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di Rosa Ana De Santis
Sono 5 e sono arrampicati e sospesi in cielo, su una gru, ormai da sabato scorso. Il vento gli ha strappato il debole riparo di una tenda e le coperte. Ma vanno avanti, anche se, insieme alla pioggia, la stanchezza s’infila nelle loro ossa. Siamo a Brescia, terra di fatica per tanti e di ricchezze insultanti per qualcuno. Poche le telecamere e i giornalisti mobilitati, non tutti gli immigrati sono uguali. La notizia che tira e che fa vendere i giornali é quella del bunga bunga di casa Arcore e di una giovanissima immigrata che si esibisce in danze pubiche per vivere e che può contare sulla carità ormonale del nostro premier. Non va così per i nostri immigrati in rivolta, esclusi dalla sanatoria.
Aruf, uno di loro, lavora in Italia dal 2006. Anche dieci ore al giorno per 500 Euro. Briciole. Non ha trovato nessun samaritano lungo il suo percorso di schiavitù, ma un datore di lavoro che è scappato e che nullificato così la sua domanda, legittima, di sanatoria. Così per tutti gli altri, per i quali i permessi di soggiorno rischiano di non arrivare mai, per la colpa di esser stati truffati dal cantiere o dalla ditta che li faceva lavorare. Sajad, 27 anni, è un laureato con un master in lingue, Jimi, egiziano, 25 anni vive nel nostro paese da quando ne aveva 20, lavorava sei ore al giorno per 650 euro come operaio metalmeccanico, Rachid, 35enne marocchino, Singh, 26 anni.
Le storie della truffa sono moltissime. Lavori perduti a un passo dalla domanda per finire di nuovo nel sommerso, italiani che hanno intascato soldi per i contratti e che poi si sono dileguati. La storia della legalità dell’immigrazione è fatta di questa cronaca qui, tutta italiana, che annienta la vita degli immigrati dopo averli spremuti e che li tiene nella schiavitù con la mannaia dell’espulsione. Il mercato delle assunzioni fittizie, generato dalla mitica sanatoria, non è fatto di una manciata di casi isolati, ma di tantissime storie di stranieri finiti sul lastrico e truffati dagli italiani. Spesso fino a 10mila euro per un’assunzione fantasma e senza alcuna possibilità di tutela giuridica.
I 5 sulla gru ne sono la metafora estrema. Soltanto a Milano, la sanatoria di colf e badanti (che lascia a piedi tanti altri lavoratori, va ricordato) ha visto almeno 400 stranieri ingannati che non hanno potuto nemmeno, per non autodenunciare l’assunzione finalizzata alla sanatoria, denunciare gli italiani che, ovviamente, l’hanno fatta franca. Indisturbati.
E come non pensare poi a tutti quei lavoratori che si sono ammalati e che sono rimasti sul lastrico insieme alle loro famiglie. Abbandonati da chi doveva metterli in regola - o così aveva promesso - a prezzo di ore e ore pagate in nero a una manciata di Euro. Dell’illegalità che trae profitto in tutti i modi possibili dalla debolezza degli immigrati non parla nessuno e si preferisce esibire la propaganda della clandestinità, perché questa è lo strumento emotivo più efficace per impedirgli di rivendicare diritti e tutela giuridica, lasciando che la disperazione si trasformi indisturbata e silenziosa in una forma contemporanea di schiavitù, di cui le istituzioni si occupano solo negli spot televisivi.
Ma quando la tv si spegne, questi stranieri tornano ad essere fantasmi. Quando delinquono, ma anche quando lavorano, quando entrano nelle case degli italiani, quando i loro figli vanno a scuola o pregano in una moschea, quando si ammalano o cadono dalle impalcature dei cantieri. Continuano ad essere invisibili.
E’ il caso di Bhuya, un bengalese vittima di una selvaggia aggressione razzista nella città di Roma. Lavorava come ambulante e domestico, ma dopo le ferite e i traumi dell’aggressione non può tornare alla vita di prima. Ha chiesto invano aiuto ai servizi sociali e al sindaco Alemanno. Ed ancora c’è il caso del coraggioso Bilal che ha affrontato un rapinatore durante il colpo alla stazione di benzina in cui lavorava e che come premio ha ricevuto un foglio di via. E’ la violenza confusa con la fermezza della legge il dato distintivo che l’Italia riserva agli stranieri.
Ed è tutta questa cronaca che rende orribile la notizia del giorno sull’escort Ruby, marocchina e minorenne, che dice di aver trovato la Caritas a Villa Certosa. E ancora più ripugnante il viaggio nel mondo delle donne straniere in vendita, trasformato in una commedia irriverente e kitsch da ragazzine a caccia di tv e uomini anziani delle Istituzioni che usano il potere per avere quello che da soli non possono conquistare più.
Dimenticando la politica, le sue ragioni, il contegno delle istituzioni e portando il privato nelle sale delle decisioni politiche. E dimenticando i fantasmi. I cinque disperati che per rendersi visibili si sono rannicchiati nel vuoto, appesi su tubi di ferro. Dovranno buttarli da lassù per farli tacere. Questa è l’unica loro forza. Morire per rivendicare un diritto. Loro non hanno altri mezzi. Non fanno festini, non si offrono al rito del bunga bunga organizzato dal gruppo dei guardoni senili, non vogliono un posto da velina. Non hanno incontrato Silvio Berlusconi. Sono uomini e hanno più di 18 anni.
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di Rosa Ana De Santis
Il dossier Caritas- Migrantes, presentato qualche giorno fa, parla chiaro sui numeri dell’immigrazione e con la stima di quasi 5 milioni di stranieri sul territorio nazionale supera di circa 700mila unità le stime dell’ISTAT. Ma all’aritmetica spicciola aggiunge alcuni dati importanti: la dislocazione geografica, l’apporto al fisco, l’occupazione. L’immigrazione arriva principalmente da Albania e Romania, al terzo posto troviamo gli africani. E’ il Nord ad accoglierne la maggior parte, circa il 60%.
Braccia per tante attività economiche trascurate, figli, e quindi riduzione dell’invecchiamento generale della popolazione italiana sono - tra gi altri - i contributi più significativi che gli stranieri stanno portando nel nostro paese. Molte le unioni “miste” e non soffrono più delle altre di crisi coniugali e separazioni. Una novità che fonde tradizioni e culture e che é destinata a mutare profondamente costumi e comportamenti sociali.
Non c’è alcun nesso tra l’aumento degli stranieri e le denunce; la criminalità degli stranieri regolari è uguale a quella degli italiani, così come nelle regioni a maggior incidenza d’immigrati (irregolari compresi) non c’ è stato alcun aumento di criminalità. La mancanza di questo legame, peraltro confermato ripetutamente anche dalle analisi ISTAT, conferma chiaramente quanto gli stereotipi e i pregiudizi abbiano condizionato il dibattito politico e i comportamenti sociali sul fenomeno dell’immigrazione. Ed è proprio il Ministero dell’Interno a dirci che non c’è un legame causale tra l’aumento dell’immigrazione e della criminalità. Possiamo dire con tranquillità che la piaga della mafia e della malavita infiltrata a tutti i livelli, esisteva ancor prima degli sbarchi di Lampedusa.
E’ evidente come non ci sia altra strada di convivenza, per un processo inarrestabile, che non passi per l’integrazione. Una strada affatto semplice, che vede nell’elemento femminile il motore della trasformazione. Molto importante è, infatti, il ruolo delle donne in questa fase delicata di conoscenza, di scambio culturale e di creazione di nuovi equilibri.
La percezione che gli italiani hanno del fenomeno dell’immigrazione è molto lontana da questi numeri. Quelli che sentiamo negli autobus al mattino, quelli che vogliono mandarli a casa, quelli che li accusano di rubare il lavoro ai figli laureati, ancorano a teorie fasulle un rozzo ed elementare razzismo di pancia. I numeri dell’immigrazione italiana, infatti, sono tra i più bassi d’Europa. La presenza forte dei romeni (categoria invisa all’italiano medio) è stata determinata soprattutto dall’inclusione della Romania nella UE e, quindi, dalla conseguente libertà di circolazione riconosciuta ai romeni, come a tutti i cittadini europei.
I clandestini sono soprattutto gli asiatici e non, come si crede, i gitani, gli albanesi o i marocchini. La maggioranza degli immigrati, inoltre, è cristiana e non musulmana, come gli spauracchi dell’integralismo propagandati dalla Lega Nord vorrebbero far credere. Andando al tema del lavoro, bisogna riconoscere che gli stranieri sono andati a riempire vuoti occupazionali generati, nel nostro paese, soprattutto da ragioni demografiche (il calo pauroso delle nascite, ad esempio) e che tutti gli altri lavorano a nero nelle occupazioni più umili, pur vantando qualifiche e titoli di studio.
Questa fotografia della nuova società italiana ci offre diversi spunti di ragionamento. Il primo è che questo paese sta cambiando volto irreversibilmente. Che il percorso d’integrazione è molto difficile e lungo. E soprattutto emerge quanto sia necessario attrezzarsi politicamente per fronteggiare questa grande metamorfosi, che è operazione molto più articolata della sola repressione legislativa. Il ritratto del nostro paese racconta di un’Italia che, scansando la commedia della tradizione sentimentale, è a tutti gli effetti un paese razzista.
Un paese attraversato da viscerale intolleranza e volontà di chiusura. Nell’opinione comune la differenza tra regolare e clandestino non è quasi percepita, non arriva. Sono tutti stranieri, intrusi che contaminano le tradizioni e le regole. E il dato più sconcertante è che le istituzioni hanno scarsamente contribuito a fare pensiero su questo argomento e hanno scelto la strada delle leggi e leggine, del buonismo dell’accoglienza. O, peggio ancora, hanno cavalcato i peggiori sentimenti xenofobi per armare le campagne elettorali dei partiti di centrodestra.
Le migrazioni di milioni di persone in cerca di lavoro e di sopravvivenza sono figlie dell’organizzazione internazionale del mercato del lavoro e del mercato del commercio internazionale. Nessuno lascia la propria casa, la propria terra, i propri affetti e la propria lingua se non è costretto a farlo per poter sopravvivere. E nessuno può, se non colpito da ignoranza profonda, pensare che il proprio Paese sia estraneo a tutto ciò.
Se il lavoro non segue gli uomini, gli uomini seguono il lavoro. Se i paesi ricchi rapinano le risorse di quelli poveri, i lavoratori poveri vanno a cercare le loro risorse nei paesi più ricchi. E se gli italiani pensano che il loro progressivo impoverimento sia causa della mano d’opera straniera a basso costo e non delle politiche del lavoro che strangolano diritti, riducono gli addetti e azzerano gli investimenti, è solo perché gli autori politici di queste scelte sono gli stessi che sostengono le ideologie xenofobe e che dispongono del sistema mediatico che divulga ignoranza e razzismo a proprio tornaconto politico.
Se l’Italia riconoscesse la propria identità razzista saremmo già un passo avanti. Uno sforzo di autocomprensione che restituirebbe coscienza alla nostra storia e forse un po’ di memoria. Siamo diventati quello che nei secoli abbiamo subito. Quando da questa minuscola lingua di terra nel Mediterraneo sono fuggiti, dall’Ottocento al secolo scorso, milioni di poveri italiani. Tra emigranti e discendenti si superano i 60 milioni sparsi nel mondo, tanti quanti vivono nei nostri confini. Non ci risulta che i paesi che ci hanno accolto abbiano perso tradizioni e identità, semmai hanno dovuto imparare a gestire il dramma, importato con noi, della mafia e della mala.
Non ci risulta, soprattutto, che alcuno abbia potuto arrestare la diaspora che partiva su navi e treni dalle nostre coste e dai paesi montani. Sarà quindi arrivato il momento di azzerare termini e ragionamenti su clandestini, criminali, imbarbarimento delle città. E’ il momento di parlare di razzismo e di ragionare in fretta sugli antidoti adatti per questa peste culturale che, in barba alla memoria storica, parla attraverso la voce di un popolo di emigranti. Che non ha imparato dalla propria storia e che non ricorda più.
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di Rosa Ana De Santis
La morte di Sarah è rosa. La matrice dell’assassinio è tutta femminile. Sembra essere questo il dato che emerge, anche se sono ancora in corso le indagini per svelare le responsabilità dirette, per capire di chi sia la mano che ha strangolato e quella che ha occultato il cadavere. Quel che è certo è che l’imputato numero uno, Michele Misseri, è sempre più fuori dal circolo dei moventi e delle ragioni dell’odio. Lui rimane a rappresentare l’icona dello zio guardone, del deviato molestatore di nipotine. Ma sembra proprio esser stato scelto come capro espiatorio dalle sue donne.
O almeno lo è stato fintanto che ha retto. Ora ritratta, quasi tutto. Anche l’orrore della violenza carnale sul corpo esanime di Sarah, che doveva servire a rendere credibile il suo ruolo attivo e forse anche la patologia che avrebbe dovuto salvargli la pena peggiore. Sarebbe stato lui, quasi sicuramente invece, a caricare il corpo in macchina e a nasconderlo nei campi, lui a mettere la pietra. Ma è nel focolare che sono riposti tutti i segreti e tutte le ragioni. Le conosce Sabrina, la mamma Cosima. Forse le intuisce Concetta, la mamma di Sarah che non parla e che ha accostato la diabolica famiglia Misseri - e in particolar modo Sabrina - all’imperturbabile mamma di Cogne. Ma com’è possibile che in quella vita di cugine - sorelle, quelle due famiglie così strette e in osmosi potessero nascondersi così bene?
In questi giorni di martellante cronaca il gineceo di Avetrana diventa sempre più chiaro. In quella casa le donne custodiscono il segreto, hanno il piglio deciso e forte che Sabrina mostra e dimostra nel suo gruppo di amicizie e davanti alla televisione. E’ espansiva, teatrale, ben strutturata. Suo padre, invece, non sa parlare. Tentenna, non si fa capire, svela tutta la sua rozzezza e ignoranza, anche nel pianto, e i recenti racconti, da vedere quanto attendibili, lo ritraggono quasi in ostaggio delle sue donne.
Un’intera famiglia, quella dei Misseri, si muove e si ricompone in una strategia di difesa, di omertà e di sacrificio che ricorda le regole delle case mafiose, con un movente che è ancora più basso. Nessuna guerra sul territorio, nessuno scacchiere di potere.
Forse proteggere un pedofilo, soffocare lo scandalo che Sarah avrebbe potuto far scoppiare da un momento all’altro, o semplicemente eliminare la cuginetta, la migliore amica, la sorellina. La più bella, l’amabile fuscello, la mascotte del gruppo, l’inviolabile che non accettava la regola del silenzio.
Un suo doppio, tenero e scomodo, che Sabrina vuole educare, guidare, dominare e che un giorno, forse, decide di parlare senza permesso e di sfidare le regole di quelle donne che lei crede dalla sua parte. Sabrina è per tutti la guida di Sarah, è quella grande che lavora e che è contornata di amici, che esce tutte le sere e che non conosce la timidezza. Ma forse quel suo fare protettivo e quasi morboso nei confronti della piccola cugina è solo l’altra faccia dell’odio e della gelosia. Sarah è, nei suoi colori e nella sua bellezza inconsapevole e senza potere, una figlia prediletta, una visibile estranea per quel clan matriarcale che vanta solo possesso e potere, e nessuna grazia.
Basta pensare a Cosima, la moglie di Misseri e la madre della probabile assassina, che solo l’assenza del capo d’imputazione di favoreggiamento in ambito familiare le risparmia, ad oggi, di trovarsi sul banco degli imputati. Gli inquirenti dicono che la madre di Sabrina sa. Conosce le motivazioni e quel giorno non sente solo un trillo sul cellulare della famiglia. Ma forse vede, assiste e ordina e dispone la strategia di copertura.
Ed é ancora una donna, l’amica di Sabrina, la terza ragazza di quel finto pomeriggio al mare, a far crollare l’architettura dell’omertà. E’ lei a testimoniare il comportamento di eccessiva agitazione di Sabrina, le anomalie, le discordanze. Una donna, anche lei, estranea a quel clan femminile, che azzera il sortilegio con un gesto di autonomia. Imperdonabile per Sabrina.
Sembrano, all’opinione pubblica, sempre più orrendi i delitti quando dietro c’è la mano di una donna. La madre, la cugina, la copertura delle donne sembra essere meno spiegabile, meno convincente. L’orco è, per definizione, uomo, padre, zio. Basta ricordare lo sgomento che attraversò l’Italia quando si seppe che la mano assassina era quella di una giovane sorella, Erika di Novi Ligure.
Nel garage di casa Misseri non c’è di mezzo solo un raptus, una passione sbagliata, ma una curatissima strategia di omertà che ricorda, solo all’apparenza, le moltissime famiglie, cui siamo tristemente abituati, in cui le donne chiudono gli occhi e tacciono. Li chiudono di fronte ai figli abusati, alle devianze sessuali dei mariti, alle violenze fisiche. Ma le donne di casa Misseri non sono nemmeno questo. Non sono sovrapponibili all’icona della remissività sotto i veli del lutto. Assomigliano, piuttosto, alla matrigna e alle sorellastre di Cenerentola.
Resta da capire se donna Cosima abbia solo deciso di difendere una figlia, immolando il marito che, innocente verso Sarah, non era comunque. O se abbia controllato tutta la storia e se ancora oggi non taccia tante ragioni che non sospettiamo neppure. E soprattutto resta da capire chi sia Sabrina. Una figlia devota che vuole proteggere il buon nome del padre, l’alter ego invidioso di Sarah colto da un raptus. La sensazione è che la regia di questa eliminazione sia plurale, programmata e tutta nata e fatta in casa. Partorita da un gineceo del male che inaugura il mito di una nuova Medea.
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di Rosa Ana De Santis
Nei giorni delle indagini convulse, mentre il volto dell’assassino cambia occhi e tratti di ora in ora e passa dal padre orco alla figlia corpulenta in una trama ancora non chiarita di responsabilità, e mentre si scava nei segreti di famiglia che non risparmiano nessuno dei protagonisti, davanti al portone di casa Misseri si stringe una folla di persone comuni. Famiglie, mamme e papà con in braccio i piccoli, gruppi di amici che fanno pensare alle scolaresche.
Invece di andare al parco o al cinema questa gente ha pensato di partire per sbirciare qualche immagine di più dal buco della cancellata di ferro che porta al garage dove Sarah è stata uccisa. Non sono solo persone di Taranto, alcuni degli spettatori hanno affrontato un viaggio di ore per esserci. I carabinieri sono stati costretti a transennare la casa. Altre case degli orrori sono diventate musei, in passato: lo chalet di Cogne e la casetta gialla di Erba.
La psichiatria spiega questo macabro turismo del male come il tentativo di esorcizzare la paura che una violenza così efferata, come quella che ha ucciso la piccola Sarah, porta nelle case e nelle famiglie delle persone. La banalità di un male enorme e annidato nelle relazioni familiari getta sulle vite più comuni l’ombra di un rischio e di un pericolo in agguato. Ma davanti casa Misseri non c’è stata soltanto una sfilata di curiosi, di persone che hanno lasciato fiori bianchi o una preghiera. La sensazione è che questa volta si sia andati oltre.
Gli spettatori intervistati si sono presentati con macchinette fotografiche, c’è stato chi ha girato video, alcune signore rispondevano ai giornalisti dicendo di essere andate lì per “indagare meglio”. La vicenda di Sarah, alimentata dall’esposizione mediatica dei parenti fin dal primo giorno, cugina sospettata per prima, è stata data in pasto non tanto ai riflettori, ma alla partecipazione e all’intrattenimento degli spettatori. Come un grande gioco di ruolo, come un reality vero e proprio.
A rendere la vicenda carica di attrazione per il pubblico a casa ci pensano proprio i familiari di Sarah, che aiutano come possono tv e media per confezionare la storia, per renderla vendibile. Il tam tam di messaggi tra la sorella Valentina e Sabrina, letti in diretta e mostrati alle telecamere, l’incitamento ad andare in tv, a rilasciare interviste, ad alzare il tiro. Il fratello di Sarah, che alla trasmissione Quarto Grado si presenta ossessionato dall’attesa di vedere in carcere lo zio molestatore, a qualsiasi costo, quasi senza appurarne la colpevolezza.
E poi arriviamo alla granitica e nuova sospettata numero uno. La cugina dominante e gelosa, la devota e preferita figlia di papà Misseri, che dietro le sbarre ha un pensiero unico. Cosa dicono di lei i giornalisti, cosa ha detto di lei la Palombelli? Ci voleva Avetrana per scoprire che l'opinione della Palombelli o di Meluzzi interessasse a qualcuno.
Ancora una volta non è Sarah al centro di questa corrida e nemmeno la paura di scontare una lunghissima pena o di dimostrare la propria innocenza. E’ lo scontro con il padre accusatore, è prendere il posto in prima pagina e in primo piano. Una notorietà che si alimenta di dettagli, espressioni, pianti e gesti in favore di telecamera.
Avetrana al centro della lizza mediatica, è il capolavoro di Sabrina e del suo clan. L’Alibi perfetto, per mutuare una sceneggiatura più famosa, che scricchiola anche questa volta sul finale che sembrava perfetto. Una verità che Sabrina continua a tacere e un ruolo che continua a recitare.
L’innocente che legge i giornali, che chiede la rassegna stampa e invoca il confronto plateale con il padre accusatore, che vuole le sue scarpe allacciate e il suo reggiseno con i ferretti. La stessa che cercava Sarah con le lacrime agli occhi e gridava al rapimento quando la piccola poteva semplicemente essere in ritardo di poco, come ha testimoniato l’amica Marangela. Anche lei, l’amica, scrive e diffonde le sue lettere alla stampa. Come il conteso Ivano. Anche lui, l’amico del gruppo, ha il suo ruolo in questo mosaico. Interviste e pareri sono riportati come quelli di un testimone, di un esperto.
Sembrano scandirsi giorno dopo giorno le notizie o le fughe di notizie, le ammissioni e le smentite, come se dovessero produrre ogni giorno che passa i titoli buoni per quotidiani e Tg. Come se la paura fosse scoprire che, quando l’inchiesta arriverà al Gup, la pacchia della fama di tutti e di ognuno terminerà. Le edicole, le stanze affittate e gli alberghi, i benzinai e i bar del paesino e dintorni torneranno rapidamente nell’anonimato triste di una provincia annoiata.
Una scenografia barocca in cui i comuni protagonisti anonimi sono diventati primi attori e tutti, ma proprio tutti, uomini e donne ignoranti e senza cultura, si sono mossi con talento e disinvoltura, ben edotti sulle regole della televisione. L’unica che non ha preparato memorie da leggere davanti alle telecamere è la piccola vittima. Che non poteva sospettare, che non aveva capito l’odio che le si stringeva attorno.
L’amata e incauta bambina di famiglia, la mascotte non ha lasciato testimonianze, né denunce. Ed è uscita di scena buttata in un pozzo. La morte l’ha mangiata un giorno dopo l’altro. Così, mentre gli altri calcavano il palcoscenico mediatico sotto i riflettori, lei veniva ricomposta in una bara e nascosta persino agli occhi di sua madre.
Questa è l’unica parte del film che gli spettatori di casa Misseri non possono vedere. Peccato, perché se potesse, questo pubblico selvaggio vedrebbe anche quello. Al massimo, come diceva uno dei tanti padri presenti, si andrà al cimitero per scattare una foto sulla lapide. Come se ci fosse un gusto e un godimento maggiore a conservare le prove che tanto orrore è accaduto davvero.
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di Rosa Ana De Santis
La morte di Sarah Scazzi viene annunciata su RaiTre, durante la diretta di "Chi l’ha visto". La giornalista conduttrice, Federica Sciarelli, chiede alla madre di Sarah se interrompere la trasmissione o andare avanti. Ma le telecamere rimangono accese, la madre di Sarah non muove un muscolo del viso e, all’apparenza imperturbabile, si dice pronta a sapere tutta la verità.
Federica Sciarelli ha fatto il suo lavoro e l’ha fatto con una sensibilità che altri non avrebbero avuto. Sarebbero gradite invece le spiegazioni dei carabinieri, che scusano l’inconveniente di non averla avvisata prima e in via privata, per colpa - dicono - del cellulare staccato. La cronaca di un orrore privato diventa spettacolo pubblico e l’indignazione si fa corale per questa invasione della tv e dello share che azzera ogni traccia d’intimità e che trasforma persino il corpo di una ragazzina, strangolata e violentata dallo zio, in un’attrazione televisiva. Non è il primo caso.
E’ stato così con Novi Ligure, con Cogne, con Erba. Il resoconto dei particolari si trasforma in tv nel culto della ricostruzione, nella morbosità dei ritratti dei protagonisti e nell’analisi del male che banalizzata e raccontata mille volte, o proposta sotto forma di sondaggi, acquista quasi una valenza ludica da intrattenimento. Ma questo non sembra proprio il caso della trasmissione della Sciarelli. Un conto sono i plastici di Bruno Vespa, le puntate che alternano le ricette e la cosmesi agli omicidi efferati e il tavolone degli ospiti sui casi più brutali della cronaca nera. Lo spettacolo che non chiede permessi, che fa ipotesi e che permette arene di opinioni di cantanti e vallette (come accade nello spazio di Giletti a “Domenica in”, per fare un altro esempio) sui fatti di sangue più brutali della cronaca italiana.
Un conto è una trasmissione che da anni aiuta gli inquirenti a cercare gli scomparsi, che ha dato scoop a numerose indagini ( pensiamo al caso di Emauela Orlandi) e ha impedito spesso che i faldoni delle indagini muffissero senza verità. Il dovere di cronaca è per necessità brutale, ma non per questo immorale. L’immoralità è vincolata a due criteri: l’assenso dei protagonisti e la finalità dell’informazione. Può essere immorale la ricostruzione di un fatto se non serve a svelare nulla, né a dare contributi di analisi, ma solo a solleticare le fantasie macabre del pubblico a casa. Le condizioni dei cadaveri non servono a niente. Quanto sangue, quanti schizzi o, peggio, le domande idiote ai familiari tipo: “Come si sente?”
La storia di Sarah ha piuttosto amplificato un altro fenomeno che ormai imperversa sulla nostra televisione e che non ha a che vedere con la cattiva cronaca. Il piacere dei protagonisti, comuni e anonimi, di portare il loro privato in tv. La drammatizzazione del dolore privato ha come unica finalità quella di apparire sul piccolo schermo. Il racconto del privato non con il fine di dare una testimonianza, far circolare idee e informazioni, ma di diventare personaggi, di rivedersi in televisione. Magari conserveranno la registrazione nel cassetto vicino a quello dove tengono il filmino e le foto del matrimonio.
Un costume indotto da tanti anni di tv berlusconiana e sdoganato ufficialmente con il fenomeno del reality. Vengono in mente le lacrime di C’è posta per te, le mamme urlanti degli spalti di “Amici” o le matrone travestite da critici di fronte ai tronisti. Sconosciuti che conquistano le copertine e che riempiono la tv della loro normalità, assegnandole il compito di dare valore a quello che da solo sembra non averlo più.
E’ accaduto, forse, qualcosa di simile nella famiglia di Sarah. Non solo rispetto al giorno dell’omicidio, su cui ci sono ancora tanti dubbi, ma in tutti i mesi precedenti. Nessuno parla in quella casa dello zio che mette gli occhi su Sarah, che la tocca, che la fa arrabbiare. La cugina sembra non parlare a nessuno di quelle confidenze di Sarah, ripetutamente molestata. Silenzio anche da parte del padre e del fratello. In silenzio anche la madre, che solo nei giorni della scomparsa sembra presagire o sapere che la mano che le ha portato via la figlia è dentro le mura di casa.
E’ questa contraddizione, tra il prima e il dopo della morte di Sarah, il vero centro della riflessione. La vita di persone comuni, addirittura innamorate del silenzio e ossessionate dalla censura di alcuni argomenti, incapaci di denunciare apertamente l’ombra di un’attenzione violenta e patologica su Sarah, che decidono però di rimanere in tv quando scoprono che Sarah è morta per mano dello zio.
L’intenzione non è quella di dare un giudizio sulle persone coinvolte, ma di ricavare - da questa storia - un’ipotesi di lettura sullo strapotere della tv nella vita delle persone. Viviamo ormai con le telecamere accese sui pruriti, prima che sui fatti. Viviamo in un’alterazione permanente del concetto di realtà e, più pericolosamente, di quello di verità. Da qui, non solo dalle campagne della provincia italiana, vengono i mostri.