di Mario Braconi

La Costituzione e le leggi italiane in materia di detenzione sono illuminanti: basta scorrere l’Art. 27 della Carta: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Oppure si può leggere l’Art. 1 della Legge n. 354 del 26 luglio 1975: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. [...] Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari”.

Il caso di Fernando Paniccia, ventisettenne di Frosinone morto il 27 dicembre nel carcere di Sanremo (pare per arresto cardiaco) è emblematica di quanto, al di là delle nobili intenzioni, la legge, nei fattia sia rimasta pura enunciazione di principio. In effetti, la morte in carcere di Paniccia, un metro e novanta di altezza per 186 chilogrammi, epilettico, invalido al 100% e gravemente ritardato (e quindi per definizione incapace di intendere e di volere) é il capolavoro di un sistema infame, feroce, classista.

Nel mondo reale non è vero (come pure pretenderebbe la legge) che il “trattamento” carcerario viene applicato in modo indiscriminato a tutti i condannati. Paniccia, ad esempio, ha iniziato la sua “carriera” di carcerato nel 2003, a seguito di un brillante arresto messo a segno dai militari dell’Arma in flagranza di reato: il ragazzo aveva infatti sottratto tre palloni di cuoio da un centro sportivo dove si era recato, assieme al fratello, a svolgere dei lavori di manutenzione. Niente meno.

Un episodio che, con al sua crudele ironia, ricorda che la giustizia somministrata dallo Stato finisce per essere (non da ora e non solo da noi) un fatto di classe: essa è infatti tanto rigorosa con ritardati, sans-papier, tossicodipendenti, poveri - in una parola, con gli ultimi - quanto permissiva con i potenti, quelli che hanno i mezzi per assicurarsi i servigi di un abile avvocato, quando non arrivano addirittura (anomalia tutta italica questa) a scriversi qualche legge su misura per evitare la galera o anche solo per evitare di pagare le tasse.

Sarebbe interessante capire in base a quale abominio burocratico una persona disabile come Paniccia sia stata rinchiusa (e sia rimasta sepolta) in carcere: non solo infatti lo impedirebbero (oltre al buonsenso) la Costituzione e la legge 354/1975, non potendosi considerare in questo caso la reclusione compatibile con “il senso di umanità”, ma anche due articoli dell’Ordinamento Penitenziario (O.P.). Come ricorda infatti Francesco Morelli di "Ristretti Orizzonti" (ONG che si occupa del mondo carcerario), l’art. 47 ter dell’O.P., tra gli altri casi, prevede la carcerazione domiciliare per le persone condannate a pena detentiva residua di meno di quattro anni “in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali”; mentre l’art 11 lascia intendere che possa essere perfino il direttore del carcere a disporre il trasferimento di un detenuto in luogo di cura esterno “nei casi di assoluta urgenza”.

Per quanto possa sembrare incredibile, in Italia vi sono almeno 500 persone nelle stesse condizioni di Paniccia: detenuti a dispetto della loro disabilità. Il numero sarebbe in sé già abbastanza preoccupante, se non fosse necessario registrare una circostanza ancor più grave: la palese indifferenza dello Stato di fronte a questa vergogna. Pare infatti che le statistiche sui disabili in carcere siano ferme al 2008; le schede relative alle rilevazioni del 2009 sono state sì somministrate ai vari istituti di pena per la compilazione, ma poi non se ne è fatto più nulla. Non solo, insomma, chi dovrebbe punire i criminali si comporta da criminale, ma non sente alcun impulso ad emendarsi.

Del resto la situazione delle carceri italiane è ormai fuori controllo, come racconta la fotografia scattata dalla ONG Antigone a fine ottobre, in occasione della pubblicazione del suo Settimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia: 69.000 detenuti a fronte di una capacità di “accoglienza” pari a 45.000 unità.

Il che significa che nelle carceri italiche è stipato un numero di prigioneri pari ad una volta e mezza la capienza massima; poco meno della metà (il 44%) di loro è imputata (!), mentre il 22% è in attesa di giudizio; oltre il 40% è coinvolto in vicende di droga (dato, questo, più eloquente di qualsiasi comizio anti-proibizionista).

C’è anche chi non ce la fa ad uscirne vivo: 55 sono stati i suicidi, cui si devono aggiungere quelli registrati tra le guardie carcerarie (4 da inizio del 2010 secondo i radicali), mentre le morti per cause “da accertare”, ad agosto, erano già più di 100.

Qualcuno ne parla? Mica tanto. All’onore delle cronache sono assurti solo alcuni casi particolarmente clamorosi, le cui vittime erano italiani con una famiglia o degli amici in grado di fare un po’ di rumore sui media, anche se troppo tardi. Una piccola “chicca” riguarda i bambini: sono in 57, al di sotto dei 3 anni, a trovarsi nelle galere nostrane.

Un autentico disastro, che però fa poco notizia in un Paese che le chiacchiere senza costrutto hanno stordito al punto da fargli perdere ogni senso delle priorità politiche, quindi umane. Un po’ come è successo, per un attimo, quando è toccato a Paniccia, ladro di palloni.

 

 

 

di Rosa Ana De Santis

L’abbiamo vista appesa sui grandi cartelli di una campagna pubblicitaria. Era il 2007 e il suo corpo nudo, con i tessuti appiccicati e quasi risucchiati dallo scheletro, arrivava come un pugno. Il gusto per lo shock aveva guidato, come di consueto, gli scatti fotografici di Olivero Toscani, fino al punto di rendere quella guerra all’anoressia insolente e insopportabile. Era intervenuto il giurì della pubblicità a stoppare la campagna, mentre l’allora Ministro della Salute, Livia Turco, aveva patrocinato l’iniziativa. Isabelle é morta a 28 anni il 17 novembre scorso a Tokyo, dopo 15 anni di sofferenza e malattia.

Aveva accettato di posare nuda, mostrando i segni e i vuoti di quel morbo che aveva tolto cibo al suo cervello, ai suoi progetti e alla sua carne, perché sapeva di essere malata, di esser finita in un girone dantesco, di dover sfuggire alla morte. Dal web Isabelle segnalava link di nutrizionisti e psicoterapeuti, aggiornava i lettori sulla sua rieducazione alimentare, sulle evoluzioni della sua faticosa riconquista della vita che l’aveva portata quasi a 32 kg.

Le motivazioni della sua malattia venivano da lontano, dai suoi 13 anni di adolescente, figlia di una donna che non voleva vederla crescere. L’esaltazione della magrezza, la moda, le esibizioni da attrice, poi l’apnea delle tisane, del the, della sola acqua. Bocca senza cibo, organi vuoti come sacchi, ormoni silenziati in una vita asfissiata ogni giorno un po’, sempre di più. Ad ucciderla una polmonite con complicazioni, le conseguenze di un corpo frustato da inedia e stenti.

La malattia quindi si era annidata in Isabelle da un rapporto sbagliato con una madre depressa, ma era cresciuta bene sotto i riflettori mentre lei languiva, ben protetta del glamour che vuole la bellezza femminile delle passerelle striminzita, asciutta e ossuta come solo il corpicino di una bambina prima dello sviluppo può essere. Il mondo della moda aveva elegantemente smarcato l’accusa addebitando ai problemi psichiatrici di Isabelle le ragioni di quel disturbo alimentare. Ma era proprio lei a ricordare che alle modelle vengono chiesti dimagrimenti drastici, che il corpo deve quasi scomparire e lasciare visibilità al solo abito indossato, che i criteri di massa corporea non inferiore a 18 sono solo bugie. Che la moda l’aveva definitivamente inabissata, condannandola.

Impossibile non crederle se una come Kate Moss, simbolo del fashion per eccellenza,  corteggiata e strapagata dagli stilisti più celebri, rivendica il gusto di essere pelle e ossa. Bella per essere cocainomane e maledetta, sexy nelle sue ossa sporgenti, nei seni piallati, nelle cosce divise dall’aria che passa attraverso i suoi 40 kg scarsi. La bellezza di queste dive altissime e mute strapazza il cervello delle nostre adolescenti e insinua il tarlo di un’equazione esasperata tra magrezza estrema e bellezza, tra centrifuga di diet coke con anfetamine e lustrini di una vita di successo. Molte le ragazze scappate all’inferno che i rotocalchi patinati nascondono. Jessica Clark, Crystal Renn tra le più famose e le più attive nelle denuncia del meccanismo spietato che alimenta mondo e mercato della moda.

Tante quelle che ancora vediamo sospese sulle gambe ridotte a stecchini in bilico sui trampoli della nuova collezione. Quando le sfilate, come accadde nel 2006 a Madrid, bandiranno l’esibizione di questi corpi malati, allora la denuncia della bambina Isabelle avrà avuto senso e quella campagna che molti non capirono, ora la capiranno. Così, finalmente compreso e meno indigesto ai maestri del buon gusto, sarà anche quel ritratto di dolore esibito come un urlo in mezzo al traffico, sulle borse dello shopping, addosso a tutti. Isabelle di schiena con gli anelli della colonna vertebrale in evidenza, non conteneva rischi di emulazione. Nemmeno la modella israeliana Hila Elmalich, con i suoi radi capelli spenti, lo aveva. E nemmeno la modella uruguayana Luisell Ramos, dopo anni di sola lattuga e bibite ipocaloriche. Tutte morte sulla passerella.

Il rischio di emulazione e di contagio dell’anoressia, che molti erroneamente videro in quella campagna, sta invece nel continuare a vedere queste donne tempestate di lustrini e di scatti fotografici, andare avanti e indietro come stampelle, mentre la pubblicità le fa rimbalzare da una pagina all’altra, semplicemente perché non esistono. Leggere come fantasmi. Donne senza corpo. Che alla fine diventano senza anima.

La nausea di quelle foto serviva a questo. E Isabelle che conosceva il male silenzioso che l’aveva stretta in un digiuno protratto per anni, sapeva di dover rispondere in modo forte alla violenza silenziosa che tante donne subiscono. Senza consapevolezza e senza ribellione. In nome di una bellezza che se la guardi bene e in profondità diventa vuota e cava come quella faccia, macchiata dalla psoriasi, che ci guardava a stento da due grandi  occhi chiari. L’unica bellezza che l’anoressia non le aveva portato via.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Frank A. non ha mai incontrato le proprie figlie, ma la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo gli ha recentemente riconosciuto alcuni diritti di genitore alla luce della sua identità di padre biologico: un concetto, quest’ultimo, da sempre un po’ trascurato dalle autorità. La sentenza sembra sancire ufficialmente un risvolto quasi inaspettato dell’evoluzione del rapporto fra uomo e donna: perché di fronte ad una figura femminile alla perenne ricerca dell’emancipazione professionale, a quanto pare, si sta sviluppando un uomo sempre più bisognoso di ribadire il proprio ruolo nel processo biologico della nascita.

Frank A. è nigeriano ed era arrivato in Germania nel 2003. Ha avuto una relazione di due anni con una donna sposata che, a quanto risulta dagli atti, ha addirittura pensato di lasciare il marito per lui. Dopo essere rimasta incinta di due gemelle, tuttavia, la futura madre ha interrotto la sua relazione con Frank e l’ha accusato di aver cercato un rapporto solamente per ottenere il permesso di soggiorno. Alla luce dei suoi sospetti, la donna ha negato a Frank ogni benché minimo contatto con le bimbe. Nel frattempo, la Germania ha rifiutato a Frank l’asilo politico, costringendo l’uomo a cercarsi un altro Paese dove vivere. Frank ha scelto di trasferirsi in Spagna, dove sopravvive ancora oggi in una situazione sociale poco chiara e senza aver mai visto le sue figlie.

Frank A. ha cercato il contatto con le figlie da subito per vie legali. Il risultato non è stato dei migliori: per la giustizia tedesca, Frank avrebbe potuto vedere le sue figlie solo se si fosse assunto “responsabilità concrete” nei loro confronti. In parole povere, Frank avrebbe dovuto partecipare al sostegno economico delle figlie. A poco sono serviti l’affetto e l’interesse mostrati per le bambine, il tribunale non ha considerato che l’unico impedimento è stato la volontà della madre: senza giustificazione e senza possibilità di appello, la Germania non ha concesso a Frank Anessun diritto.

Ma, a quanto pare, la vicenda di Frank non era destinata a finire nel dimenticatoio. L’uomo si è rivolto alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che gli ha riconosciuto l’identità di padre biologico. Ora, fulmine a ciel sereno per la donna, Frank può sperare in un contatto con le sue figlie. La madre si è risposata, il nuovo compagno è anche il padre legale delle bimbe, ma la Corte di giustizia ha deciso che ciò non può pregiudicare i rapporti di Frank A. con le proprie figlie, nonostante non le abbia mai incontrate. Secondo la Corte europea, è molto importante che le bimbe abbiano un contatto con il proprio padre, soprattutto per mantenere un contatto con le proprie origini. Bruxelles ha anche imposto alla giustizia teutonica un rimborso di cinquemila euro nei confronti di Frank per aver disatteso un suo diritto.

La polemica non ha tardato a scoppiare, poiché la questione va a toccare un nervo aperto nell’ambito del diritto della famiglia. Da secoli, il ruolo della madre è biologicamente scontato perché, tranne in casi del tutto eccezionali, corrisponde a quello fisico e, di conseguenza, a quello legale. In fin dei conti è la donna a partorire i figli. Ma la figura del padre biologico, invece, che peso ha? È giusto negare a un padre l’accesso ai propri figli se non è momentaneamente in grado di garantire loro una somma mensile e, quindi, di prendersi le proprie responsabilità? È giusto dare più importanza alle responsabilità di un padre rispetto al suo originario ruolo biologico?

Da decenni, ormai, maschio e femmina cercano la parità dei sessi e, in un certo senso, l’equilibrio delle funzioni. La donna si è andata emancipando sempre più da un punto di vista professionale, liberandosi dal ruolo biologico “scontato” di madre. Cent’anni fa l’unica alternativa per le donne erano la casa e i figli, oggigiorno ci si può decidere (più o meno) liberamente per una carriera al di fuori dell’ambiente domestico. Che questo abbia costretto l’uomo a cercarsi un nuovo ruolo, è fuor di dubbio.

E ora, all’alba del ventunesimo secolo, anche gli uomini si trovano impegnati in una loro personale emancipazione. L’obiettivo è quello di riguadagnarsi un ruolo attivo nel processo biologico della nascita, un diritto per certi versi da sempre trascurato. Il riconoscimento ottenuto da Frank a Strasburgo, forse, è il primo passo concreto in questo senso.

 

di Rosa Ana De Santis

La sentenza d’Appello arriva il 1 dicembre alle 17.30 e ribalta quella di primo grado, del 14 luglio 2009. Spaccarotella è colpevole di omicidio volontario. Cade la teoria dell’incidentalità e dell’omicidio colposo. Cade la valorizzazione decisiva nella prima sentenza del proiettile deviato dalla rete metallica. Il tribunale non rende giustizia al dolore di una famiglia e alla prematura scomparsa di Gabriele, ma punisce un omicida in divisa.

E’ stata accolta solo in parte, però, la richiesta del pm, che aveva chiesto 14 anni di reclusione. Spaccarotella pagherà con 9 anni e 4 mesi di reclusione, se la sentenza sarà confermata dalla Cassazione, verso la quale i legali dell’omicida hanno già annunciato presenteranno ricorso. Ma la condanna per omicidio volontario rappresenta un caso importante nella storia di questa Repubblica. Un caso di scuola, come lo definisce il fratello di Gabriele.

Le foto ritraggono Giorgio Sandri fuori dalle porte del Tribunale di Firenze, con gli occhi al cielo, abbracciato agli amici di “Gabbo”. Accanto a lui l’altro figlio, Cristiano, e la mamma Daniela. Affranti, ma sollevati da una sentenza che riporta ordine e verità nei fatti camuffati e raccontati a metà, in un tradizionale stile omertoso che da sempre ha coperto responsabilità e misfatti delle forze dell’ordine in Italia a danno dei cittadini comuni e di quelle persone perbene in divisa, che il loro lavoro lo fanno con serietà e per pochi spiccioli.

Come si diceva, il difensore di Spaccarotella, Federico Bagattini, annuncia già il ricorso in Cassazione, dopo aver letto le motivazioni riportate nella sentenza. Non rimane che sperare che non sopraggiunga l’ennesimo ribaltone giudiziario e che i 9 anni di reclusione rimangano tutti a condannare l’operato di un poliziotto pericoloso che - va ricordato - in piena autostrada, punta un’ arma da fuoco ad altezza uomo e spara. Se non si ha il coraggio di ribadire la condanna su una condotta così fuori controllo e altamente pericolosa, se la mela marcia non paga, per i cittadini italiani non ci sarà scampo.

Manifestazioni, cortei, proteste e chissà quante altre occasioni rimarranno mattatoi senza verità. Il G8 di Genova lo insegna. Cucchi e Giuseppe Vita lo insegnano. Mentre sugli spalti degli stadi i delinquenti continuano ad entrare armati di tutto e a mettere a ferro e fuoco le città. E di questi nessuno si ferisce mai, nessuno muore. Chissà perché.

Il caso di Sandri è ancor più sconvolgente perché assomiglia alla sadica roulette che colpisce un ragazzo in libertà che andava a vedere una partita di calcio. Lo ammazza in macchina, nemmeno in uno scontro, dove dorme, seduto sul sedile posteriore in mezzo ai suoi amici. Hanno provato a farlo passare per tifoso violento, a mettergli i sassi nelle tasche. Come se questo, peraltro, diminuisse la gravità dell’omicidio.

I sassi di Davide e la pistola di Golia. Tentativi, degni di un regime, che tolgono ogni dignità delle Istituzioni. E invece il papà di Gabriele ora torna ad essere “orgoglioso di essere italiano”. E se la magistratura che va tanto di moda sui giornali, porterà fino alla fine questo impegno di rigore e di giustizia lasciando l’imputato colpevole anche se è un poliziotto, potremo restituirle una credibilità che finora ha cercato di conquistarsi concentrandosi molto e solo, con condivisibile fermezza,  sulle vicende del presidente Berlusconi.

Nascerà una fondazione intitolata a Gabriele Sandri. Per ricordare e per raccontare. La testimonianza di una famiglia immersa in un “dolore terribile” e tenace nella battaglia, come la descrivono il deputato Walter Verini e Luca Di Bartolomei, del Comitato Promotore della Fondazione. Una ricerca della verità che diventa ancora più difficile da portare avanti quando si vuole continuare a credere nello Stato e nella giustizia. Forse per Gabriele si riuscirà a fare. Ma l’attenzione della stampa, le parole, i riflettori, non dovranno spegnersi. La denuncia permanente dell’accaduto è l’unica parola di Gabbo che non c’è più.

di Rosa Ana De Santis

Dallo scranno di Montecitorio una Binetti agitata e spazientita interpreta magistralmente l’impreparazione e la tensione tirannica di una politica nana, incapace di lanciarsi con vigore e rispetto nelle questioni bioetiche che attraversano la medicina e il diritto del nostro paese. Il suicidio di Monicelli poteva sembrare un gesto di disperazione e solitudine.soltanto agli occhi di un’integralista prigioniera del catechismo come lei e disinteressata al valore altissimo della spiritualità,

Monicelli nel suo ultimo volo le risponde. Con la sua produzione artistica, con le sue risposte ironiche e pirandelliane ai colleghi, con il temperamento di un uomo antidogmatico che smarcava regole e attese, retoriche e assiomi. Con l’inganno buono dell’artista che entra in scena, bacia sua moglie, fa la sua ultima visita e poi decide come finire la sua vita. Senza avvisi, né testamenti. In perfetta coerenza con una vita che di solitudine si è nutrita ogni giorno.

Non quella che pensa la Binetti, l’Udc, i sacerdoti e tanta sottocultura. Una solitudine raffinata e scelta, non subìta dalla scarsa carità degli altri. La vita solitaria che il genio di un artista ricerca come la sua musa e la sua difesa dalla normalità. Quella di una morte che arriva a passi lenti, sul letto dove magari giaci da mesi sotto farmaci e morfina, senza sentirti e senza sentire. Non poteva essere questa anestesia prolungata e questa perdita di autonomia la morte di un genio artistico libero e provocatore.

Bene che sia stato il Presidente della Repubblica a definire la morte di Monicelli come “un estremo scatto di volontà da rispettare”. Non un abbandono, non un disorientamento, non l’arrendevolezza di una vittima come i cattolici tentano di dimostrare, rendendo ridicolo ogni argomento soprattutto se il protagonista, come in questo caso, è un’autentica icona della libertà di pensiero.

Ma è questo il punto che non riesce ad entrare nel dibattito parlamentare italiano e che ad oggi, con il pietoso ddl sul fine vita, ci obbliga a rimanere inchiodati alle macchine, anche se ridotti a vegetali senza pensiero né sentimento, contro la nostra volontà. L’errore è mettere al centro della riflessione morale se una vita in certe condizioni sia degna di essere vissuta. Nessuno ha il diritto di rispondere a questa domanda per tutti. Perché nessuno possiede una scala di criteri assoluti per codificare il valore di uno stato esistenziale.

La domanda su cui l’arroganza della Binetti dovrebbe tacere è se quella vita sia degna di essere vissuta per quella persona e solo per quella. La cronaca ci ha dimostrato che non appartiene solo alla medicina la risposta ad alcune domande, come - ad esempio - la condizione di Eluana. Non appartiene a un’obbligata lettura paternalistica delle relazioni l’interpretazione della morte di Monicelli.

E’ il rifiuto della libertà di scelta il vero motore dell’esplosione oratoria della Binetti. Perché essa semplicemente smaschera la vera natura del dibattito politico sull’eutanasia, come sull’accanimento terapeutico, come sull’aborto. Che non ha nulla di liberale e democratico e che è tutto plasmato su un’idea della vita e del dolore che è cattolica. Ma del resto la Binetti siede alla Camera con questa missione. Ed è pietosamente evidente.

L’uscita del suo prossimo libro “Il consenso informato” veste di fittizia laicità argomenti che hanno una natura religiosa.  Un’astuzia ingenua, ma insopportabile per chiunque crede che questo non è un paese confessionale e che dovrebbe ispirarsi ad altri modelli europei per capire cosa significhi non esserlo più. La relazione medico-paziente, in questo volumetto di persuasione per l’anima, viene interpretata secondo contenuti e procedure operative che tendono a condizionare emotivamente la persona ammalata, più che ad informarla dando al medico un ruolo di merito e di educazione morale che non gli appartiene.

Certo, non tutti sono Monicelli. Forse l’eutanasia aprirà il fianco ad abusi e violenze. Ma a questo deve riparare il diritto, non la Chiesa. E questo terribile rischio non rende meno terribile che lo Stato decida per noi, che un suicidio si trasformi in una condanna morale più o meno indistinta, nel pretesto per un divieto totalitario.

Chiunque ha visto la più semplice delle persone morire nella malattia sa che una morte dignitosa e con meno sofferenza è più dolce di una tortura prolungata. Se la Binetti questo non può digerirlo perché porta al collo l’Opus Dei e sotto le gonne il cilicio, siamo quasi certi che il dio misericordioso, quello delle scritture, lo capirà di più.

 


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