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di Tania Careddu
Quando esordisce fin dai primissimi giorni di vita, il maltrattamento condiziona, in modo irreversibile, se non adeguatamente trattato, le modalità, le strutture e le conseguenti funzioni di un individuo in via di sviluppo. Essendo l’essere umano un prodotto dinamico di quello che gli accade intorno e di quanto è scritto nel suo DNA, il maltrattamento diviene condizione patologica in grado di alterare la maturazione e la morfologia cerebrale, per l’interazione tra progetto genetico e ambiente.
Tanto che se gli input ambientali non sono inseriti in un contesto relazionale caldo e amorevole non si può realizzare il primo in maniera sana, rappresentando il rapporto umano ciò che attua quello che i geni programmano. Non solo rallentando alcuni fenomeni tipici del neurosviluppo ma anche definendo una nuova morfologia di connessione delle diverse aree cerebrali, con conseguenze, nel medio e lungo termine, molto gravi.
Esse comprendono patologie neurologiche degenerative e psichiatriche, ritardi nello sviluppo e disturbi nella sfera della dipendenza da sostanze, oltre che un’incidenza maggiore di diabete, malattie cardiovascolari e gastroenterologiche. Per non parlare di casi di morte anticipata, collegata indirettamente agli esiti psicoemozionali e comportamentali del maltrattamento e che si esplicano in un aumento di condotte fortemente a rischio, suicidarie e autodistruttive.
Dal maltrattamento fisico all’abuso psicoemozionale, dalla trascuratezza e trattamento negligente all’abuso chimico, dalla sindrome del bambino scosso al trauma cranico abusivo, dalla sindrome di Munchausen agli abusi sessuali, sono le multiformi facce della violenza di cui sono vittime i bambini nel contesto famigliare. Sottoposti a ciò, sovente, come reazione al loro pianto inconsolabile, per calmarli o risvegliarli ma, sempre, frutto della (negata o non manifesta, prima di allora) malattia mentale di chi se ne occupa.
Oltre tremila i casi di bambini, negli ultimi cinque anni, secondo i dati della Rete nazionale di eccellenze ospedaliere per il contrasto della violenza sui bambini, riportati nel dossier "Maltrattamento e abuso sui bambini: una questione di salute pubblica", redatto da Terre des hommes, di età media di sette anni, anche se il maltrattamento è stato rilevato in tutte le fasce d’età, e con una prevalenza di bambine, e spesso, è contemporaneamente presente in forme diverse, quello multiplo, infatti, raggiunge il 30 per cento delle vittime.Come, da tempo, la definisce l’Organizzazione mondiale della sanità, la violenza sui minori è, pure un problema di salute pubblica. Prova ne sia che , in Italia, l’1 per cento del prodotto interno lordo, ogni anno, è destinato a far fronte alla spesa derivante dalla violenza all’infanzia, con un impatto sull’economia e sul benessere di uno Stato, soprattutto riferibile alla mancata prevenzione della violenza e alle sue conseguenze mediche e sociali. E’ così che la prevenzione della violenza si traduce anche nella cura della malattia mentale degli adulti.
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di Tania Careddu
Dal momento che nei bilanci pubblici entrate e uscite non possono considerarsi totalmente neutrali in termini di genere, dagli anni ottanta è stato pensato il bilancio di genere. Senza avere la finalità di giungere alla realizzazione di bilanci separati (per sesso) ma fondandosi sull’idea di rendere più equa (e trasparente) la ripartizione delle spese, il bilancio di genere promuove, o almeno dovrebbe, la realizzazione del principio di parità e uguaglianza.
Prendendo spunto da esperienze internazionali ed europee, nel 2001, in Emilia Romagna è stato messo a punto il primo; nel 2003, le province di Modena, Siena e Genova hanno siglato un protocollo d’intesa per la sua promozione e lo scambio di buone pratiche in materia di pari opportunità; a fine 2006, anche le province di Ferrara, Alessandria, Ancona, Firenze, La Spezia, Milano, Parma, Pesaro-Urbino e Torino lo hanno adottato.
Strumento di messa in atto del meccanismo di “ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni”, il bilancio di genere richiama, in forma esplicita, il perseguimento delle pari opportunità, integrando la prospettiva di genere in tutti i passi delle procedure di bilancio e mirando a modificare entrate e uscite per eliminare le disparità presenti. E’ volto, cioè, alla valutazione del diverso impatto della politica di bilancio sui due generi, in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito.
La classificazione delle spese e delle entrate in un’ottica di genere costituisce un’impresa ardua ma permette, a conti fatti, una valutazione qualitativa e quantitativa dei servizi e della loro capacità di rispondere ai bisogni dell’intera popolazione.
Ma, in virtù della sua complessità, nella prassi italiana, emerge, purtroppo, un quadro frammentario e discontinuo in cui il bilancio di genere consiste in poco più di un’analisi di contesto. Forme sporadiche di coordinamento tra i diversi enti impegnati nelle analisi di genere e singoli esercizi non sono confluiti in un progetto più ampio che coinvolgesse l’amministrazione tutta.
Affinché non si continui a tradurre il bilancio di genere in un mero esercizio contabile, la quantificazione dell’impatto degli interventi pubblici sul divario di genere assume maggiore efficacia se effettuata nel contesto di una valutazione complessiva e sistematica delle politiche pubbliche.
Anche perché, attualmente, l’analisi di genere viene esercitata, più che altro, sui dati di consuntivo dei bilanci, con finalità, dunque, prettamente informativa, piuttosto che nella fase di preparazione del bilancio, ossia in sede di decisione dell’allocazione delle risorse.Trascurandone la sua essenza, se non si considera che il bilancio di genere rappresenta l’ambito nel quale si delinea il modello di sviluppo socio-economico, si stabiliscono i criteri di ridistribuzione del reddito e si indicano le priorità politiche. Elementi che, sottovalutati nelle decisioni di bilancio, tendono a perpetuare (se non ad approfondire) le differenze di genere che permeano la società.
Ma fin quando non si accantona l’immagine che il benessere vada valutato sulla quantità goduta di un bene o sull’utilità derivante dal suo impiego e non sui funzionamenti, il bilancio di genere rimane un lusso che non ci si può ancora permettere.
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di Tania Careddu
Quattrocentosettantotto miliardi di euro di spesa pubblica annua per il sistema di protezione sociale vanno tutelati. Ad una impostazione di teoria economica che non prevede investimenti pubblici, con la scusa di una situazione economica (critica) che ha modificato lo scenario, si sommano inefficienze, sprechi, comportamenti opportunistici, fino alla corruzione e al malaffare, lo stato sociale smarrisce del tutto il senso e il consenso che merita.
Prevale l’opinione che la crisi del welfare sia dovuta anche a una generosità cieca, riferibile al passato, del sistema: troppi sprechi, nella sanità, per esempio, con tanti accertamenti inutili, analisi di laboratorio, consumo di farmaci; nell’assistenza sociale con pensioni di invalidità troppo facilmente concesse; nell’istruzione con troppo personale nella scuola o presunto spreco di materiale didattico.
Ma per la maggior parte degli italiani, pari al all’86,8 per cento, il dissenso più intollerabile nasce dal sospetto della presenza di frodi, con soggetti che beneficiano di prestazioni a cui non avrebbero diritto, oltre che con il passaggio di ingenti flussi economici di risorse con quote di sommerso (in soldoni, pagamenti in nero di visite mediche specialistiche, di ripetizioni scolastiche o dello stipendio delle badanti). E con il lapalissiano effetto di non riuscire più a contenere le disuguaglianze sociali, in un contesto già caratterizzato da un restringimento di risorse pubbliche imposto da un taglio delle spese.
L’opacità della destinazione delle risorse, da una parte, fa pensare a un meccanismo di sottrazione delle stesse direttamente ai cittadini; dall’altra, favorisce comportamenti opportunistici e uso inappropriato dei soldi pubblici. Oltre a consentire un uso strumentale e demagogico della (mancata) trasparenza quale grimaldello per attaccare il welfare tout court.
E, invece, “il welfare italiano è stato da sempre piattaforma di sicurezza per le famiglie, garantendo le spalle coperte. Questo, il suo significato più importante e questa la sua principale funzione. Se le famiglie come soggetto di welfare garantiscono risposte mirate e quotidiane ai bisogni sociali, è importante metterle nelle condizioni di capire chi, dove, in che modo e con quali risorse possano sostenerle.
La trasparenza nell’uso delle risorse non è una clava contro il welfare ma uno strumento per renderlo migliore”, ha detto il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, presentando il rapporto “La forza della trasparenza nel sistema di welfare”.
“Trasparenza significa chiarezza nei costi, nei ruoli e, soprattutto, nelle aspettative” ha incalzato il presidente del Forum Ania Consumatori, Pier Ugo Andreini, destinatario della ricerca. Il quale ha concluso: “Il welfare è un patto sociale tra cittadini finalizzato a proteggere il proprio benessere e a tutelare il futuro proprio e, spesso anche, dei figli. Come tutti i patti, il principio di trasparenza nelle informazioni e di eticità nei comportamenti è fondamentale per il suo buon funzionamento”.
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di Tania Careddu
Parole d’ordine: controllo e condivisione delle responsabilità. Ma, a poco più di un anno dall’attuazione dell’approccio hotspot, rimangono solo l’ordine e il controllo. Della condivisione dei migranti e dei rifugiati politici, soltanto parole. Si, perché, pensato con l’obiettivo di distribuire i richiedenti asilo nei vari stati dell’Unione Europea, per poter valutare, solo successivamente, le loro domande d’asilo, l’approccio hotspot si è rivelato solo un rattoppo. Di più. Ha messo in luce l’incapacità dei leader europei, che lo hanno ideato, di pianificare e concordare la necessaria riforma del sistema d’asilo dell’Ue.
Se quei leader hanno, dunque, una responsabilità politica, le autorità italiane rispondono di quella diretta, intervenendo in maniera repressiva per prevenire spostamenti verso altri Paesi europei e aumentando, di conseguenza, il numero dei rimpatri. Spingendosi, per ottenere il maggior numero di identificazioni previste (e tanto auspicate dall’Unione europea), oltre i limiti ammissibili dal diritto internazionale dei diritti umani.
L’attuazione di misure coercitive, sotto la pressione delle istituzioni europee hanno sollecitato l’Italia ad “accelerare gli sforzi, anche sul piano legislativo, per fornire un quadro giuridico più solido” in tal senso, al fine di costringere le persone che non vogliono fornire le impronte digitali è diventata la regola, attraverso la detenzione prolungata e l’uso della forza fisica.
E, però, trascurando che, secondo la legislazione italiana, le autorità di polizia sono autorizzate a prelevare con la forza “capelli o saliva” di persone soggette a indagine penale ma - sempre - tutelando “il rispetto della dignità personale del soggetto” e a seguito dell’autorizzazione del pubblico ministero. E che nessuna normativa fa riferimento al rilevamento forzato delle impronte digitali, se non una circolare del ministero dell’Interno che, secondo quanto si legge nel report "Hotspot Italia", redatto da Amnesty International, consentirebbe un uso proporzionato della forza (rivelatosi, il più delle volte, inutile di fronte alla non opposizione della maggior parte dei migranti).
E se un utilizzo limitato della forza potrebbe essere giustificato per controllare soggetti che agiscono aggressivamente contro le autorità di polizia, viola certamente il divieto internazionale di tortura e altri trattamenti disumani l’inflizione volontaria di sofferenza fisica, dolore, anche psicologico, per costringere le persone a obbedire all’ordine di un’autorità. Che nei punti di crisi (hotspot) italiani succede.
Screening (con l’obiettivo di separare i richiedenti asilo dai “migranti irregolari”) dello status di tutti gli esseri umani sbarcati nei porti italiani: viziati, anticipati e rapidi, avvenuti immediatamente dopo gli sbarchi e di fronte a soggetti non pienamente in grado di sostenere un dialogo informato (anche sul piano legale). Compromettendone l’esercizio del diritto di chiedere asilo: è, infatti, obbligo di legge e parte dei doveri dell’Italia sul piano internazionale fornire informazioni a chiunque possa voler fare richiesta di protezione internazionale.Per agevolare il rilevamento delle impronte digitali e l’identificazione dei nuovi arrivati, spesso, sono sottoposti alla detenzione (arbitraria), nonostante l’assenza di una base legale, un ordine formale di trattenimento, la convalida di un giudice e la possibilità di contestarne la legittimità. E con la minaccia di non essere rilasciati fino ad avvenuta collaborazione.
Subiscono, inoltre, provvedimenti di espulsione immotivati che, sovente, al giudizio delle istituzioni europee risultano addirittura insufficienti. E pensare che il principio di non refoulement costituisce la pietra miliare del diritto dei rifugiati.
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di Tania Careddu
Non lavorano, non studiano, non fanno formazione e sono, anche, vittime, di una condizione di svantaggio sociale. Oltre a essere NEET, quindi, provengono, pure, da contesti famigliari di disagio sociale e povertà economica. Sui tre milioni e quattrocentoventi mila giovani fuori dal circuito formativo e lavorativo, mille e settecentoquarantanove (stimati, solo durante un trimestre campione, dalla ricerca “Nel paese dei NEET”, effettuata dalla Caritas) provengono da nuclei famigliari particolarmente vulnerabili.
Principalmente stranieri, maschi, single, che vivono con i propri genitori o soli, hanno un livello scolastico molto basso: quasi la metà ha la licenza media inferiore e quasi il 9 per cento è addirittura analfabeta, soprattutto fra gli italiani, il 60 per cento dei quali ha gravi problemi legati alla sfera occupazionale e di povertà materiale.
Per quelli di origine straniera, invece, la condizione di criticità, è legata sia a confusione e insicurezza, personale e familiare, ma anche a fattori relativi al vissuto migratorio: la conclusione affrettata degli studi e il conseguente precoce inserimento nel mondo del lavoro, infatti, spesso sono imposti da motivi economici e quasi mai da un atteggiamento pregiudizialmente negativo dei genitori riguardo al valore della scuola.
Privi di ambizioni professionali e di chiare progettualità lavorative, i giovani NEET in condizioni di povertà, hanno alle spalle percorsi formativi frammentati e incompleti, complice una “debole genitorialità”: al momento delle grandi scelte formative, infatti, a fronte del grande disorientamento tipico dell’età adolescenziale, i genitori non sono stati in grado di guidare i propri figli nella giusta direzione, trasmettendo, anche, un’immagine negativa del valore dello studio, a favore di un inserimento prematuro nel mondo lavorativo. Dal canto suo, l’istituzione scolastica ha fatto la parte della grande assente, fallendo nell’interazione con il sistema famiglia.
E loro, i giovani NEET, da soli, fanno fatica a mantenere un rapporto con la realtà: derealizzandone la visione, rinviano ogni forma di responsabilità a un mittente astratto. Completamente rassegnati, logorati dall’immobilità, vivono fra un vuoto privo di immagini e un immaginario stereotipato, costruito attorno a famiglia, figli e posto fisso.Un’inattività che sembrerebbe determinata dall’insuccesso della carriera scolastica e dalla frammentarietà di quella lavorativa, inadeguata a costruire le solide basi di un’esperienza professionale. Portatori di un vissuto, il più delle volte, frutto di un’ereditarietà famigliare che li ha cronicizzati, piuttosto, a vere e proprie carriere di disagio, incastrati in una condizione di marginalizzazione sociale che rischia, non solo, di compromettere il loro inserimento nel mondo adulto ma, pure, il loro benessere.
Condannati a una sorta di “paralisi biografica”, in condizioni di vite improntate sulla scarsità di rapporti, assenza di partecipazione sociale e politica e rischio di devianza. In una situazione di disoccupazione che, alla lunga, genera dipendenza: dalla famiglia d’origine (che non c’è), dall’assistenza e dalla comunità, strutturando una specie di “individualismo negativo”, mitigato solo dal sopravvivere delle reti, seppure indebolite, di solidarietà collettiva, tipiche della prima modernità.