di Tania Careddu

La lunga recessione ha cambiato (forse irrimediabilmente) il tradizionale quadro di contesto del lavoro: fallita la ricerca del posto fisso e diminuiti i costi per l’avvio di un’attività imprenditoriale autonoma, l’intraprendenza delle donne la fa da padrona nella fase della ripresa. Scelta obbligata o aspirazione, il nuovo protagonismo femminile appare motivato da uno spunto all’iniziativa personale. Così energica che le imprese rosa sembrerebbero guidare l’uscita dalla crisi: crescono più della media del sistema imprenditoriale anche in ambiti, fino a qualche tempo fa, presidio esclusivo di imprese al maschile.

In barba a chi volesse derubricare questo recupero a derive di femminilizzazione di alcune professioni in declino o di insediamento in determinati segmenti marginali delle attività economiche, a fare la differenza è, piuttosto, la crescita (del 2,6 per cento) in aree, tipicamente androgine, quali l’energia e le costruzioni, settore, questo, che, complessivamente, perde il 2,1 per cento delle imprese.

L’andamento dell’occupazione indipendente, tra l’altro, mostra la perdita di oltre trecentomila posizioni lavorative, tutte concentrate nella componente maschile versus quella femminile che tiene e cresce, nonostante tutto, di settantunomila occupate. Prova ne sia che, dal 2015, si registra una tendenziale ripresa delle imprese guidate da donne rispetto alla crescita degli imprenditori, avvenuta un anno più tardi. Tra il 2014 e il 2016, l’incremento delle imprese femminili è stato dell’1,5 per cento, il triplo rispetto alla crescita dell’intero settore che non è andato oltre lo 0,5 per cento: tutto sommato, su un totale di sei milioni e settantaquattromila imprese registrate, il 21,8 per cento è guidato da donne.

Confermano una presenza crescente nella moda, nel turismo e nell’agroalimentare, soprattutto nel Mezzogiorno, dove hanno sede quattrocentosettantaseimila aziende rosa, principalmente nelle aree metropolitane: Reggio Calabria, Catania, e Palermo in testa, e nelle regioni del Centro mentre presentano incrementi più contenuti quelle del Nord Ovest e del Nord Est, con Piemonte, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Liguria e Marche he segnalano una dinamica negativa; Roma e Milano, sebbene siano sotto il valore nazionale, presentano gli stock più elevati: quattrocentasessantaquattromila imprese femminili si concentrano in queste aree metropolitane.

A spiegare il sorpasso, verosimilmente, l’investimento in capitale umano realizzato negli ultimi decenni dalle donne che ha fatto lievitare a quasi il 54 per cento la quota delle laureate tra le occupate, sette punti percentuali in più rispetto ai colleghi uomini.

“Le donne - riassume il presidente di Confcooperative, che ha effettuato la ricerca Donne al lavoro, la scelta di fare impresa, Maurizio Gardini, hanno avuto il talento di trasformare fattori di svantaggio, tra pregiudizi e retaggi culturali, in elementi di competitività, riuscendo ad anticipare i fattori di novità del mercato, tanto che la ripresa è trainata dalle imprese femminili che crescono dell’1,5 per cento rispetto a una media dello 0,5 per cento.

Nelle cooperative, fanno meglio. Perché una su tre è a guida femminile, è donna il 58 per cento degli occupati e la governance rosa si attesta al 26 per cento. Le donne hanno trovato nelle cooperative le imprese che più si prestano a essere ascensore sociale ed economico perché sono le imprese che coniugano meglio di altre vita e lavoro. La conciliazione resta il prerequisito per accrescere la presenza delle donne nelle imprese e nel mondo del lavoro.”

di Tania Careddu

“I primi mesi del 2017 sono stati caratterizzati da fenomeni diffusi, determinati anche per effetto del deficit idrico che ha interessato quasi tutto il Paese, e da un’intensificazione degli interventi rispetto al passato, con un numero di richieste di soccorso della flotta aerea antincendio dello Stato in forte aumento in confronto agli anni precedenti, al punto da risultare la stagione più complicata dal 2004, dopo quella del 2012”. La dichiarazione del presidente del Consiglio dei ministri, risalente a un mese fa, relativa alle attività antincendio boschivo per la stagione estiva, dà la misura della criticità del fenomeno incendiario che sta mandando in fumo il Belpaese.

Solo da metà giugno a oggi, sono andati a fuoco ben ventiseimila ettari di superfici boschive: tredicimila in Sicilia, quasi seimila in Calabria, duemila e cinquecento in Campania, più di mille e cinque in Puglia e nel Lazio e quattrocentonovantasei in Sardegna. Settecentosessantaquattro, raggiungendo il record decennale, le richieste di intervento da parte delle regioni alla protezione civile.

Se le temperature torride e la scarsa manutenzione dei boschi rappresentano un mix esplosivo per l’innesco, l’Italia brucia, soprattutto, per la mano criminale dell’uomo: speculazioni edilizie, appalti per manutenzione e rimboschimenti, guardianie imposte, estorsioni delle superfici destinate al pascolo, ritorsione o come strumento di ricatto politico, le motivazioni alla base del dolo.

Che, oltre agli ingenti danni al patrimonio di biodiversità e ai rischi per l’incolumità delle persone, genera danni economici i quali, nel 2016, ammonterebbero intorno ai quattordici milioni di euro mentre i costi per l’estinzione a otto. E la conta complessiva ha effetti diretti anche sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici e della tenuta degli ecosistemi, contribuendo pure a pregiudicare la già precaria tenuta idrogeologica.

A scongiurare la devastazione dei roghi manca una sinergia tra i diversi soggetti interessati: i mezzi aerei – quattordici canadair, tre elicotteri dei vigili del fuoco e tre della Difesa – non sono sufficienti da soli se non sono coadiuvati da azioni di bonifica delle squadre a terra. Troppo spesso trascurate, le mancate bonifiche hanno come conseguenza che un incendio, spento di giorno, riprenda durante la notte perché, dopo l’intervento con i canadair, non sono state svolte tutte le operazioni necessarie al definitivo spegnimento.

Con un effetto differenziale: oltre il danno, anche, di un’azione inefficace a lungo termine, pure la beffa di un altissimo costo dato dal noleggio dei mezzi aerei di società private, a carico della collettività, a causa di un uso, da parte delle organizzazioni regionali, sproporzionato di questi.

Ma è la macchina organizzativa centrale a funzionare a singhiozzi: nonostante siano passati diversi mesi dalle scadenze previste dall’annuale direttiva sul punto, emanata dal Consiglio dei ministri, ancora gli interventi nazionali non sono stati messi in campo. Latita il decreto attuativo relativo all’assorbimento del corpo forestale dello Stato in altre amministrazioni, la cui assenza genera difficoltà operative negli interventi concreti.

Manca l’integrale aggiornamento annuale dei Piani Antincendio Boschivo dei parchi e delle riserve naturali: al momento ne risultano vigenti tredici, otto con l’iter non ancora concluso e due parchi con il Piano scaduto, secondo quanto si legge nel "Dossier Incendi 2017", redatto da Legambiente. Ritardi ingiustificati con conseguenze disastrose e tempi biblici nella definizione e chiusura di tutte le fasi preparatorie per la piena operatività nelle attività di previsione, prevenzione e intervento. Siamo in Italia.

di Tania Careddu

Sempre più cinico, iperinformato, pronto a condividere le proprie esigenze di consumo con gli altri, scaltro cacciatore di opportunità nei prezzi, nelle tipologie di prodotti e nella qualità: è il nuovo consumatore nell’era della (lenta) ripresa economica.

Tra stretta dei redditi e spese impreviste, gli italiani praticano una ricerca sistematica di massa e soggettiva, muovendosi e scegliendo all’insegna di una ibridazione tra shopping tradizionali e nuove modalità di acquisto (vedi il web).

Costretto alla scaltrezza nel distribuire il reddito tra risparmio cautelativo e consumi e tra consumi necessari e sfizi irrinunciabili, il consumatore post crisi è soprattutto infedele a marchi e insegne per la scelta (indispensabile) di applicare pratiche combinatorie che uniscono i diversi canali di acquisto e le molteplici opportunità per spendere meno e meglio.

Cosicché carrelli della spesa, tavole e dispense sono composte dagli italiani con un uso saggio e nomadico delle opportunità offerte, tralasciando, quindi, quelle generaliste standardizzate, soprattutto per i beni che lui reputa di pregio e di valore.

Refrattario a standardizzazioni semplificatorie, sfuggente, è un consumatore non seriale perché articolato nelle scelte e segue un modello di welfare dei consumi che incarna esigenze materiali e immateriali tese alla sostenibilità sociale e ambientale: il consumo è sempre più l’esito di una matrice complessa di motivazioni non più solo funzionali ma anche ideali, di riferimento a valori e principi etici.

A incarnare il consumatore di cui sopra, reduce da un formidabile ko economico, che combina fisico e virtuale, nel quale coesistono le punte più avanzate della società iperconnessa e i comportamenti tradizionali dello shopping, il millennials. Che, secondo quanto riporta la ricerca “Lo sviluppo italiano e il ruolo sociale della distribuzione moderna organizzata”, redatta dal Censis, elegge la grande distribuzione a luogo preferito per gli acquisti: dall’alimentare all’abbigliamento, dall’arredamento al bricolage e al giardinaggio, dalla profumeria alla cosmetica.

E vi ripone aspettative future sognando di trovarci, prima o poi, anche farmaci, carburante e polizze assicurative, con orari di apertura più flessibili e prolungati. E, perché no, pure il wifi. Alla ricerca di quella connessione che faccia da barriera all’ampliarsi delle distanze sociali in un luogo, per acquisti democratici, interclassisti e inclusivi, che contribuisce a tenere insieme la società, sia nei momenti di massima fibrillazione socio-economica della crisi sia nelle fasi più recenti di (s)tentato rilancio.

Fungendo, in ogni caso, come scialuppa di salvataggio del tenore di vita per tanti italiani quando si riducevano i redditi disponibili e aumentavano le difficoltà economiche.

di Tania Careddu

Nonostante l’inversione (positiva) di tendenza rispetto agli anni passati, gli illeciti ambientali sono ancora tanti. Diminuiti di sette punti percentuali rispetto al 2015, se ne contano comunque settantuno al giorno, tre ogni ora. Dallo sfruttamento degli animali da reddito al mercato degli shopper illegali, dall’allarme delle illegalità nei parchi alle navi dei veleni, dall’abusivismo edilizio al ciclo illegale dei rifiuti, il fatturato delle attività criminali contro l’ambiente in Italia continua a produrre cifre da capogiro.

Sebbene a due anni dall’entrata in vigore della legge sugli ecoreati il fatturato delle ecomafie scenda, registrando un meno 32 per cento rispetto allo scorso anno, ammonta, comunque, a tredici miliardi di euro, grazie alla riduzione della spesa pubblica per opere infrastrutturali nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso (Campania, Sicilia, Puglia e Calabria) e al lento ridimensionamento del mercato illegale.

Perché crescono del 20 per cento gli arresti, le denunce e i sequestri e, contestualmente, calano i reati contro gli animali, quelli relativi al ciclo illegale del cemento - seppure, nel 2016, si sono contati diciassette mila nuovi immobili abusivi - mentre non seguono questo trend quelli correlati alla gestione dei rifiuti, dalla produzione allo smaltimento passando per il trasporto, con una crescita di quasi il 12 per cento, del 18 per cento e rotti delle persone denunciate (sedici al giorno), centodiciotto quelle arrestate, duemila e duecento i sequestri e trecentoquarantasei le inchieste aperte.

Stessa lunghezza d’onda sul fronte degli incendi che hanno mandato in fumo più di ventisettemila ettari, con oltre quattromilaseicentotrenta roghi, trecentoventidue persone denunciate tra piromani, ecocriminali ed ecomafiosi, quattordici arrestate e novantasei sequestri. Di natura essenzialmente dolosa, gli incendi sono quasi sempre appiccati per interessi speculativi legati all’edilizia o all’assunzione di operai forestali precari (non raramente, infatti, è capitato che ad accendere un rogo siano stati proprio coloro che erano pagati per spegnerlo).

“Quest’anno il Rapporto Ecomafia - dichiara, commentando i dati, la presidente nazionale di Legambiente, Rossella Muroni - ci restituisce una fotografia che non ha solo tinte fosche, come nelle scorse edizioni, ma anche colori di speranza grazie anche alla legge che ha introdotto nel codice penale i delitti ambientali e che ha contributo a renderci un paese normale, dove chi inquina finalmente paga per quello che ha fatto.

Ora è importante proseguire su questa strada non fermandosi ai primi risultati ottenuti, ma andando avanti investendo maggiori risorse soprattutto sulla formazione degli operatori preposti ai controlli e dando gambe forti alle Agenzie regionali di protezione ambientale, che stanno ancora aspettando l’approvazione dei decreti attuativi, previsti dalla recente riforma del sistema delle Agenzie, da parte del ministero dell’Ambiente e della Presidenza del Consiglio dei ministri”.

Le fa eco il direttore generale di Legambiente, Stefano Ciafani: “Per contrastare le illegalità ambientali è fondamentale che siano approvate quelle norme che mancano ancora all’appello a partire da una legge che semplifichi l’iter di abbattimento delle costruzioni abusive. Servono anche norme che prevedano i delitti contro la flora e la fauna protette, pene più severe contro le archeomafie e anche l’accesso gratuito alla giustizia alle associazioni”.

di Tania Careddu

L’ingresso di molte donne nel mercato del lavoro, l’innalzamento dell’aspettativa di vita e la complessiva riduzione delle risorse a disposizione del welfare pubblico, hanno reso colf e badanti indispensabili per la vita quotidiana delle famiglie italiane. In forte espansione nell’ultimo decennio, sebbene con un andamento altalenante, influenzato dalle misure amministrative e normative che si sono succedute nel corso delle varie legislature, il lavoro domestico riguarda poco meno di un milione di lavoratori (al netto degli irregolari), portando l’Italia a essere il primo paese dell’Unione Europea per numero di occupati nel settore.

La cui provenienza è, principalmente, dall’Est Europa, dalle Filippine, dall’America Latina ma anche dal Belpaese stesso che, nel 2015, ha assistito a un aumento di più di due punti percentuali dei lavoratori domestici, attribuendone l’incremento all’effetto indiretto della crisi economica.

Pur essendo un fenomeno diffuso trasversalmente dalle Alpi al tacco dello Stivale, le dinamiche che sottendono sono piuttosto differenti a seconda del territorio: a Sud, il lavoro domestico è dovuto principalmente alle fragilità del sistema locale di protezione sociale, legate a carenze strutturali dei servizi assistenziali e del sistema sanitario; a Nord, è correlato all’invecchiamento della popolazione e alla maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro.

Roma, Milano e Torino raccolgono oltre un quarto dei lavoratori domestici in Italia, anche se il primato calcolato in base al rapporto numero di lavoratori e abitanti, spetta a Cagliari con trentotto di loro ogni mille abitanti. I dati, secondo quanto si legge nella ricerca Il valore del lavoro domestico, elaborata da DOMINA, indicano che le famiglie non considerano primaria la necessità di avere un contratto di lavoro e delle buste paga elaborate in maniera adeguata.

Senza considerare, però, che un rapporto di lavoro gestito correttamente pone solide basi per una relazione a lungo termine, anche in considerazione del fatto che, spesso, il lavoro coincide con la convivenza nel nucleo famigliare. Il quale, gestendo il lavoro domestico, esercita un impatto significativo a livello economico e fiscale, traducendosi in un giro d’affari per lo Stato, se si pensa che, in un anno, i datori di lavoro domestico spendono circa sette miliardi di euro, di cui novecentoquarantasette milioni in contributi versati e quattrocentosedici in trattamenti di fine rapporto.

Va da sé che questo comparto, oltre a essere una ingente entrata, consente allo Stato di risparmiare i costi di gestione di strutture per l’assistenza e permetta alle donne italiane di entrare e restare nel mondo del lavoro, sostituendosi al sistema pubblico di welfare nella risoluzione dell’annoso problema - mai totalmente risolto - della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Ma al di là di numeri, cifre e conti, il lavoro domestico rappresenta un valore anche in quanto fondamentale strumento di inclusione socio-culturale per il confronto che genera fra persone di nazionalità diverse, comportando inevitabilmente uno scambio culturale e la condivisione di usi e costumi, trasformando le famiglie in un vero agente di integrazione e cambiamento.


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