli altri reati a lui contestati, che gravitavano intorno a quello di omicidio, e, cioè, lo stalking, il danneggiamento della autovettura di Alessandro Giorgi e la distruzione di cadavere. Il nostro ordinamento prevede che, nel caso in cui l’imputato debba essere punito per un delitto come l’omicidio pluiriaggravato, che comporta la pena dell’ergastolo, e per altri reati collegati al reato principale e uniti a questo dal vincolo della continuazione, che comportino nel complesso pene detentive superiori a cinque anni, si possa applicare la pena dell'ergastolo con l'isolamento diurno per un periodo di tempo da due a diciotto mesi. Il Magistrato, in questo caso, alla pena così determinata, ha applicato la riduzione di un terzo secco della pena per la scelta del rito abbreviato da parte dell'imputato, per cui, partendo dall' ergastolo con isolamento diurno, ha comminato la pena dell'ergastolo senza isolamento.

Era una sentenza attesa ma non scontata. Perché?
Non era certamente una sentenza scontata perché, oltre al fatto che l'imputato ha tentato di fare escludere le aggravanti e l'imputazione dei reati di atti persecutori e distruzione di cadavere, il magistrato aveva una certa discrezionalità nel comminare le pene dei reati satellite e nella valutazione e nel bilanciamento delle circostanze. Nella maggior parte dei casi di questo genere, in cui l’imputato sceglie di essere giudicato con il rito abbreviato, la condanna raggiunge al massimo la pena di trent’anni di reclusione. Devo dire che nel corso del processo è stato molto difficile spiegare alla mamma di Sara che, anche per fatti come questi, che comportano imputazioni per reati così gravi, efferati e conclamati, l'imputato può accedere ad un rito "premiale", ottenendo uno sconto di pena importante, solo perché evita allo Stato il carico processuale necessario per la celebrazione di un processo ordinario. Ritengo che, nel nostro caso per giungere alla pena comminata, il Giudice abbia valutato con rigore tutti gli elementi che emergevano dalle risultanze processuali, quali la gravità dei fatti, la modalità dell’azione, l’intensità del dolo, le circostanze aggravanti e la personalità dell’imputato il quale, ad esempio, a differenza di quanto si è erroneamente detto, non ha mai reso una piena confessione, ma si è limitato ad ammettere solo alcune delle circostanze provate dagli inquirenti, senza mai contribuire minimamente, sino alla fine, alla ricostruzione della verità e non ha mai mostrato alcun segno di pentimento.

Ed è una sentenza storica per vari motivi…
Per rispondere nel merito a questa domanda, dal punto di vista prettamente giuridico, si dovranno leggere le motivazioni della sentenza, però ritengo che l’aver riconosciuto Vincenzo Paduano colpevole del reato di stalking nella nostra vicenda, in cui una giovane ragazza, Sara Di Pietrantonio, come capita a tantissime altre donne, non ha avuto una reazione immediata alle persecuzioni che subiva da tanto tempo, è un chiaro segno del fatto che si incomincia a comprendere che esiste anche un tipo di violenza sottile e subdola, che, a causa della giovane età, della inesperienza e dei condizionamenti socio-culturali, spesso non si riesce a cogliere, e che nella complicità di quella che viene chiamata “ vittima attiva” si deve ravvisare, invece, il grave pregiudizio alla psiche della persona offesa dal reato.


di Tania Careddu

Terra del buon mangiare e società del buongusto, il Belpaese e i suoi abitanti vivono di cibo. Non solo perché i consumi alimentari valgono, ogni anno, centoquarantamilioni di euro, con una gigantesca mobilitazione di risorse, persone ed energie ma anche perché il cibo ha assunto una nuova centralità nella vita degli individui. Dagli amanti del gourmet ai patiti del junk food, gli italiani si muovono dentro una grande articolazione di rapporti soggettivi con il cibo in cui vince il pragmatismo.

Che non è solo il loro principale stile alimentare ma pure un approccio operativo che connota tutti gli altri: dai genuini, tipici e di stagione, ai salutisti che mangiano verificando la salubrità degli alimenti; dai conviviali che vivono il cibo come un moltiplicatore della relazionalità agli oculati, attenti ai costi; dagli sperimentatori, amanti di nuovi piatti, agli abitudinari; dai funzionalisti che ingurgitano prodotti di rapido utilizzo, ai vegetariani o vegani; dagli ingordi agli amanti dei prodotti già pronti consegnati a casa.

E sebbene gli italiani siano i primi a credere al valore del cibo made in Italy, cosicché l’86,6 per cento di loro mangia regolarmente piatti della tradizione italiana e tipici del territorio in cui abita o da cui proviene, l’ampliarsi della schiera di ingordi, junk food lovers o di quella di persone non consapevoli del ruolo essenziale che la corretta alimentazione gioca per la salute potrebbe innescare una pericolosa dinamica espansiva dell’obesità.

Seppure molto meno preoccupante rispetto a quella dei paesi con scarsa tradizione di buona cucina, la situazione, nel lungo periodo, potrebbe ribaltarsi: a oggi, secondo quanto riporta il dossier Crescita e qualità della vita: le opportunità della food policy, redatto da Censis, sono ventidue milioni e mezzo le persone in sovrappeso di cui quasi cinque milioni obese, e in dieci anni, sono aumentate del 10 per cento, generando un costo sociale in circa trenta miliardi di euro.

Fra il mangiare molto e male, emerge il paradosso della coesistenza tra scarsità alimentare e spreco: ammontano a trentasei milioni gli italiani che buttano cibo non consumato, ventisei milioni quelli che ne cestinano le quantità in eccesso rispetto al fabbisogno reale della famiglia e oltre trentuno milioni coloro che gettano quello che fanno scadere.

Pratiche che coesistono con oltre due milioni di famiglie in stato di povertà alimentare, fenomeno sociale molto significativo, sebbene ancora nascosto per la vergogna, diffuso anche nelle aree più benestanti del Paese. E aumentano le famiglie con disagio alimentare: del 57 per cento quelle che non trovano i soldi per mangiare in alcuni periodi dell’anno e dell’87 per cento quelli che non li hanno per mangiare determinati alimenti.

Quella del cibo sarà, forse, la filiera più formidabile e performante delle quattro decisive della nostra economia ed Expo2015 avrà pure annunciato a gran voce che il cibo italiano è alla conquista del mondo intero ma dentro i confini si nutre, certamente, di gravi contraddizioni.

di Tania Careddu

Una forza sociale ed economica poderosa ma dalle potenzialità ancora non del tutto espresse. Determinanti per la crescita e lo sviluppo dell’Italia, le mamme di oggi, vivono, però, in un contesto penalizzante. Risorse dinamiche e predisposte al cambiamento - che deve essere culturale prima ancora che concreto - sono il bersaglio principale dei problemi strutturali del Belpaese.

Oltre alle macro questioni quali il debito pubblico, la corruzione, l’inadeguatezza infrastrutturale e l’inefficienza della Pubblica Amministrazione, a pesare sulla maternità è il modello culturale, patriarcale, secondo il quale i figli sono di proprietà esclusiva delle madri, sbilanciando in modo iniquo il loro ruolo a favore di un’importante assunzione di responsabilità familiare. Che, inevitabilmente, comprime i loro spazi per una realizzazione professionale e personale.

La minore occupazione genera una condizione di povertà insostenibile nelle famiglie con figli in cui il lavoro di entrambi i genitori è imprescindibile per una vita dignitosa. E l’impatto di questo circolo vizioso sulle scelte (opportunità) lavorative fuori dalle mura domestiche, oltre a essere alla base di spiacevoli stereotipi discriminatori, fa passare in cavalleria il valore economico del lavoro prodotto dalle mamme a beneficio delle loro famiglie.

Caratterizzato dalla gratuità, è l’uso del tempo, il denaro con cui valutarne la portata: in un giorno settimanale medio, le madri impiegano cinque ore per il lavoro famigliare contro un’ora e ventidue minuti dei padri. Un’asimmetria che si restringe nel caso in cui entrambi i genitori siano occupati e in quello nel quale la donna abbia un titolo di studio elevato, a conferma del fatto che il livello di istruzione non solo determina il loro empowerment sul mercato del lavoro ma anche il potere negoziale all’interno delle dinamiche famigliari, che, a ben vedere, non possono essere scisse da quelle occupazionali.

Valide per tutta l’occupazione femminile, quelle che coinvolgono le mamme hanno accenti più critici e peggiorativi riconducibili ai più frequenti compromessi e rinunce connessi al bisogno di conciliazione e di cura dei figli piccoli: nel 2015, secondo quanto riporta il dossier “Le equilibriste. La maternità tra ostacoli e visioni di futuro”, redatto da Save the children, nella fascia d’età di donne fra i venticinque e i quarantanove anni - quella in cui si stima la maggiore concentrazione di madri di minori - si è registrato un tasso di occupazione pari al 57,9 per cento (versus il 77,9 per cento per i padri) che tende a essere sempre più basso all’aumentare del numero di figli e al diminuire del grado di istruzione.

Fino all’esclusione dal mercato del lavoro delle tre milioni e quattrocento mila mamme italiane che, nel range considerato, nel 42 per cento dei casi sono disoccupate per il condizionamento delle responsabilità famigliari. Ovviabile con il buon funzionamento degli strumenti di conciliazione, tipo i congedi lunghi che le solleverebbero dalla gestione di un ritorno immediato al lavoro che, il più delle volte, si traduce in un abbandono tout court, e i congedi parentali, i quali però vengono usufruiti dai padri solo per il 10 per cento del periodo totale previsto.

Oltre ai servizi per l’infanzia, con l’importanza delle mense scolastiche, il welfare aziendale che supplisce alle carenze di quello pubblico, negli ultimi anni hanno cominciato a diffondersi le esperienze di smart working, una modalità lavorativa ‘agile e intelligente’ che permette una maggiore autonomia e flessibilità, grazie alle nuove tecnologie, nella scelta di tempi e spazi per il proprio lavoro.

di Tania Careddu

Sebbene sempre più scarso, dequalificato, nero e precario, il lavoro rimane un aspetto vitale per la società. E un riferimento essenziale nella prospettiva degli esseri umani. Primo, per la realizzazione della propria identità, poi per guadagnare e vivere. Un’impresa titanica che per gli italiani, nell’ultimo anno in controtendenza rispetto a quelli precedenti, è possibile portare avanti degnamente solo tornando al buon vecchio ‘posto fisso’. Quello (tanto disprezzato) negli Enti Pubblici, i quali, tuttora delegittimati come istituzioni, sono rivalutati come ottimi sbocchi professionali.

Lo scenario non è tanto diverso da quello del passato (recente): l’attrazione di un lavoro coincide con i suoi livelli di sicurezza, stabilità e continuità e quella flessibilità, tanto amata da imprenditori e politici, perde il suo consenso. Per lasciare ampio spazio a un clima di sfiducia che non risparmia la politica e le scelte politiche in materia di lavoro, ultime quelle relative al Jobs Act.

Salvato in toto solo dall’8 per cento degli italiani, secondo il sondaggio effettuato da Demos&Pi, per il 16 per cento non ha cambiato la situazione del mercato del lavoro, per il 32 per cento avrebbe avuto un effetto addirittura peggiorativo e per un cittadino su tre è troppo prematuro vederne gli esiti.

Ripongono, piuttosto, le loro speranze nell’ipotesi del ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, anche se due italiani su tre pensano che l’abolizione dei voucher finirà per incrementare il lavoro nero mentre le misure di protezione sociale previste dal reddito di inclusione, per disoccupati e famiglie in povertà, appare sconosciuto a quasi la metà della popolazione e la restante è nettamente divisa fra valutazioni positive e negative.

Fortemente insoddisfatta la componente esclusa dal mercato del lavoro, quel tratto generazionale dei giovani adulti nati fra i primi anni ottanta e novanta: i vecchi millenials sono ancora dipendenti dai nuclei famigliari, rinviano il passaggio a una condizione di autonomia e si sentono più precari di tutti, esprimendo il loro disappunto con la scelta di una carriera oltre confine e bocciando, in massa, il referendum costituzionale. Dissentendo, anche, sulle esperienze (per esempio, l’alternanza scuola-lavoro) proposte con la Buona Scuola, ritenendo che abbia peggiorato lo scambio fra i due mondi.

E fra chi il lavoro ce l’ha, crescono le aspettative: circa il 30 per cento scommette su una situazione personale migliore nei prossimi tre anni e per il 55 per cento il proprio lavoro è alquanto soddisfacente anche se, guardando al futuro, l’84 per cento degli abitanti del Belpaese ritiene che le pensioni (dei giovani di cui sopra) saranno troppo risicate per permettere loro di vivere.

E, intanto, il presente restituisce un’immagine deforme rispetto ai numeri e alle statistiche circolanti che promuoverebbero un’idea di ripresa. Delle due, l’una: o l’occupazione non è mai ripartita o sette italiani su dieci non se ne sono accorti.

di Tania Careddu

Un italiano su tredici non riesce a soddisfare i bisogni essenziali: un’alimentazione adeguata, la disponibilità di una casa, consona alle dimensioni del nucleo famigliare, riscaldata e dotata dei principali servizi, il minimo necessario per vestirsi, comunicare, informarsi, muoversi sul territorio, istruirsi e mantenersi in buona salute. Sono condizioni di cui fanno a meno circa quattro milioni e mezzo di concittadini, il 7,6 per cento dell’intera popolazione.

E non basta: il 13,7 per cento è in uno stato di povertà relativa, ossia con un reddito inferiore al 60 per cento di quello medio e il 28,7 per cento è a rischio povertà, cioè sull’orlo di una grave deprivazione materiale e tendente a una bassa intensità di lavoro.

Sebbene piuttosto stabile negli anni post crisi, l’impoverimento degli italiani, negli ultimi anni, si è però ampliato ai minori, colpendone uno su dieci e incidendo pesantemente sulle giovani generazioni alle quali, sempre più spesso, è precluso il mondo del lavoro. E, per quelli che il lavoro ce l’hanno, lo scotto da pagare è la precarietà occupazionale, soprattutto per le categorie meno qualificate, esposti al rischio povertà per il basso livello di stabilità della propria condizione lavorativa, dando così origine alla formazione di una nuova schiera di poveri, i working poors.

A fare le spese dell’essere indigente nel Belpaese, sono soprattutto le famiglie numerose, quelle che abitano nelle aree metropolitane e le periferie delle grandi città del Nord e del Centro e il Sud Italia. Nel 2017, stando a quanto riporta il dossier Italiani, povera gente, redatto da Oxfam, l’Italia si colloca al ventisettesimo posto fra le ventinove economie avanzate, penalizzata, sopra ogni cosa, dall’iniquità intergenerazionale e di genere che non permettono un soddisfacente livello di mobilità sociale.

Si genera una condizione di disuguaglianza che rompe “quel contratto sociale di progressiva ripartizione dei costi e di equo accesso ai servizi pubblici alla base del buon funzionamento di ogni sana democrazia”, rallentando la crescita economica e sociale, già di per sé, poco inclusiva.

Ci si trova in una morsa che la disuguaglianza estrema, frutto di scelte politiche orientate da e per l’interesse di pochi e non di un destino ineluttabile, rende più difficile l’uscita dalla povertà, pregiudica lo sviluppo economico, spinge al ribasso la domanda interna di beni e servizi, crea condizioni economiche per l’aumento della criminalità e della corruzione ed costituisce l’origine di molti conflitti.

Aveva ragione Nelson Mandela quando diceva che “sconfiggere la povertà non è un gesto di carità. E’ un gesto di giustizia. E’ la protezione di un diritto umano fondamentale”.


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