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di Tania Careddu
Che sicurezza e libertà debbano prosperare insieme non c’è dubbio ma i dati riportati nel "Primo rapporto annuale sulle spese militari italiane 2017", a cura dell’Osservatorio sulle spese militari italiane, Mil.€X, sono indicativi della volontà politica di destinare alla Difesa una porzione fissa della ricchezza nazionale. Sebbene il ministro della Difesa italiano, in occasione della presentazione dell’ultimo rapporto annuale sulle spese militari dei paesi NATO - che evidenzia un aumento della spesa del Belpaese, tra il 2016 e il 2016 – abbia espresso un diniego sulla questione, l’aumento c’è stato. Eccome. Del 3,2 per cento nel 2016 rispetto al budget del 2015 e anche in termini percentuali sul Prodotto Interno Lordo.
Senza considerare una serie di spese a carico di altri ministeri ed enti pubblici, più difficilmente computabili. Per il 2017, l’Italia stanzia oltre ventitré miliardi e trecentosettantasette milioni di euro per le spese militari pari a oltre sessantaquattro milioni di euro al giorno, ventisette all’ora e quarantacinquemila al minuto.
A pesare sulle spese, primo fra tutti, il costo del personale dell’esercito, della marina e dell’aeronautica, pari al 41 per cento del totale. E nonostante la graduale (e lenta) contrazione del personale, stando a quanto vorrebbe la riforma Di Paola del 2012 che punta al riequilibrio interno delle categorie, le forze armate italiane rimangono caratterizzate da una distorsione cubitale: si conta un numero maggiore di comandanti rispetto ai comandati. Troppi marescialli e troppo pochi graduati e truppa, con l’ovvio risultato che il quadro del personale rimane ancora (e perciò) estremamente oneroso.
Incide, poi, per il 13 per cento del totale, il costo per i carabinieri; quello del personale a riposo che raggiunge il 10 per cento e quello per l’esercito che, pari al 6 per cento, è però integrato dalle risorse derivanti dagli stanziamenti per le missioni all’estero.
Un notevole aumento dei costi per l’anno che verrà è da attribuire alle spese destinate al trasporto aereo di Stato (in gergo, aerei blu), con un incremento di circa il 50 per cento: la quasi totalità di questi costi è da riferirsi all’acquisto del nuovo Airbus A340 della Presidenza del Consiglio (per inciso, utilizzato solo una volta in un anno per una missione di imprenditori italiani a Cuba), con un costo di più di cinquantacinque milioni di euro di carburante per otto anni.
Ma il dato più significativo, e anche più evidente e più noto, è quello riguardante la spesa in armamenti: nel 2017, questa supererà i cinque miliardi e mezzo di euro circa, pari a oltre quindici milioni di euro al giorno, rappresentando un quarto della spesa militare complessiva.Perché i costi lievitano? Se la Difesa ordina alle aziende una quantità di mezzi e sistemi d’arma che risponde a necessità industriali e commerciali private e non a esigenze strategiche politico-pubbliche, il risultato sono programmi di acquisizione sovradimensionati. Quindi: quantità eccessive di mezzi che saranno sottoutilizzati e che finiranno inevitabilmente ad arrugginire nei depositi o cannibalizzati per recuperare pezzi di ricambio.
La storia (recentissima) è piena di esempi: dal Parco Mezzi Cingolati e Corazzati dell’esercito ai nuovi carri armati Centauro 2 fino al nuovo elicottero da attacco all’esercito Mangusta 2. E chissà che fine faranno i nuovi sette F-35, oltre gli otto già comprati, per i quali è stato versato, nel corso del 2016, l’acconto. Alla modica cifra di centocinquanta milioni di euro cadauno.
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di Tania Careddu
“La Heimweh, questa malattia così spesso mortale non è stata sinora descritta dai medici”, disse il medico svizzero Johannes Hofer, rappresentando nel termine tedesco, “il dolore di coloro che si trovano lontano dalla patria, e di coloro che temono di non rivedere più la terra natale”. Risale al 1688, la prima codificazione psichiatrica di una patologia dell’immigrazione.
Poi, a parte considerazioni aneddotiche sulla salute mentale dei migranti in Italia, le osservazioni cliniche e la ricerca scientifica sulla loro salute psichica sono relativamente recenti. Risalenti agli anni novanta, i primi dati raccolti, confermatisi nel tempo, consentono di affermare “l’effetto migrante sano”. Ossia, con buona pace di chi strizza l’occhio a rigurgiti razzisti, gli immigrati partono sani dal loro paese e sani, di norma, arrivano in quello ospite.
Prova ne sia che i tassi di ospedalizzazione per diagnosi psichiche tra i migranti sono stati sempre, nella storia della migrazione italiana, particolarmente bassi. A discapito di quanto ci si sarebbe potuto attendere per la presenza di fattori di rischio legati all’esperienza migratoria, invece, gli immigrati si ammalano in Italia, a causa delle condizioni di vita in cui sono costretti.
E, però, se questo impianto osservativo ha tenuto per oltre un ventennio, alla luce delle nuove dinamiche migratorie degli ultimi cinque anni, va rivisitato, tenendo conto del cambiamento socio-demografico: il passaggio da una migrazione ordinaria di tipo economico a una di profughi con percorsi migratori prolungati e molto duri, infatti, ha fatto emergere una diversa tipologia del migrante.
Quello dei giorni nostri si presenta, più frequentemente, con un “substrato psichico già compromesso, con una capacità di resilienza ridotta e in assenza di un progetto migratorio chiaro”, vuoi per le caratteristiche demografiche riferibili a minimi livelli di istruzione e alle condizioni di emarginazione sociale pre-migratoria, vuoi per quelle psicologiche, con alcuni ricoveri precedenti alla partenza.
Che rendono il richiedente asilo più vulnerabile (ora rispetto al passato) allo stress da transculturazione: la capacità di gestire una situazione nuova, spesso non comprensibile a prima vista, con una complessità di stimoli elevata, non è scontata.
Il progetto migratorio, poi, fa la sua grossa parte nel determinare la loro resilienza, considerato che a esso è ancorato il sistema motivazionale degli immigrati: non è così per i migranti forzati dell’ultimo quinquennio per i quali i fattori di espulsione dalla madrepatria dominano su quelli di attrazione nel paese d’approdo.
Il quale, spesso, non è neppure frutto di una scelta consapevole e, per di più, non è accogliente, offrendo un supporto sociale lacunoso, fatto che, insieme all’aver subito traumi nel paese d’origine, tende a peggiorare il livello di sofferenza psicopotalogica. E così, sono aumentati i disturbi psichici tra gli immigrati e del 50 per cento i loro ricoveri, secondo quanto riporta il dossier "rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2016" redatto dalla Caritas..
Ebbene, si, partono sani, cosa abbastanza ovvia se si considera quanto impegnativo sia il percorso migratorio e quanta buona salute (mentale) richieda per essere affrontato. E’ qui che si ammalano.
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di Tania Careddu
Quando esordisce fin dai primissimi giorni di vita, il maltrattamento condiziona, in modo irreversibile, se non adeguatamente trattato, le modalità, le strutture e le conseguenti funzioni di un individuo in via di sviluppo. Essendo l’essere umano un prodotto dinamico di quello che gli accade intorno e di quanto è scritto nel suo DNA, il maltrattamento diviene condizione patologica in grado di alterare la maturazione e la morfologia cerebrale, per l’interazione tra progetto genetico e ambiente.
Tanto che se gli input ambientali non sono inseriti in un contesto relazionale caldo e amorevole non si può realizzare il primo in maniera sana, rappresentando il rapporto umano ciò che attua quello che i geni programmano. Non solo rallentando alcuni fenomeni tipici del neurosviluppo ma anche definendo una nuova morfologia di connessione delle diverse aree cerebrali, con conseguenze, nel medio e lungo termine, molto gravi.
Esse comprendono patologie neurologiche degenerative e psichiatriche, ritardi nello sviluppo e disturbi nella sfera della dipendenza da sostanze, oltre che un’incidenza maggiore di diabete, malattie cardiovascolari e gastroenterologiche. Per non parlare di casi di morte anticipata, collegata indirettamente agli esiti psicoemozionali e comportamentali del maltrattamento e che si esplicano in un aumento di condotte fortemente a rischio, suicidarie e autodistruttive.
Dal maltrattamento fisico all’abuso psicoemozionale, dalla trascuratezza e trattamento negligente all’abuso chimico, dalla sindrome del bambino scosso al trauma cranico abusivo, dalla sindrome di Munchausen agli abusi sessuali, sono le multiformi facce della violenza di cui sono vittime i bambini nel contesto famigliare. Sottoposti a ciò, sovente, come reazione al loro pianto inconsolabile, per calmarli o risvegliarli ma, sempre, frutto della (negata o non manifesta, prima di allora) malattia mentale di chi se ne occupa.
Oltre tremila i casi di bambini, negli ultimi cinque anni, secondo i dati della Rete nazionale di eccellenze ospedaliere per il contrasto della violenza sui bambini, riportati nel dossier "Maltrattamento e abuso sui bambini: una questione di salute pubblica", redatto da Terre des hommes, di età media di sette anni, anche se il maltrattamento è stato rilevato in tutte le fasce d’età, e con una prevalenza di bambine, e spesso, è contemporaneamente presente in forme diverse, quello multiplo, infatti, raggiunge il 30 per cento delle vittime.Come, da tempo, la definisce l’Organizzazione mondiale della sanità, la violenza sui minori è, pure un problema di salute pubblica. Prova ne sia che , in Italia, l’1 per cento del prodotto interno lordo, ogni anno, è destinato a far fronte alla spesa derivante dalla violenza all’infanzia, con un impatto sull’economia e sul benessere di uno Stato, soprattutto riferibile alla mancata prevenzione della violenza e alle sue conseguenze mediche e sociali. E’ così che la prevenzione della violenza si traduce anche nella cura della malattia mentale degli adulti.
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di Tania Careddu
Dal momento che nei bilanci pubblici entrate e uscite non possono considerarsi totalmente neutrali in termini di genere, dagli anni ottanta è stato pensato il bilancio di genere. Senza avere la finalità di giungere alla realizzazione di bilanci separati (per sesso) ma fondandosi sull’idea di rendere più equa (e trasparente) la ripartizione delle spese, il bilancio di genere promuove, o almeno dovrebbe, la realizzazione del principio di parità e uguaglianza.
Prendendo spunto da esperienze internazionali ed europee, nel 2001, in Emilia Romagna è stato messo a punto il primo; nel 2003, le province di Modena, Siena e Genova hanno siglato un protocollo d’intesa per la sua promozione e lo scambio di buone pratiche in materia di pari opportunità; a fine 2006, anche le province di Ferrara, Alessandria, Ancona, Firenze, La Spezia, Milano, Parma, Pesaro-Urbino e Torino lo hanno adottato.
Strumento di messa in atto del meccanismo di “ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni”, il bilancio di genere richiama, in forma esplicita, il perseguimento delle pari opportunità, integrando la prospettiva di genere in tutti i passi delle procedure di bilancio e mirando a modificare entrate e uscite per eliminare le disparità presenti. E’ volto, cioè, alla valutazione del diverso impatto della politica di bilancio sui due generi, in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito.
La classificazione delle spese e delle entrate in un’ottica di genere costituisce un’impresa ardua ma permette, a conti fatti, una valutazione qualitativa e quantitativa dei servizi e della loro capacità di rispondere ai bisogni dell’intera popolazione.
Ma, in virtù della sua complessità, nella prassi italiana, emerge, purtroppo, un quadro frammentario e discontinuo in cui il bilancio di genere consiste in poco più di un’analisi di contesto. Forme sporadiche di coordinamento tra i diversi enti impegnati nelle analisi di genere e singoli esercizi non sono confluiti in un progetto più ampio che coinvolgesse l’amministrazione tutta.
Affinché non si continui a tradurre il bilancio di genere in un mero esercizio contabile, la quantificazione dell’impatto degli interventi pubblici sul divario di genere assume maggiore efficacia se effettuata nel contesto di una valutazione complessiva e sistematica delle politiche pubbliche.
Anche perché, attualmente, l’analisi di genere viene esercitata, più che altro, sui dati di consuntivo dei bilanci, con finalità, dunque, prettamente informativa, piuttosto che nella fase di preparazione del bilancio, ossia in sede di decisione dell’allocazione delle risorse.Trascurandone la sua essenza, se non si considera che il bilancio di genere rappresenta l’ambito nel quale si delinea il modello di sviluppo socio-economico, si stabiliscono i criteri di ridistribuzione del reddito e si indicano le priorità politiche. Elementi che, sottovalutati nelle decisioni di bilancio, tendono a perpetuare (se non ad approfondire) le differenze di genere che permeano la società.
Ma fin quando non si accantona l’immagine che il benessere vada valutato sulla quantità goduta di un bene o sull’utilità derivante dal suo impiego e non sui funzionamenti, il bilancio di genere rimane un lusso che non ci si può ancora permettere.
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di Tania Careddu
Quattrocentosettantotto miliardi di euro di spesa pubblica annua per il sistema di protezione sociale vanno tutelati. Ad una impostazione di teoria economica che non prevede investimenti pubblici, con la scusa di una situazione economica (critica) che ha modificato lo scenario, si sommano inefficienze, sprechi, comportamenti opportunistici, fino alla corruzione e al malaffare, lo stato sociale smarrisce del tutto il senso e il consenso che merita.
Prevale l’opinione che la crisi del welfare sia dovuta anche a una generosità cieca, riferibile al passato, del sistema: troppi sprechi, nella sanità, per esempio, con tanti accertamenti inutili, analisi di laboratorio, consumo di farmaci; nell’assistenza sociale con pensioni di invalidità troppo facilmente concesse; nell’istruzione con troppo personale nella scuola o presunto spreco di materiale didattico.
Ma per la maggior parte degli italiani, pari al all’86,8 per cento, il dissenso più intollerabile nasce dal sospetto della presenza di frodi, con soggetti che beneficiano di prestazioni a cui non avrebbero diritto, oltre che con il passaggio di ingenti flussi economici di risorse con quote di sommerso (in soldoni, pagamenti in nero di visite mediche specialistiche, di ripetizioni scolastiche o dello stipendio delle badanti). E con il lapalissiano effetto di non riuscire più a contenere le disuguaglianze sociali, in un contesto già caratterizzato da un restringimento di risorse pubbliche imposto da un taglio delle spese.
L’opacità della destinazione delle risorse, da una parte, fa pensare a un meccanismo di sottrazione delle stesse direttamente ai cittadini; dall’altra, favorisce comportamenti opportunistici e uso inappropriato dei soldi pubblici. Oltre a consentire un uso strumentale e demagogico della (mancata) trasparenza quale grimaldello per attaccare il welfare tout court.
E, invece, “il welfare italiano è stato da sempre piattaforma di sicurezza per le famiglie, garantendo le spalle coperte. Questo, il suo significato più importante e questa la sua principale funzione. Se le famiglie come soggetto di welfare garantiscono risposte mirate e quotidiane ai bisogni sociali, è importante metterle nelle condizioni di capire chi, dove, in che modo e con quali risorse possano sostenerle.
La trasparenza nell’uso delle risorse non è una clava contro il welfare ma uno strumento per renderlo migliore”, ha detto il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, presentando il rapporto “La forza della trasparenza nel sistema di welfare”.
“Trasparenza significa chiarezza nei costi, nei ruoli e, soprattutto, nelle aspettative” ha incalzato il presidente del Forum Ania Consumatori, Pier Ugo Andreini, destinatario della ricerca. Il quale ha concluso: “Il welfare è un patto sociale tra cittadini finalizzato a proteggere il proprio benessere e a tutelare il futuro proprio e, spesso anche, dei figli. Come tutti i patti, il principio di trasparenza nelle informazioni e di eticità nei comportamenti è fondamentale per il suo buon funzionamento”.