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di Tania Careddu
Ventinove milioni e mezzo di tonnellate: a tanto ammonta la produzione di rifiuti urbani in Italia nel 2015, con una generazione procapite pari a quattrocento e ottantasette chilogrammi. La mole sembrerebbe consistente ma, secondo quanto si legge nel rapporto "Rifiuti urbani 2016" dell’Ispra, in undici regioni della Penisola, soprattutto in Umbria, Liguria, Vento e Lazio, fra il 2014 e l’anno seguente, si osserva una riduzione (per le variabili socio-economiche). In Emilia Romagna, Toscana, Valle d’Aosta, invece, quella pro capite è superiore alla media nazionale a differenza della Basilicata, del Molise e della Calabria, in cui si registrano i valori minimi.
Rifiuti smaltiti per il 47,5 per cento dalla raccolta differenziata che riduce, come è noto, le quantità destinate alle discariche, sistemi che, oltre a essere pericolosi fonti di inquinamento per la salute dei territori e dei suoi abitanti, alimenta affari illeciti e impedisce lo sviluppo di un circolo virtuoso.
Il Veneto e il Trentino Alto Adige, le regioni più civili con una raccolta differenziata al di sopra del 65 per cento, asticella fissata dalla normativa per il 2012 mentre la peggiore è la Sicilia, sotto il 13 per cento. Ma, fortunatamente, l’Italia comincia a essere sempre più (lentamente) orientata al riciclaggio, che nel suo insieme copre il 44 per cento, con il sistema di discariche che ha ridotto la sua utilità di cinque punti percentuali, interessando ormai, sebbene ancora nel 2015 siano state smaltite un milione e rotti di tonnellate senza un preventivo e idoneo controllo, solo il 26 per cento dei rifiuti urbani prodotti, con il 19 per cento di questi che, ancora purtroppo, finiscono in cenere.
E (sempre fortunatamente) si fa sempre più strada il recupero biologico della materia scartata: l’evoluzione delle tecnologie di trattamento consente di riusare, dal compostaggio, energie rinnovabili sotto forma di biogas e di stabilizzare le biomasse prima del loro utilizzo agronomico.
Per quanto riguarda, poi, l’import/export dei rifiuti, sono circa duecentomila tonnellate quelli importati nel 2015.Principalmente dalla Svizzera, con oltre settantaquattromila tonnellate, corrispondente al 36,3% del totale importato; seguono la Francia con il 17,6% e la Germania con il 15,6%.Circa la metà dei rifiuti provenienti dalla Svizzera, costituiti prevalentemente da rifiuti di imballaggio in vetro, sono destinati ad impianti di recupero e lavorazione del vetro situati, perlopiù, in Lombardia. Che è la regione che importa la maggiore quantità di rifiuti, oltre ottantasette mila tonnellate, il 42,6% del totale importato, seguita dalla Campania con circa quarantacinquemila tonnellate e dal Veneto con ventinovemila tonnellate.
Chissà se riuscirà, il Belpaese, a centrare l’obiettivo ‘discarica zero’ proposto dalla Commissione europea. All’Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione Ambientale sono fiduciosi tanto da pensare che il suddetto obiettivo potrebbe, addirittura, essere raggiunto prima della sua scadenza. Nel 2020.
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di Tania Careddu
Quelli ad alta velocità aumentano (del 276 per cento rispetto al 2007) ma quelli che si muovono sui binari della rete ordinaria, gli intercity e i treni regionali si sono ridotti, in seguito ai tagli, pari al 26,2 per cento, dal 2010 a oggi, sui trasferimenti da parte dello Stato al servizio ferroviario in questione. Al di fuori dell’alta velocità - sono state introdotte altre quattro corse sulla Roma-Milano - il parco treni circolante, soprattutto nel tacco dello Stivale, è troppo scarso, vecchio e lento rispetto alle necessità.
Per capienza, per età, per la carenza di orari adatti all’utenza pendolare, per la (scarsa) frequenza dei convogli e per le condizioni delle stazioni. Per di più, in sedici regioni sono aumentate le tariffe e diminuiti i collegamenti in quindici di queste.
Quelle con i treni più vetusti sono l’Abruzzo, dove i più vecchi hanno più di quindici anni, la Basilicata e la Sicilia, forse la peggiore, in cui la linea ferroviaria presenta quattrocentoventinove corse contro le duemila e trecento della Lombardia. E, come non bastasse, negli ultimi quindici anni si sono ridotte del 41 per cento, con treni che viaggiano sempre più lentamente, tanto che gli attuali tempi di percorrenza sono addirittura superiori a quelli di venti anni fa.
La tratta più inadeguata del 2016, la Roma-Ostia Lido che, spostando circa centomila tra studenti e lavoratori (e con un bacino d’utenza tale che si potrebbero raddoppiare i pendolari se il servizio fosse di qualità) è sempre soggetta a guasti tecnici tra corse che saltano e ritardi periodici, priva di personale ferroviario, informazioni e biglietterie. Per non parlare, poi, della linea metropolitana della Capitale, soprattutto la B, utilizzata da oltre trecentoquarantacinque mila passeggeri che soffre di problemi tecnici, proponendo tempi d’attesa medi di quindici minuti.
E, cambiando la tratta, che si chiami Circumvesuviana, Reggio Calabria-Taranto, Genova-Acqui Terme, Treviso-Portogruaro, Bari-Martina Franca-Taranto, Pescara-Roma, pur con le dovute differenze il disagio non muta. Soppressioni delle corse che arrivano a quasi il 50 per cento dei treni giornalieri, servizio interrotto per l’esigenza di effettuare svariati interventi di manutenzione, rallentamenti vari ed eventuali.
Per non dire dei livelli di comfort dei pendolari: desolanti vista l’assenza di climatizzatori nella stragrande maggioranza delle carrozze, dei guasti frequenti a finestrini, porte e servizi igienici.Manca, secondo quanto denuncia il rapporto Le dieci linee pendolari peggiori, redatto da Legambiente, una strategia di potenziamento complessivo, al di fuori dell'alta velocità, che permetta di migliorare l’offerta a partire dalle grandi città e dalle situazioni più difficili sulle linee secondarie, in particolare del Sud.
Perché se è innegabile che in alcune Regioni, attraverso i contratti con Trenitalia, stia avvenendo un miglioramento del parco treni circolante con mezzi nuovi, il problema è che sono troppo pochi quelli in circolazione e talmente datati e fiacchi da essere la causa dello scarso utilizzo del trasporto ferroviario.
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di Tania Careddu
Raddoppiata in meno di dieci anni, la povertà si è allargata a macchia d’olio, tanto che oggi otto milioni e trecentomila persone residenti in Italia fanno i conti con questa condizione e quattro milioni e seicentomila con un tenore di vita tale da non potersi permettere le spese essenziali.
E, dopo otto anni di crisi economica, non è solo uno stato di pochi sfortunati. Perché il dato più reale in Italia dice che, sempre più spesso, il lavoro non basta a mettere al riparo da ristrettezze e indigenza. Cosicché non è sufficiente essere disoccupati per essere poveri: attualmente, una famiglia operaia (che conta su un solo stipendio) su dieci non può aspirare a un livello di vita minimamente accettabile e anche la bassa intensità di lavoro traducibile nella crescita di contratti da poche ore a settimana ha fatto aumentare il numero di lavoratori poveri.
Ciò accanto a particolarità tutte nostrane, quali il più alto tasso di giovani che non studiano e non lavorano e la più bassa percentuale di donne che continuano a lavorare dopo la maternità.
Un connubio, quello fra crisi economica e carenza occupazionale, che ha ridotto al lastrico le famiglie (sei su cento vivono un disagio economico che impedisce la soddisfazioni di bisogni di sussistenza) giovani, quelle numerose (una su cinque vive in condizioni di povertà assoluta) e quelle con bambini (sotto i sei anni, sono raddoppiati coloro che sono in una condizione di grave deprivazione materiale).
L’aumento della povertà non è cosa dei giorni nostri: resiste al tempo e si conferma una tendenza assodata da circa un trentennio. Nel 2008, l’Ocse dichiarava che “l’impatto di più ampie disparità di reddito salariale sulla disuguaglianza del reddito è stato attenuato da un più alto tasso di occupazione”, la crescita occupazionale ne attutiva le conseguenze sul corpo sociale.
Ma oggi, la distruzione dei posti di lavoro ha eliminato anche quell’ultimo freno all’espansione della povertà, che si è diffusa con maggiore facilità tra chi era collocato in posizione già fragile sul mercato del lavoro, giovani in primis. Quelli con figli in particolare, stritolati tra le spire di un circolo vizioso in cui povertà materiale e difficoltà di accesso all’istruzione si alimentano vicendevolmente.Tutta italiana poi - almeno entro i confini europei - la povertà femminile: è più che raddoppiato, in un decennio - secondo quanto si legge sul minidossier “Poveri noi”, redatto da Openpolis, in collaborazione con ActionAid - il numero di donne in povertà assoluta, pesando su di loro l’annosa problematica di conciliare lavoro e famiglia, la carenza di politiche per la promozione dell’impiego femminile, la differenza salariale tra i sessi, le barriere culturali che le relegano (esclusivamente) al lavoro di cura e la scarsa applicazione del diritto alla maternità.
Per intenderci, in Danimarca lavora l’81,5 per cento delle donne con tre figli, in Italia il 41,9 per cento di quelle con un figlio. I conti (non) tornano.
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di Tania Careddu
L’inganno è rappresentato dalla prospettiva di condizioni di lavoro o di esercizio di attività del tutto diverse da quelle in cui si troveranno poi, realmente, a essere coinvolte, le vittime di tratta (migranti) e quasi sempre si accompagna alla privazione dei loro documenti identificativi. Oltre ai più noti casi di sfruttamento, ai quali si aggiunge quello multiplo - donne costrette a prostituirsi e a spacciare o uomini obbligati a vendere merce al dettaglio e a elemosinare - appaiono, negli ultimi anni, nuove forme di tratta finalizzate all’accattonaggio forzato e alle economie criminali.
Adulti e bambini costretti a spacciare sostanze stupefacenti, borseggiare, rubare nelle case, vendere prodotti, per lo più contraffatti, per strada, verosimilmente a favorire, a loro volta, attività di immigrazione clandestina nonché permettere l’ottenimento di benefici economici collegati alle politiche di welfare. Talvolta con una sorta di continnuum tra le varie attività criminali forzate svolte, il fenomeno è multiforme e dai confini non facilmente distinguibili.
Sono cambiate anche le modalità (mimetiche) con cui viene gestito l’asservimento delle vittime: oltre all’ambiguità che, sempre più spesso, avvolge l’operato dei soggetti che, muovendosi al confine tra solidarietà e profitto personale, offrono accoglienza al momento dell’arrivo, per la complessità degli scenari (dell’immigrazione) e degli ambiti di sfruttamento, l’approccio è sempre più persuasivo e sempre meno esplicitamente violento.
A gestire la tratta e lo sfruttamento ad altre attività illecite sono, sempre più di frequente, gruppi criminali fortemente radicati nei paesi di destinazione dei migranti, con molti collegamenti transnazionali e spiccate capacità di abbinare la tratta ad altre faccende illecite e anche lecite, vedi il riciclaggio di denaro sporco attraverso attività commerciali regolari.
E le vittime, sempre e da sempre, costituiscono il punto debole del circuito criminale. Generalmente giovani stranieri non organici alle organizzazioni criminali, sono a maggior rischio di sfruttamento perché alcuni fattori - vedi il caso di giovani portatori di handicap provenienti dalla Bulgaria o dalla Romania oppure di giovani nigeriani che hanno contratto un debito (per arrivare in Italia) con trafficanti italiani - inficiano con la loro capacità di autodeterminazione.L’indigenza, le difficili situazioni familiari, le scarse competenze linguistiche, la bassa scolarizzazione, la mancanza di esperienza professionale, l’attitudine alla vita in strada, oltre alle enormi difficoltà di ingresso legale nel Belpaese, sono tutti elementi che innalzano il rischio di finire in situazioni di coinvolgimento in attività illegali. Senza averne la minima percezione e nemmeno dello sfruttamento subìto. Che diventa esponenziale perché fa affidamento sull’incapacità e l’impossibilità di reagire.
Secondo il rapporto Minori sfruttati e vittime di tratta tra vulnerabilità e illegalità, redatto in conclusione di un progetto europeo, il 54 per cento delle vittime è stato reclutato con false promesse, il 41 per cento ha ricevuto un’offerta di lavoro, il 3 per cento è stato venduto - la cifra pattuita viene stabilita sulla base di canoni quali la bellezza o la capacità di commettere furti - e l’1 per cento è stato rapito.
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di Tania Careddu
Nel mondo, settecentoquarantotto milioni di esseri umani, uno su otto, non hanno accesso all’acqua potabile e due miliardi e mezzo, un terzo della popolazione globale, vivono senza servizi igienico-sanitari di base. Con la seguente drammatica conseguenza: circa metà delle malattie che colpiscono la popolazione dei paesi più vulnerabili è dovuta proprio all’inadeguato accesso all’acqua.
Due le cause: il ripetersi sempre più frequente di catastrofi naturali e l’aumento esponenziale di conflitti. Sempre più legati all’impatto dei cambiamenti climatici, i disastri naturali, triplicati in trent’anni, per gli effetti a opera dell’uomo (meno vulnerabile) del riscaldamento globale, hanno generato inondazioni ma siccità in molte regioni povere del pianeta
E in quelle già fragili e politicamente instabili, l’escalation di conflitti coinvolge un terzo della popolazione più indigente, vittima di attacchi terroristici, della distruzione di infrastrutture di vitale importanza - principalmente idriche come pozzi sia a uso pubblico sia famigliare - e, perciò, priva di ogni accesso ai servizi di base.
Oltre alle crisi climatiche, però, sono soprattutto le guerre a determinare la sete. Secondo quanto si legge nel briefing #Savinglives: emergenza acqua, redatto da Oxfam, è il bacino del lago Ciad, dove oltre sei milioni di persone sono senza acqua né cibo a subire gli effetti più devastanti. In Iraq dieci milioni di individui, metà dei quali bambini, hanno un disperato bisogno di aiuti umanitari per ottenere la fornitura di acqua potabile e servizi igienici.
La Siria, paese al collasso con settemila esseri umani in fuga ogni giorno ha Aleppo priva di acqua e fortemente carente di strutture sanitarie. in Yemen vivono ventuno milioni di persone, di cui quattordici milioni in cerca di acqua, colpite da una guerra che, facendo cadere sotto i bombardamenti sauditi numerose infrastrutture idriche e fognarie, ha favorito l’impennata dei prezzi del carburante necessario ad alimentare i generatori che pompano acqua nei villaggi e per le coltivazioni.
In Sudan, più di quattro milioni e mezzo di uomini e donne sono afflitti dalla siccità a causa della riduzione delle piogge provocata dal ciclone El Nino che ha colpito duramente i raccolti e la disponibilità di fonti idriche sicure, e la popolazione ha accesso a soli tre litri di acqua al giorno pro capite, meno di un terzo della quantità minima raccomandata dagli standard internazionali. Ad Haiti, oltre ottocentomila persone sono rimaste senza acqua, in seguito alla violenza dell’uragano Matthew e in Sud Sudan, più di cinque milioni soffrono la scarsità di acqua in seguito alla crisi etnica e politica che ha ferito il paese nel 2013.La scarsità d’acqua origina un circolo vizioso: una drastica riduzione di raccolti genera, per mancanza di foraggio, il deperimento e la morte del bestiame, fondamentale per il sostentamento di tutte queste comunità e inoltre le carcasse degli animali finiscono a inquinare le pochi fonti di acqua rimaste. Senza contare i rischi per la salute: si moltiplicano i casi di colera - solo a Haiti se ne sospettano duemila casi - e altre malattie infettive come il dengue. Principali vittime sono i bambini, tanto che ormai, ogni anno, ne muoiono ottocento mila.
Di questo passo, se non verranno messe a punto azioni volte a garantire la fornitura dell’acqua in un contesto globale efficace di regolamentazione politica, economica e giuridica, il suo possesso provocherà conflitti territoriali. E mondiali.