di Rosa Ana De Santis

Non appena sembra che la Chiesa Cattolica affronti delle aperture culturali significative, la sua condotta pubblica torna ad essere avvizzita nelle formule della più ridicola Controriforma. Questo Papa ci ha abituati a meno spettacolo, a più rigore di forma e dottrina e ad abbandonare letture ingenue e frettolose interpretazioni della sua pastorale. Una figura decisamente più ricca di sfumature e potenzialità di quanto non avesse la più immediata missione anticomunista di Wojtyla.

Eppure, mentre qualche giorno fa la stampa accoglieva la notizia delle norme antiriciclaggio imposte allo Ior, oggi deve ribadire, con una compassione di fondo, la condanna del Papa all’educazione sessuale e civile nelle scuole. Troppo laiche e con troppo Stato, secondo lui. Peccato che non si tratti di scuole private religiose e che il monopolio dello Stato non sia il frutto di un’intromissione carbonara, ma di un diritto costituzionale. E’ piuttosto, vale la pena ricordarlo, l’ora di catechismo a rappresentare un’indebita forzatura nel programma laico delle scuole pubbliche, che solo un Ministro come la Gelmini poteva rendere ancor più grave, consentendo che una materia di questo tipo potesse fare media e sommandoci l’imposizione del crocefisso in classe, con tanto di ricorso a Strasburgo.

Ratzinger accusa la presunta educazione laica di essere falsamente neutra e di ledere la tutela della religione e della comunità cristiana. L’atroce attentato nella chiesa d’Egitto aiuta a rendere lo scenario emotivo al punto giusto. Se la Chiesa perde anime, non è colpa dell’illuminismo di Stato, che mai come nel caso della nostra Repubblica, è pavido ed esangue, quanto forse per l’incapacità della Chiesa di essere vicina alla sensibilità e alla vita delle nuove generazioni. Quelle per le quali il Papa vede pericolosa l’educazione sessuale e civile.

Il rischio sarebbe quello di aiutare i giovani a crescere come persone responsabili, autocentrate e consapevoli della propria esistenza. Non è più allarmante pensare che i nostri adolescenti, come testimoniano i dati della Sigo (la Società italiana di Ginecologia), siano del tutto incapaci di tutelare la propria salute nei rapporti sessuali? L’ignoranza che porta le giovanissime a ricorrere in massa alla pillola del giorno dopo, i rimedi della Coca Cola o le gravidanze scoperte dopo mesi di gestazione, dovrebbero lanciare un allarme sull’urgenza di farla meglio e di più questa educazione, soprattutto in Italia.

Persino più grave il sospetto sull’educazione civile. Qui non è possibile riconoscere nemmeno l’attenuante della viscerale sessuofobia che affligge una Chiesa di uomini costretti, per dogma storico, ad una castrazione fisica. In questo caso c’è un disegno dai contorni molto inquietanti che pone ancora la Chiesa in conflitto con lo Stato. La cosiddetta educazione civile è quella che rende i nostri ragazzi edotti sui diritti e i doveri. Sullo spirito fondante degli Stati liberali moderni e sui peccati originali degli Stati religiosi da cui, almeno l’Occidente, si è affrancato. Eccezion fatta per lo Stato del Vaticano. L’idea sommersa che conoscere il diritto del divorzio o, dove esistono, i diritti delle coppie di fatto - solo per fare alcuni esempi - sia un incentivo o un’istigazione all’abbandono della fede, è tanto falso quanto ingenuo.

Nessuno impedisce alla Chiesa di fare la propria evangelizzazione o di testimoniare la propria visione del mondo. Possiamo certamente dire che la persecuzione dei cristiani non è planetaria e che dove questo grave problema è presente, la questione è più politica che religiosa, più legata al reale esercizio delle libertà individuali che non all’educazione sessuale o a quella civica. Per questa ragione non è onesto l’utilizzo strumentale di alcune tragedie terroristiche per pensare di poter prendere a prestito lo Stato e le sue istituzioni e perorare la causa di un banale catechismo di massa. Una campagna elettorale per le anime. Non si possono criticare le forme di alcuni Stati teocratici musulmani e poi svelare una nostalgia per quel perduto potere temporale. Non è così che torneremo ad essere più cristiani, nella fede o nella sensibilità morale.

L’ammonizione del Santo Padre è un pietoso inno alla regressione. E diventa ancora più difficile da comprendere a poco tempo dall’apertura sul profilattico come misura di emergenza per frenare l’HIV e responsabilizzare le relazioni sessuali. Un errore di traduzione, era stato detto subito, un passo falso, trattato e ritrattato mille volte. Come se non dovesse cambiare mai nulla dietro la porta di San Pietro, né fuori. Nonostante i secoli e la storia, siamo ancora a ragionare di quanto la fede sia nemica della conoscenza e di quanto la Chiesa mal sopporti il potere dello Stato. Come se Galileo Galilei o Cavour fossero passati invano.

Del resto è tutto possibile in un Paese che mette i pochi soldi che ha nelle scuole cattoliche e che usa quelle pubbliche come se fossero parimenti religiose. E’ così che è iniziato un nuovo gioco al rialzo per il Vaticano. Uno slittamento continuo e confuso tra laico e religioso che, mentre forma cittadini peggiori e meno preparati, non riempirà le Chiese di anime. Perché il Santo Padre sa bene che il lavoro di Dio non è mai stato quello di Cesare.

 

di Rosa Ana De Santis

Diciannove anni e incensurato, Carmelo Castro è morto in carcere il 28 marzo 2009. Suicidio, dissero le fonti ufficiali. Si sarebbe appeso al letto a castello della cella, per poi impiccarsi con il lenzuolo. Un ragazzo alto 175 cm dondolante su un letto alto 170. Il corpo scoperto alle 12.35. Il verbale del pronto soccorso che registra invece l’arrivo del cadavere alle 12.30. Sono solo alcune delle incongruenze che hanno spinto le associazioni Antigone e A buon diritto a presentare un esposto alla Procura della Repubblica di Catania per accertare la verità dei fatti.

Molte le lacune e troppa la fretta di chiudere le indagini, lasciando i familiari di Carmelo senza risposte. Sono proprio loro a vedere Carmelo all’uscita della Caserma di Paternò, subito dopo l’arresto, per aver fatto il palo in una rapina in tabaccheria di Biancavilla. E qualcosa già non va. Il suo volto è gonfio, evidenti sono i segni pesanti delle botte. Le labbra ferite, gli occhi gonfi, le orecchie strappate. Anche le foto scattate all’ingresso in carcere non lasciano dubbi. Di questi fatti non c’è traccia nelle indagini e una nuova perizia servirà a verificare cosa ha subito Carmelo nei quattro misteriosi giorni, dall’arresto alla morte.

Ai familiari viene negato ogni diritto di visita nel carcere di Piazza Lanza di Catania perché - viene loro riferito dalla polizia penitenziaria - Carmelo è in isolamento. Come il peggiore dei criminali e senza che ce ne sia traccia sulle carte della pratica giudiziaria che lo riguarda. Quel poco che è scritto su di lui lo descrive come un giovanotto finito in un giro sbagliato. Non avrebbe dato segni di azioni “anticonservative” e si definiva quasi “costretto” a delinquere da una banda di criminali in cui si era infilato.

Ad oggi ci sono state tre interrogazioni parlamentari, cadute nel vuoto. Ma la famiglia di Carmelo non si rassegna, la madre Graziella in prima linea. Le lacune delle indagini (non è stata nemmeno sequestrata la cella), gli abusi (come il diritto di visita negato) e le violenze subite documentate sono gli strumenti principali e fortissimi di questa indagine per la verità, che purtroppo subirà tutta l’omertà e le coperture cui ci hanno abituato queste vicende.

Tutto lascia pensare che la morte di Carmelo non sia stata raccontata tutta. Rimangono troppi dubbi. La famiglia non ritiene possibile che abbia fatto tutto da solo. E poi un suicida morto per asfissia che non ha sangue negli arti inferiori, che prima di uccidersi consuma un pasto abbondante (nemmeno digerito, ponendo più di una domanda sull’orario della morte e quello in cui si distribuisce il vitto) e che, moribond, viene caricato su un auto di servizio, è troppo strano. Il tutto con l’aggravante di botte e violenza che sembrano esser diventata prassi ordinaria al momento dell’arresto.

Roba normale, che non fa notizia e che non trova, nei casi di Carmelo come in quello di Cucchi, nemmeno la motivazione del criminale efferato e resistente. Tutt’altro. Carmelo è anzi un giovane intimorito, che vive nell’angoscia di non potersi liberare da questo circolo di malavitosi che l’ha quasi cooptato con le minacce e l’aggressione fisica. Ha paura di raccontare. E questo è evidentemente diventato un comodo argomento per avallare in fretta il teorema del suicidio. Un po’ troppo comodo e un po’ troppo veloce per poterci convincere che labbra ferite e vestiti sporchi di sangue, l’isolamento patito in carcere, l’impiccagione anomala, siano tutto quello che dobbiamo credere sulla morte di un giovanotto preso per una “ragazzata”, come l’avevano definita alla madre le forze dell’ordine al momento dell’arresto.

Ora si combatte per impedire l’archiviazione del caso, per sfidare il silenzio di un altro carcere che ha restituito un figlio in una bara. Un errore di ragazzo che poteva essere recuperato. Ma non c’è stato tempo, né modo di rieducare una vita che aveva preso una direzione sbagliata. Perché Carmelo è morto in fretta. Appeso ad un lenzuolo, come recitano le indagini. Un lenzuolo che non si è trovato più.

 

di Rosa Ana De Santis

Basta guardare per pochi minuti quel manifesto che ha tappezzato le strade di Avetrana per capire che Sarah non c’entra. L’associazione della memoria che porta il suo nome (fondata dal fratello Claudio Scazzi) cui sarà devoluto il ricavato del calendario e del cd dedicato ai piccoli randagi, è diventata la molla di un’attrazione mediatica. L’ennesima. Lustrini “acchiappa pubblico”, giovanissime scalmanate e affamati di notorietà per accogliere Giovanni Conversano, celebre tronista laccato di Canale 5. Gli amici di Claudio e l’amministrazione comunale si difendono dalle critiche sostenendo che il bel tronista si sarebbe impegnato in prima fila in questo progetto animalista, che tanto stava a cuore a Sarah.

Oggi il grande giorno nell’Oratorio del paese, mentre il presidente della Pro-Loco s’infuria per questa grottesca volgarizzazione cui il Comune avrebbe dovuto sottrarsi, lasciando la memoria di Sarah in pace. La vicenda di Avetrana ci ha abituati a questa invasione della tv, fin dagli inizi. Dalla scoperta del corpo andata in onda in prima serata, alle interviste della cugina e dello zio. I carnefici in tutte le salse e le lacrime. Per poi arrivare agli amici della comitiva incriminata e alla casa degli orrori transennata a fatica sotto l’onda degli scatti fotografici e delle telecamere.

Tv e gente comune stipata insieme davanti allo stesso show. Infine lui, il fratello. Che grida giustizia dal palcoscenico della trasmissione "Quarto Grado", che a "Domenica Cinque" ribadisce di non voler dare in pasto la vicenda di Sarah ai talk-show televisivi, mentre solo qualche mese prima aveva contattato Lele Mora, incassando una sonora bocciatura, per poter fare qualcosa in tv. Sosteneva di avere tante potenzialità, ma in ordine sparso e senza particolari passioni, tantomeno preparazione. Comparsate, reality, serate discotecare, opinionista senza titolo.

Tutto buono per uno venuto alla ribalta in fretta e in furia solo perché fratello di Sarah Scazzi, la ragazzina assassinata. Se nelle prime fasi della vicenda l’uso della televisione era stato strumentale (soprattutto per l’insospettabile cugina diabolica) per poi diventare morbosa attrazione collettiva, lo sfruttamento della memoria per la popolarità è ancora più odioso. Inutile dire che le istituzioni di Avetrana avrebbero dovuto convincere Claudio e i suoi consiglieri ad agire diversamente e, anche fosse vera la sponsorizzazione dei 12 artisti del progetto per Sara, a non acclamare lo special guest con tanto di foto immagine in prima pagina.

La memoria ha un suo stile e un suo registro narrativo. Quel volantino, persino nella forme e nella grafica, somiglia all’ ingresso gratuito con bevuta inclusa per una discoteca. I colori, i titoli e le foto non hanno niente che faccia pensare a un’iniziativa di valore sociale, tantomeno alla narrativa del ricordo. Ma forse Claudio avrà chiesto consiglio a Fabrizio Corona, visto che anche Belen è sponsor del calendario.

Perde infatti ogni tentativo di serietà e credibilità l’impegno della memoria con la faccia del tronista sbattuta sulla prima pagina dell’invito. Arriva come un pugno in faccia Giovanni Conversano, perché il tronista va bene vederlo contornato di donne svestite e più o meno fintamente eccitate, alle ospitate televisive di Barbara d’Urso, ma non nelle sedi dell’impegno sociale o in un’associazione nata per onorare una piccola vittima assassinata. Che partecipasse pure la creatura del laboratorio di Uomini e Donne insieme a tutti gli altri cittadini, ma senza foto e nome esibiti nello stile di un calendario o di un book per il casting.

Perché questo offende il ricordo di Sarah, la gravità e il dolore della fine che l’ha strappata alla vita e il pudore del silenzio in cui la sua famiglia avrebbe dovuto vegliarla. Senza svenderla, come del resto non ha saputo fare nemmeno quando era in vita o già cadavere in un pozzo. Senza usarla, com’è accaduto qualche giorno fa in una discoteca milanese. Anche lì il calendario dei cuccioli randagi in memoria di Sarah è stato presentato. Tra una cubista e un pezzo techno, mentre la vicenda giudiziaria avanza faticosamente nella ricostruzione di moventi e arma. Mentre zio e cugina si lanciano addosso accuse e lettere.

Zitti e immobili se ne stanno il padre di Sarah e la madre Concetta. I suoi occhi stralunati ci hanno abituato a quest’assenza. Lei che abbraccia la sorella Cosima come per scagionarla da ogni sospetto, come se le bastasse accontentarsi di un brandello di verità. Una pallida ombra di giustizia.

Silenzio nella famiglia, mentre nessuno ferma le rumorose pubbliche relazioni di Claudio. Nessuno gli insegna che il ricordo di una morte così atroce, attaccata alle viscere di una famiglia, non può essere banalizzata con serate e inviti mondani. Che la piccola sorella uccisa non va esibita come in un gran galà della memoria. Il racconto di un dolore privato può dare un significato all’assurdo e può dare conforto, se sceglie di non prendere a prestito la spazzatura di tanta cattiva tv e di una mondanità volgare ed effimera che nulla può dirci sulla serietà degli affetti e dei sentimenti.

Perché non è degna, né dignitosa. Perché altrimenti viene il sospetto che Sarah sia diventata solo la madrina assente di un successo macabro. Un reality nemmeno nato per lei, ma su di lei. Che la sta seppellendo un’altra volta davanti a tutti.

 

 

di Mario Braconi

La Costituzione e le leggi italiane in materia di detenzione sono illuminanti: basta scorrere l’Art. 27 della Carta: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Oppure si può leggere l’Art. 1 della Legge n. 354 del 26 luglio 1975: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. [...] Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari”.

Il caso di Fernando Paniccia, ventisettenne di Frosinone morto il 27 dicembre nel carcere di Sanremo (pare per arresto cardiaco) è emblematica di quanto, al di là delle nobili intenzioni, la legge, nei fattia sia rimasta pura enunciazione di principio. In effetti, la morte in carcere di Paniccia, un metro e novanta di altezza per 186 chilogrammi, epilettico, invalido al 100% e gravemente ritardato (e quindi per definizione incapace di intendere e di volere) é il capolavoro di un sistema infame, feroce, classista.

Nel mondo reale non è vero (come pure pretenderebbe la legge) che il “trattamento” carcerario viene applicato in modo indiscriminato a tutti i condannati. Paniccia, ad esempio, ha iniziato la sua “carriera” di carcerato nel 2003, a seguito di un brillante arresto messo a segno dai militari dell’Arma in flagranza di reato: il ragazzo aveva infatti sottratto tre palloni di cuoio da un centro sportivo dove si era recato, assieme al fratello, a svolgere dei lavori di manutenzione. Niente meno.

Un episodio che, con al sua crudele ironia, ricorda che la giustizia somministrata dallo Stato finisce per essere (non da ora e non solo da noi) un fatto di classe: essa è infatti tanto rigorosa con ritardati, sans-papier, tossicodipendenti, poveri - in una parola, con gli ultimi - quanto permissiva con i potenti, quelli che hanno i mezzi per assicurarsi i servigi di un abile avvocato, quando non arrivano addirittura (anomalia tutta italica questa) a scriversi qualche legge su misura per evitare la galera o anche solo per evitare di pagare le tasse.

Sarebbe interessante capire in base a quale abominio burocratico una persona disabile come Paniccia sia stata rinchiusa (e sia rimasta sepolta) in carcere: non solo infatti lo impedirebbero (oltre al buonsenso) la Costituzione e la legge 354/1975, non potendosi considerare in questo caso la reclusione compatibile con “il senso di umanità”, ma anche due articoli dell’Ordinamento Penitenziario (O.P.). Come ricorda infatti Francesco Morelli di "Ristretti Orizzonti" (ONG che si occupa del mondo carcerario), l’art. 47 ter dell’O.P., tra gli altri casi, prevede la carcerazione domiciliare per le persone condannate a pena detentiva residua di meno di quattro anni “in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali”; mentre l’art 11 lascia intendere che possa essere perfino il direttore del carcere a disporre il trasferimento di un detenuto in luogo di cura esterno “nei casi di assoluta urgenza”.

Per quanto possa sembrare incredibile, in Italia vi sono almeno 500 persone nelle stesse condizioni di Paniccia: detenuti a dispetto della loro disabilità. Il numero sarebbe in sé già abbastanza preoccupante, se non fosse necessario registrare una circostanza ancor più grave: la palese indifferenza dello Stato di fronte a questa vergogna. Pare infatti che le statistiche sui disabili in carcere siano ferme al 2008; le schede relative alle rilevazioni del 2009 sono state sì somministrate ai vari istituti di pena per la compilazione, ma poi non se ne è fatto più nulla. Non solo, insomma, chi dovrebbe punire i criminali si comporta da criminale, ma non sente alcun impulso ad emendarsi.

Del resto la situazione delle carceri italiane è ormai fuori controllo, come racconta la fotografia scattata dalla ONG Antigone a fine ottobre, in occasione della pubblicazione del suo Settimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia: 69.000 detenuti a fronte di una capacità di “accoglienza” pari a 45.000 unità.

Il che significa che nelle carceri italiche è stipato un numero di prigioneri pari ad una volta e mezza la capienza massima; poco meno della metà (il 44%) di loro è imputata (!), mentre il 22% è in attesa di giudizio; oltre il 40% è coinvolto in vicende di droga (dato, questo, più eloquente di qualsiasi comizio anti-proibizionista).

C’è anche chi non ce la fa ad uscirne vivo: 55 sono stati i suicidi, cui si devono aggiungere quelli registrati tra le guardie carcerarie (4 da inizio del 2010 secondo i radicali), mentre le morti per cause “da accertare”, ad agosto, erano già più di 100.

Qualcuno ne parla? Mica tanto. All’onore delle cronache sono assurti solo alcuni casi particolarmente clamorosi, le cui vittime erano italiani con una famiglia o degli amici in grado di fare un po’ di rumore sui media, anche se troppo tardi. Una piccola “chicca” riguarda i bambini: sono in 57, al di sotto dei 3 anni, a trovarsi nelle galere nostrane.

Un autentico disastro, che però fa poco notizia in un Paese che le chiacchiere senza costrutto hanno stordito al punto da fargli perdere ogni senso delle priorità politiche, quindi umane. Un po’ come è successo, per un attimo, quando è toccato a Paniccia, ladro di palloni.

 

 

 

di Rosa Ana De Santis

L’abbiamo vista appesa sui grandi cartelli di una campagna pubblicitaria. Era il 2007 e il suo corpo nudo, con i tessuti appiccicati e quasi risucchiati dallo scheletro, arrivava come un pugno. Il gusto per lo shock aveva guidato, come di consueto, gli scatti fotografici di Olivero Toscani, fino al punto di rendere quella guerra all’anoressia insolente e insopportabile. Era intervenuto il giurì della pubblicità a stoppare la campagna, mentre l’allora Ministro della Salute, Livia Turco, aveva patrocinato l’iniziativa. Isabelle é morta a 28 anni il 17 novembre scorso a Tokyo, dopo 15 anni di sofferenza e malattia.

Aveva accettato di posare nuda, mostrando i segni e i vuoti di quel morbo che aveva tolto cibo al suo cervello, ai suoi progetti e alla sua carne, perché sapeva di essere malata, di esser finita in un girone dantesco, di dover sfuggire alla morte. Dal web Isabelle segnalava link di nutrizionisti e psicoterapeuti, aggiornava i lettori sulla sua rieducazione alimentare, sulle evoluzioni della sua faticosa riconquista della vita che l’aveva portata quasi a 32 kg.

Le motivazioni della sua malattia venivano da lontano, dai suoi 13 anni di adolescente, figlia di una donna che non voleva vederla crescere. L’esaltazione della magrezza, la moda, le esibizioni da attrice, poi l’apnea delle tisane, del the, della sola acqua. Bocca senza cibo, organi vuoti come sacchi, ormoni silenziati in una vita asfissiata ogni giorno un po’, sempre di più. Ad ucciderla una polmonite con complicazioni, le conseguenze di un corpo frustato da inedia e stenti.

La malattia quindi si era annidata in Isabelle da un rapporto sbagliato con una madre depressa, ma era cresciuta bene sotto i riflettori mentre lei languiva, ben protetta del glamour che vuole la bellezza femminile delle passerelle striminzita, asciutta e ossuta come solo il corpicino di una bambina prima dello sviluppo può essere. Il mondo della moda aveva elegantemente smarcato l’accusa addebitando ai problemi psichiatrici di Isabelle le ragioni di quel disturbo alimentare. Ma era proprio lei a ricordare che alle modelle vengono chiesti dimagrimenti drastici, che il corpo deve quasi scomparire e lasciare visibilità al solo abito indossato, che i criteri di massa corporea non inferiore a 18 sono solo bugie. Che la moda l’aveva definitivamente inabissata, condannandola.

Impossibile non crederle se una come Kate Moss, simbolo del fashion per eccellenza,  corteggiata e strapagata dagli stilisti più celebri, rivendica il gusto di essere pelle e ossa. Bella per essere cocainomane e maledetta, sexy nelle sue ossa sporgenti, nei seni piallati, nelle cosce divise dall’aria che passa attraverso i suoi 40 kg scarsi. La bellezza di queste dive altissime e mute strapazza il cervello delle nostre adolescenti e insinua il tarlo di un’equazione esasperata tra magrezza estrema e bellezza, tra centrifuga di diet coke con anfetamine e lustrini di una vita di successo. Molte le ragazze scappate all’inferno che i rotocalchi patinati nascondono. Jessica Clark, Crystal Renn tra le più famose e le più attive nelle denuncia del meccanismo spietato che alimenta mondo e mercato della moda.

Tante quelle che ancora vediamo sospese sulle gambe ridotte a stecchini in bilico sui trampoli della nuova collezione. Quando le sfilate, come accadde nel 2006 a Madrid, bandiranno l’esibizione di questi corpi malati, allora la denuncia della bambina Isabelle avrà avuto senso e quella campagna che molti non capirono, ora la capiranno. Così, finalmente compreso e meno indigesto ai maestri del buon gusto, sarà anche quel ritratto di dolore esibito come un urlo in mezzo al traffico, sulle borse dello shopping, addosso a tutti. Isabelle di schiena con gli anelli della colonna vertebrale in evidenza, non conteneva rischi di emulazione. Nemmeno la modella israeliana Hila Elmalich, con i suoi radi capelli spenti, lo aveva. E nemmeno la modella uruguayana Luisell Ramos, dopo anni di sola lattuga e bibite ipocaloriche. Tutte morte sulla passerella.

Il rischio di emulazione e di contagio dell’anoressia, che molti erroneamente videro in quella campagna, sta invece nel continuare a vedere queste donne tempestate di lustrini e di scatti fotografici, andare avanti e indietro come stampelle, mentre la pubblicità le fa rimbalzare da una pagina all’altra, semplicemente perché non esistono. Leggere come fantasmi. Donne senza corpo. Che alla fine diventano senza anima.

La nausea di quelle foto serviva a questo. E Isabelle che conosceva il male silenzioso che l’aveva stretta in un digiuno protratto per anni, sapeva di dover rispondere in modo forte alla violenza silenziosa che tante donne subiscono. Senza consapevolezza e senza ribellione. In nome di una bellezza che se la guardi bene e in profondità diventa vuota e cava come quella faccia, macchiata dalla psoriasi, che ci guardava a stento da due grandi  occhi chiari. L’unica bellezza che l’anoressia non le aveva portato via.


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