di Tania Careddu

La si può definire l’insostenibile sicurezza dell’essere sociale. Globale, per ragioni indipendenti dal contesto e delle quali, per una volta, non sono responsabili le istituzioni nazionali e locali. Un’inquietudine indefinita, scatenata dalle emergenze nella vita quotidiana che si verificano per fatti fuori dal nostro controllo e dalla nostra portata, inafferrabili e imprevedibili.

La distruzione dell’ambiente e della natura, l’inquinamento, la sicurezza dei cibi che mangiamo e l’essere vittime dei disastri naturali sono le cause delle notti insonni della maggior parte degli italiani: dopo le ultime tragedie che hanno colpito il Centro Italia, la paura di terremoti, frane e alluvioni ha registrato un incremento di tredici punti, nella graduatoria delle paure, rispetto all’anno scorso.

Secondariamente, secondo quanto si legge nel X Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in Europa, “L’Europa sospesa tra inquietudine e speranza”, redatto da Demos & Pi e dall’Osservatorio di Pavia, angoscia la crisi economica: la paura di morire di fame e di freddo, nonostante i timidi segnali di ripresa, è ancora ancestrale e profonda all’interno dei nuclei famigliari italiani.

Preoccupa la criminalità che, con il 41 per cento, occupa il terzo posto nella lista delle ansie dei cittadini del Belpaese, inquietati, soprattutto, dai furti in casa. E sebbene ormai dissociati dal fenomeno migratorio, il timore dello straniero continua, però, ad aumentare. Insidia per l’ordine pubblico, l’immigrato è, anche, minaccia per l’occupazione.

Una percezione confermata dalla rappresentazione. Quella mediatica è incentrata, quasi esclusivamente, sulle criticità e sul rifiuto dell’accoglienza e della permanenza, che sono causa di rivolte e disordine nei centri di accoglienza e del degrado delle città. Ma nell’agenda televisiva dell’insicurezza troneggia la passione per il crimine, con i fatti di cronaca nera ridotti a veri e propri serial noir.

La distruzione dell’ambiente è la seconda voce nell’amplificazione della dimensione ansiogena che trova, invece, una declinazione più ottimistica nel racconto mediatico della realtà economica, il quale tende a evidenziare i segnali di ripresa, in controtendenza rispetto alla percezione dei cittadini che sul futuro proprio, vedi la pensione, e su quello dei figli ripongono le loro battisoffie.

Una discrasia a conferma del fatto che l’informazione, spesso, prende le distanze dalla realtà, se non fosse per il tema della corruzione, trattando il quale, invece, casi clamorosi assumono la valenza esemplare a rinforzo della sensazione di un clima di sfiducia nei confronti della Pubblica Amministrazione e, in generale, della politica.

Per il comodo ma insano modo di proiettare all’esterno di sé i propri turbamenti, le paure degli italiani, nel 2017, si riversano fuori dai confini.

Perciò, l’Europa politica e istituzionale dai tratti sbiaditi è la fonte dell’insicurezza nazionale: quell’Unione europea che subisce la Brexit e che viene collegata all’immigrazione che non sa gestire, alzando muri e frontiere che vengono percepiti come insormontabili.

L’Europa che non c’è ma (forse proprio per questo) che continua a rappresentare un obiettivo da perseguire come unica chiave per affrontare i terremoti degli italiani.

di Tania Careddu

“Oggi ho letto sul vostro sito che la Corte costituzionale ha accolto l’istanza per lo smantellamento del parto segreto. Come avrete capito, io sono una madre segreta. Quando ho letto la notizia, il mio mondo si è dissolto in un attimo, ho guardato i miei famigliari, ignari, e ho visto la fine della vita che, con fatica, mi sono costruita e guadagnata (…). La mia vita, ormai, dipende dal legislatore”.

La risposta alla sentenza emessa dalla Corte costituzionale, nel dicembre appena passato, che viola il patto stipulato quarant’anni orsono tra le partorienti e lo Stato, a tutela della segretezza del parto, è tutta in questa (e altre) lettere, arrivate all’Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie, che, da sempre, lotta per l’anonimato delle mamme che non vogliono riconoscere i loro nati.

“La Corte costituzionale, con una sentenza a dir poco incredibile, ha voluto smantellare una delle poche buone leggi in vigore (…). Uno Stato non può tradire in questo modo un patto stipulato che mi ha portato a fare questa scelta, anche se imposta, che mi ha permesso di non abortire”.

Lo scoramento delle madri segrete – novantamila dal 1950 a oggi – ha origine da quella sentenza in base alla quale loro potranno essere rintracciate, su richiesta dei nati fattisi maggiorenni, attraverso una procedura che le espone alla loro individuazione, seppure indirettamente, da parte di terzi, coinvolgendo un numero elevato di soggetti, e con esiti imprevedibili, e si fa attualissima con l’ultima proposta di legge, la numero 1978, approvata alla Camera e ora al vaglio del Senato, che andrebbe a sfregiare un diritto garantito per cento anni dalla legge numero 2838 del 1928 e confermato dalla numero 196 del 2003.

E, sebbene all’articolo 1, il disegno di legge fermo al Senato stabilisca che il reperimento, avviato da un procedimento di interpello da parte dei nati, avverrebbe con modalità che assicurano la “massima riservatezza e avvalendosi preferibilmente del personale dei servizi sociali e tenendo conto dell’età, dello stato di salute psico-fisico della madre nonché delle sue condizioni famigliari, sociali e ambientali”, comunque non garantisce alcuna riservatezza considerato che per appurare tutte le condizioni elencate è necessario, prima, identificare le donne.

E che dire della riservatezza che riserva il passaggio che disciplina che, per evitare di essere interpellate su richiesta del proprio nato diventato diciottenne, debbano “entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, confermare la propria volontà comunicandola al Tribunale per i minorenni del luogo di nascita del figlio”?

Sottile confine, quello fra il diritto della madre al parto anonimo e quello del figlio di conoscere le proprie origini biologiche, ancora così netto se non si supera quel difetto culturale dominante e anacronistico che considera i figli in base al vincolo di sangue e dimenticando che, con la legge numero 219 del 2012, tutti i nati sono figli senza ulteriori aggettivazioni (adottivi o biologici) delle donne che li allevano secondo il vincolo genitoriale. Non secondo quello genetico.

di Redazione

Dj Fabo è morto ieri mattina. Costretto all’esilio in Svizzera per il suicidio assistito e aiutato da Marco Cappato. E’infatti questa l’unica possibilità attuale per le persone come lui. Eppure sembrava che una legge sul fine vita dovesse arrivare a tempi di record dopo la morte di EluanaEnglaro, il 9 febbraio del 2009. A Udine, a colpi di sentenze e dopo quasi venti anni di straziante battaglia, Beppino, suo padre, era riuscito ad ottenere l’interruzione dell’idratazione e alimentazione forzata di quel corpo vegetante e inerte in cui sua figlia si era trasformata.

Una morte diversa quella di Dj Fabo. Che sceglie di essere aiutato da qualcuno a morire. Il suicidio assistito di un giovane e la fine dell’alimentazione forzata di Eluana sono procedure tecnicamente diverse ma hanno due aspetti comuni.  Sono figlie del progresso scientifico, che consente di rimanere in vita in condizioni al limite, e dell’articolo 2 e 32 della Costituzione: la libertà e il suo rapporto con la cura e la dignità della persona.

La storia della morte in Italia assomiglia a quella della nascita. Un paradosso figlio della stessa impreparazione a normare le sfide etiche. Cosi come per la legge 40 è stato necessario il calvario di tante coppie per farla a pezzi nei Tribunali ed eliminarne discriminazioni e pratiche lesive della salute, ora per morire come ciascuno vuole bisogna passare per l’esilio e per anni di agonia.

Il disegno di legge Calabrò della passata legislatura, votato e approvato dalle due Camere mai in modo definitivo, si era concentrato sulla sospensione dell’alimentazione e idratazione forzata e su come tutelare i pazienti non coscienti. Ovvero quanti si trovano in stato vegetativo persistente cronico. Il nuovo testo di legge è invece più ampio e riguarda interventi, attivi o di omissione, del personale sanitario e gli emendamenti fioccano copiosi. Intanto oggi Marco Cappato rischia 12 anni di carcere.

Punto cruciale è l’interpretazione delle cosiddette DAT ovvero le disposizioni anticipate di trattamento. Andrebbero rispettate sempre tranne quando l’intervento sanitario possa apportare un miglioramento o subentrino situazioni del tutto diverse al momento in cui si sono rese le disposizioni. Disposizioni o dichiarazioni? Potremo fareun vero e proprio testamento biologico? Nel frattempo i registri dei singoli Comuni che sono nati per dare una spinta dal basso alla legge sull’eutanasia dovranno fare capo alla norma. Quale sarà, quando sarà.

Intanto, mentre scorre la solita kermesse delle frasi di circostanza, possiamo esser certi che sia stata rispettata la volontà di un uomo, imprigionato in un corpo di pietra e senza luce. Perché la sua volontà e la sua libertà valgono come quella di un uomo che parla, cammina, vede il sole. Un Paese civile questo lo sa.

di Tania Careddu

A quarant’otto anni dalla promulgazione della prima legge, la 337 del 1968, che ha progressivamente regolamentato il settore circense, l’Italia rimane ancora uno dei pochissimi paesi europei e nel mondo a essere privo di una normativa che proibisca l’esibizione degli animali nei circhi.

Seppure con segnali di apertura recenti, riconducibili alla Riforma Franceschini, il Belpaese, in materia, si attiene alle Linee Guida internazionali, emanate nel 1973, solo per la corretta sopravvivenza degli animali custoditi, relativamente a questioni di carattere sanitario e amministrativo.

Non esiste un’anagrafe nazionale degli animali utilizzati negli spettacoli né un registro delle unità circensi che, a occhio e croce, dovrebbero essere circa ottantacinque, malamente enumerabili per la consuetudine delle insegne circensi di suddividersi in più unità o di cambiare frequentemente nome.

Di animali se ne stimano circa duemila fra cavalli, asini, zebre, bisonti, cammelli e dromedari, lama, giraffe, rinoceronti e ippopotami, elefanti, tigri di ogni colore, leoni, struzzi, otarie, pinguini, rettili e piranha.

Ma domatori autorevoli e animali in gabbia non riescono più a suscitare l’interesse di grandi e piccini, come negli anni ottanta. Prova ne sia il calo, in termini assoluti, riscontrato nel periodo 2010-2015, in cui il biglietto al botteghino, invece, aumenta da dieci a tredici euro, sia del numero delle rappresentazioni sia del relativo afflusso di pubblico.

Succede nel Centro Italia, in particolare nel Lazio e in Toscana, roccaforti a tradizione circense, mentre riscontra successo nel Nord Ovest, soprattutto in Piemonte e Lombardia, che rappresenta l’ultimo (unico) baluardo del circo italiano.

Sarà forse per l’attuale trasformazione degli spettacoli, da quelli tradizionali a nuovi format artistici molto evoluti e lontani anni luce dai modelli storici obsoleti, realizzati senza l’esibizione degli animali. Il passaggio definitivo a questo tipo di rappresentazioni - il disegno di legge numero 2287-bis del 16 marzo scorso (o Riforma Franceschini, appunto) ne disciplina la dismissione - avrà, però, dirette conseguenze sull’intera filiera e sulla tenuta della produzione circense.

E peserà, certamente, sul potenziale decremento della base occupazionale e sulla futura collocazione degli animali dismessi, da ospitarsi negli zoo, attualmente saturi, o presso i Centri di recupero per animali esotici, a oggi non in grado di assorbire nuovi esemplari.

Ma potrebbe anche generare un risparmio sia sui costi in termini di sostentamento alimentare sia su quelli necessari a effettuare le visite sanitarie, oltreché su quelli per la formazione del personale (ex) deputato all’addestramento degli animali.

Tanto, messo così, sul circo non si investe più: allo stato, infatti, i contributi del Fondo unico per lo spettacolo destinati al complesso delle attività circensi, sono diminuiti, o dimezzati come quelli per i circhi con animali, mentre aumentano quelli per i circhi contemporanei (e senza animali), tipo il Cirque du soleil. E così, dopo centoquarantasei anni, anche Barnum cala il sipario.

di Tania Careddu

Che la parità di genere sia ancora tutta da venire è un dato di fatto. Ma che nella discriminazione delle donne intervenga, pure, l’identità religiosa è un elemento appena accennato e difficile da dimostrare. Succede, come testimonia la ricerca “Donne dimenticate: l’impatto dell’islamofobia sulle donne musulmane”, realizzata dalla rete europea ENAR, alle donne provenienti da paesi a maggioranza musulmana giunte in Italia.

Riconducibile, banalmente, alla presenza del velo, la segregazione è evidente, soprattutto, in ambito lavorativo, con due effetti: alcune accettano di non indossarlo, altre reagiscono autoescludendosi.

Attacchi verbali e fisici ed episodi di intolleranza contro di loro si verificano con una frequenza elevata, in media una o due volte a settimana nei confronti della stessa donna. Nonostante nel Belpaese non ci siano leggi che limitino l’uso di abiti o simboli religiosi nei luoghi di lavoro, a parte due rigurgiti rimasti tali, nel 2009 e nel 2011, che avrebbero voluto vietare l’utilizzo di burqa e niqad negli spazi pubblici, il velo scatena l’odio di chi si basa su pregiudizi antimusulmani: commenti sprezzanti o sguardi biechi in luoghi pubblici abbinati a tentativi di farlo togliere con la forza.

E se, sulla carta, quasi tutti i datori di lavoro negano di avere una qualche ostilità verso l’islam o il velo, di fatto, per le donne musulmane è difficile trovare un lavoro che prevede il contatto con il pubblico, giustificando l’esclusione con la poca apertura dei clienti e le conseguenti potenziali perdite economiche.

Fatto sta che, considerato anche che un insieme di fattori, quali una mancata padronanza della lingua italiana, una scarsa conoscenza delle istituzioni e il mancato riconoscimento di titoli di studio stranieri, spiegano gli svantaggi del caso, le donne musulmane registrano la percentuale più bassa del tasso di disoccupazione e quella più alta di inattività fra tutte le donne straniere presenti nello Stivale.

Il brutto però, è che mancano dati certi. Le forze dell’ordine non raccolgono  elementi sulla religione o sull’etnia delle vittime (prova ne sia l’inesistenza di alcuna segnalazione, negli ultimi cinque anni, riguardanti le donne musulmane) e così, a oggi, si registra una sola azione legale relativa a un caso di discriminazione sul lavoro.

Per fortuna, la Corte d’appello di Milano, ribaltando la sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Lodi che aveva salvato il datore di lavoro giustificando la sua “preferenza (come) business oriented”, ha dato ragione a Sara Mahmoud. La ragazza col velo che voleva fare l’hostess.


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