di Tania Careddu

Quello alla casa è un diritto. Per tutti. Anche per chi è sprovvisto di risorse economiche. A tutela dei quali, a partire dagli anni novanta, diverse leggi – la prima nel 1993, la numero 560 – hanno imposto la vendita del patrimonio residenziale pubblico per sopperire alla carenza degli alloggi. Lodevole se non fosse  che la scelta sembrerebbe, alla luce dei fatti successivi, essere stata partorita per fare cassa e mettere in ordine i conti pubblici piuttosto che con il buon proposito di raccogliere risorse per ristrutturare o costruire nuove strutture. A conferma di ciò, negli stessi anni, lo Stato ha, man mano, ridotto i suoi interventi in materia di politiche abitative, lasciando che se ne occupassero regioni e comuni.

Con le leggi numero 449 del 1997 e numero 388 del 2000, gli alloggi di proprietà dello Stato sono stati ceduti gratuitamente ai comuni. Che mantengono prerogative fondamentali, vedi stilare le graduatorie e assegnare le case conseguentemente. Ma, a oggi, sono seicentocinquantamila, con un incremento di quarantaseimila negli ultimi tre anni, le domande inevase di alloggi popolari, non riuscendo, gli enti locali, ad arginare il disagio abitativo, sempre più stringente.

Un po’ perché la crisi economica ha aumentato i potenziali destinatori degli alloggi sociali un po’ per l’attuazione di pratiche negative derivanti da criticità nelle politiche. Tipo: la disparità di trattamento fra i cittadini delle varie Regioni, la difficoltà di far coincidere i bandi e la relativa tempistica con la disponibilità degli alloggi o la rigidità delle regole per la formazione e la gestione delle graduatorie.

Sebbene ogni comune abbia, nel suo bilancio, una voce che finanzia le attività relative all’edilizia economica e popolare che comprende anche i costi per mantenere gli uffici che se ne occupano, il quadro è molto variegato e cambia da città a città. Il comune che spende di più per l’edilizia pubblica è Milano con settantacinque euro pro capite, seguito da Venezia con quarantadue euro e da Firenze con poco più di trentotto euro. Roma si piazza all’ottavo posto mentre, nelle ultime posizioni della classifica, stanziano Palermo, Genova e Trieste, tutte con meno di cinque euro per residente.

E per avere una misura dell’emergenza abitativa, non si può prescindere dai dati sugli sfratti (spesso per morosità e, perciò, con la conseguente immediata necessità di una sistemazione). La città più colpita dal fenomeno, con uno sfratto ogni duecentosettantadue famiglie, è Roma e Milano è al settimo posto. Al secondo, Genova, con uno sfratto ogni trecentodiciassette famiglie, ma penultima per spesa pro capite in edilizia popolare.

Che la morosità sia colpevole o incolpevole, che ci sia la tendenza a nascondere una parte del reddito per rientrare negli scaglioni più bassi con il conseguente sconfinamento nell’evasione fiscale o che, per la forte tensione abitativa tipica di certe aree urbane, la faccia da padrone l’abusivismo, sostenuto da periodici provvedimenti di sanatoria per regolarizzare posizioni non proprio legali, il malfunzionamento della macchina lascia, in troppi, senza casa.

di Tania Careddu

Sulla carta, sono misure antiterrorismo, nella loro applicazione, invece, minacciano le libertà fondamentali degli esseri umani. In seguito all’adozione della direttiva dell’Unione europea sul contrasto al terrorismo, i governi di quattordici Stati - Austria, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Slovacchia, Spagna e Ungheria - hanno promulgato, alla velocità della luce, leggi “sproporzionate e discriminatorie”, secondo quanto riporta il dossier “Pericolosamente sproporzionato: uno stato di sicurezza nazionale sempre più in via di espansione in Europa”, redatto da Amnesty International.

Talmente pericolose per la libertà tanto da far intuire la deriva verso un profondo stato di permanente emergenza securitaria. Sono leggi, politiche e misure che erodono lo stato di diritto, rafforzano il potere esecutivo, indeboliscono la supervisione giudiziaria, limitano la libertà di espressione ed espongono chiunque a forme di sorveglianza governativa sotto controllo.

In Ungheria, per esempio, la nuova legislazione in materia vieta le manifestazioni, riduce notevolmente la libertà di movimento e congela i conti bancari. In Francia, ormai, è consuetudine dichiarare lo stato d’emergenza (già rinnovato cinque volte) standardizzando una serie di misure invadenti tra le quali quella di condurre perquisizioni senza mandato giudiziario.

In Polonia, la nuova disciplina antiterrorismo ha preso di mira, in maniera discriminatoria, i cittadini stranieri e ne autorizza la sorveglianza segreta, per tre mesi, attraverso intercettazioni telefoniche e controllo delle comunicazioni elettroniche e delle reti. Strumenti utilizzati da numerosi Stati, che possono essere, ormai, definiti di sorveglianza.

Tra questi spicca quello di trovare un nesso tra la crisi dei rifugiati e la minaccia di terrorismo, basato su stereotipi pregiudiziali: produce gravi abusi di legislazioni che già definiscono il terrorismo in modo del tutto generico.

In questo modo, molte persone vengono messe sotto coprifuoco, colpite da divieti di viaggio o sorvegliate elettronicamente senza mai essere state condannate per alcun reato.

E’ l’effetto delle misure basate sul concetto di prevenzione, a cui i governi destinano sempre più risorse, sempre più orientati come sono da ordinanze amministrative di controllo per limitare la libertà di espressione.

Così tanto da suscitare il terrore di essere (tutti, indistintamente) una minaccia alla sicurezza nazionale, fino a essere accusati di “glorificazione del terrorismo” o condannati per “apologia del terrorismo”.

Va a finire che la certezza - un tempo garantita dallo Stato - che i cittadini possano esercitare, in tutta sicurezza, i propri diritti, sarà sostituita dall’idea che i diritti delle persone debbano essere ristretti in nome della sicurezza.

di Tania Careddu

Otto persone, da sole, possiedono quattrocentoventisei miliardi di dollari, tanto quanto la metà più povera dell’intera umanità. I mille e ottocentodieci miliardari della lista Forbes 2016, hanno seimila e cinquecento miliardi di dollari, di cui un terzo dei patrimoni è ereditato (e non frutto di duro lavoro) e il 43 per cento riconducibile a clientelismo, tanto quanto il 70 per cento meno abbiente della popolazione mondiale.

Per la natura stessa delle nostre economie e per i principi alla base dei nostri sistemi, la crescita va a vantaggio dei più ricchi, generando un mondo in cui, secondo quanto si legge nel rapporto “Un’economia per il 99 per cento”, redatto da Oxfam, l’1 per cento dell’umanità controlla la stessa quantità di ricchezza del restante 99 per cento. Producendo, oltre a un divario sempre più marcato fra abbienti e non, stagnazione dei salari e precarietà del lavoro.

Così, reddito e ricchezza, invece, di diffondersi a cascata verso il basso, vengono risucchiati dal vertice della piramide sociale: in primo luogo perché le grandi multinazionali (che, da sole, incassano più di centottanta Paesi più poveri messi insieme) per trovare profitti a breve termine a vantaggio degli azionisti, ricorrono a pratiche di elusione fiscale, evitando di pagare imposte che andrebbero a beneficio di tutti.

Lo fanno utilizzando attivamente la rete globale dei paradisi fiscali, stratagemmi contabili, scappatoie legali o sfruttando accordi preferenziali e tregue fiscali concessi da vari Paesi. Inoltre, i redditi degli alti dirigenti sono, il più delle volte, pagati in azioni e crescono vertiginosamente mentre le retribuzioni dei lavoratori, sempre più spremuti fino al lavoro forzato, diminuiscono per effetto della compressione del costo del lavoro, con costi umani elevatissimi.

La compressione del costo del lavoro e dei costi di produzione, insieme alla minimizzazione delle imposte, consente alle grosse compagnie di destinare una quota sempre più consistente di profitti ai propri titolari; mentre, per lavoratori, c’è solo il vedersi ridurre il potere di contrattazione collettiva.

Potere che, invece, è nelle mani dei super ricchi che influenzano le definizioni di politiche volte a favorire l’accumulazione delle loro ricchezze e a mantenerle. Determinando la struttura delle nostre società, sempre più contraddistinte da disuguaglianza economica che è anche la peggiore minaccia alla stabilità sociale. Essa infatti causa un aumento della criminalità e dell’insicurezza, le quali pregiudicano l’esito della lotta alla povertà, perché la risposta popolare all’ingiustizia esaspera le divisioni.

In Italia, nel 2016, la ricchezza dell’1 per cento più ricco - in possesso del 25 per cento di ricchezza nazionale netta - è oltre trenta volte la ricchezza del 30 per cento più povero degli abitanti del Belpaese. Quanto al reddito, tra il 1988 e il 2011, il 10 per cento più ricco ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani. Poveri noi.

di Tania Careddu

Se l’ultimo referendum non ha avuto (e meno male) l’esito per cui è stato concepito, ha, però, sortito effetti collaterali imprevisti e interessanti. In primis, ha rieducato gli italiani ai temi, polverosi per i più, della Carta costituzionale, li ha risvegliati dal torpore sulle questioni pubbliche, mobilitandoli, prima ancora che al voto, al dibattito, e non solo nelle sedi politiche ma anche negli ambienti privati.

E così, mentre le istituzioni dello Stato riscuotono la consueta diffidenza, la partecipazione politica avanza. Tanto che, nell’ultimo anno, quello dell’anti-politica, appare cresciuta, in maniera significativa, sebbene attraverso nuove forme, vedi la rete e i social network, rubando il passo alla partecipazione sociale.

Un coinvolgimento mirato, anche, a chiedere riforme. Pure fra chi ha votato no al referendum, alcuni dei contenuti del progetto di riforma vengono ampiamente condivisi: per esempio, la riduzione dei parlamentari viene appoggiata da nove italiani su dieci e il superamento del bicameralismo mette d’accordo più di un cittadino su due.

E se il 2016, sul terreno delle riforme, viene percepito come la grande occasione mancata, gli italiani continuano a rivendicare una democrazia, che rimane comunque il confine entro il quale loro continuano a pensare il sistema politico, “più democratica”. Ma mettono in discussione i suoi attori e i suoi meccanismi: perché la corruzione non è diminuita rispetto all’era Tangentopoli e la sfiducia nelle istituzioni rende più esigenti gli italiani.

In una graduatoria del consenso sociale, ormai consolidata, in cima, secondo quanto si legge nell’indagine Gli italiani e lo Stato", condotta da Demos & Pi, compaiono le Forze dell’ordine e la scuola; stabili, in fondo alla classifica, Parlamento e partiti; perdono punti lo Stato, i sindacati e le banche. E, con una leggera flessione, il Presidente della Repubblica versus Papa Francesco che supera qualsiasi organismo dello Stato italiano.

E’ un’Italia più delusa, bloccata e impaurita del solito: cresce la paura degli immigrati, considerati, per il 40 per cento degli abitanti del Belpaese, un pericolo per la sicurezza nazionale. Già minacciata da un futuro incerto che fa i conti con l’euro, il timore di abbandonarlo e la sfiducia nell’Unione europea.

Un popolo frustrato dal malfunzionamento dei principali servizi pubblici - sanitari, dell’istruzione e dei trasporti - deludenti ma incapace di reagire diversamente: la propensione al privato, infatti, continua a riguardare una parte del tutto minoritaria e fa segnare l’ennesimo arretramento.

E’ un atteggiamento di prudenza critica, quello degli italiani, radicato nella società dello Stivale, disincantato e polemico. Con una sete di riforme ma chiedendo di non “politicizzarle”. O meglio, di non piegarle a fini politici contingenti. Roba nostrana.

di Tania Careddu

Nell’attuale italiana dove, dettata dalle difficoltà di disponibilità di accoglienza, l’emergenza la fa da padrona, l’attenzione e la sensibilità rispetto alle condizioni di salute dei migranti forzati, pur godendo degli stessi diritti degli immigrati regolarmente presenti, passa in secondo piano.

Alle difficoltà di ordine generale si sommano delle grosse criticità in termini di armonizzazione delle prassi territoriali - in mano agli enti provinciali e comunali - nel fornire assistenza sanitaria, per garantire la quale deve essere assicurata la presenza di operatori sanitari e di sostegno socio-psicologico presso le strutture di accoglienza.

Ma dai centri di primo approdo fino a quelli governativi per richiedenti asilo, se ne sente la mancanza con annessi e connessi del caso: assenti, spesso, i servizi di etno-psichiatria; le tessere sanitarie, più di qualche volta, non vengono fornite e l’erogazione delle medicine prescritte, non sempre viene assolta e, allorquando, i costi sono a carico del paziente.

Che, fra le problematicità più comuni, soffre di autolesionismo per dar voce alle sue incertezze e attirare l’attenzione; sebbene in assenza di prescrizioni da parte di medici specializzati, spesso assenti nei centri, utilizza in modo massiccio psicofarmaci; subisce la carenza del rapporto medico-paziente tanto da percepire il personale sanitario come agenti di custodia di cui è opportuno diffidare.

Si rileva certamente, secondo quanto si legge nel documento “Diritti e condizioni di salute dei migranti forzati”, redatto dall’ISMU, una mappa disomogenea, a livello nazionale, in termini di presa in carico del migrante forzato. Con un elemento, però, che relativamente alla difficoltà nell’accesso alle cure, li accomuna tutti, da Nord a Sud dello Stivale: la barriera linguistica, senza considerare che tanti di loro sono addirittura analfabeti.

Per gli operatori dei centri, le difficoltà di identificare e prendere in carico le problematiche psico-patologiche dei migranti forzati dipendono da tre ordini di fattori. Il primo è legato alla possibile non conoscenza della psicoterapia e dei suoi effetti benefici da parte del migrante; il secondo riguarda i tabù culturali rispetto alla condivisioni di eventi personali e il terzo è riconducibile alla normalizzazione degli eventi violenti (subìti).

E sebbene, in un contesto di ostica governabilità del sistema di arrivi, distribuzione e integrazione dei migranti in questione nel territorio italiano non consenta di venire in possesso di un patrimonio informativo dettagliato, le singole storie dei migranti sono sufficientemente rappresentative e permettono di generalizzare sui loro comportamenti e condizioni di salute.

Sulle quali si può agevolmente sostenere che non costituiscono rischio per la salute pubblica (se non in forma del tutto marginale) e che sono caratterizzate, per lo più, da malattie cardiovascolari, infezioni respiratorie, disidratazione, ipertermia e fratture. Certamente più sanabili di quelle (mentali) che originano dalla (sana) popolazione autoctona.


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