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di Emanuela Pessina
BERLINO. Frank A. non ha mai incontrato le proprie figlie, ma la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo gli ha recentemente riconosciuto alcuni diritti di genitore alla luce della sua identità di padre biologico: un concetto, quest’ultimo, da sempre un po’ trascurato dalle autorità. La sentenza sembra sancire ufficialmente un risvolto quasi inaspettato dell’evoluzione del rapporto fra uomo e donna: perché di fronte ad una figura femminile alla perenne ricerca dell’emancipazione professionale, a quanto pare, si sta sviluppando un uomo sempre più bisognoso di ribadire il proprio ruolo nel processo biologico della nascita.
Frank A. è nigeriano ed era arrivato in Germania nel 2003. Ha avuto una relazione di due anni con una donna sposata che, a quanto risulta dagli atti, ha addirittura pensato di lasciare il marito per lui. Dopo essere rimasta incinta di due gemelle, tuttavia, la futura madre ha interrotto la sua relazione con Frank e l’ha accusato di aver cercato un rapporto solamente per ottenere il permesso di soggiorno. Alla luce dei suoi sospetti, la donna ha negato a Frank ogni benché minimo contatto con le bimbe. Nel frattempo, la Germania ha rifiutato a Frank l’asilo politico, costringendo l’uomo a cercarsi un altro Paese dove vivere. Frank ha scelto di trasferirsi in Spagna, dove sopravvive ancora oggi in una situazione sociale poco chiara e senza aver mai visto le sue figlie.
Frank A. ha cercato il contatto con le figlie da subito per vie legali. Il risultato non è stato dei migliori: per la giustizia tedesca, Frank avrebbe potuto vedere le sue figlie solo se si fosse assunto “responsabilità concrete” nei loro confronti. In parole povere, Frank avrebbe dovuto partecipare al sostegno economico delle figlie. A poco sono serviti l’affetto e l’interesse mostrati per le bambine, il tribunale non ha considerato che l’unico impedimento è stato la volontà della madre: senza giustificazione e senza possibilità di appello, la Germania non ha concesso a Frank Anessun diritto.
Ma, a quanto pare, la vicenda di Frank non era destinata a finire nel dimenticatoio. L’uomo si è rivolto alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che gli ha riconosciuto l’identità di padre biologico. Ora, fulmine a ciel sereno per la donna, Frank può sperare in un contatto con le sue figlie. La madre si è risposata, il nuovo compagno è anche il padre legale delle bimbe, ma la Corte di giustizia ha deciso che ciò non può pregiudicare i rapporti di Frank A. con le proprie figlie, nonostante non le abbia mai incontrate. Secondo la Corte europea, è molto importante che le bimbe abbiano un contatto con il proprio padre, soprattutto per mantenere un contatto con le proprie origini. Bruxelles ha anche imposto alla giustizia teutonica un rimborso di cinquemila euro nei confronti di Frank per aver disatteso un suo diritto.
La polemica non ha tardato a scoppiare, poiché la questione va a toccare un nervo aperto nell’ambito del diritto della famiglia. Da secoli, il ruolo della madre è biologicamente scontato perché, tranne in casi del tutto eccezionali, corrisponde a quello fisico e, di conseguenza, a quello legale. In fin dei conti è la donna a partorire i figli. Ma la figura del padre biologico, invece, che peso ha? È giusto negare a un padre l’accesso ai propri figli se non è momentaneamente in grado di garantire loro una somma mensile e, quindi, di prendersi le proprie responsabilità? È giusto dare più importanza alle responsabilità di un padre rispetto al suo originario ruolo biologico?
Da decenni, ormai, maschio e femmina cercano la parità dei sessi e, in un certo senso, l’equilibrio delle funzioni. La donna si è andata emancipando sempre più da un punto di vista professionale, liberandosi dal ruolo biologico “scontato” di madre. Cent’anni fa l’unica alternativa per le donne erano la casa e i figli, oggigiorno ci si può decidere (più o meno) liberamente per una carriera al di fuori dell’ambiente domestico. Che questo abbia costretto l’uomo a cercarsi un nuovo ruolo, è fuor di dubbio.
E ora, all’alba del ventunesimo secolo, anche gli uomini si trovano impegnati in una loro personale emancipazione. L’obiettivo è quello di riguadagnarsi un ruolo attivo nel processo biologico della nascita, un diritto per certi versi da sempre trascurato. Il riconoscimento ottenuto da Frank a Strasburgo, forse, è il primo passo concreto in questo senso.
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di Rosa Ana De Santis
La sentenza d’Appello arriva il 1 dicembre alle 17.30 e ribalta quella di primo grado, del 14 luglio 2009. Spaccarotella è colpevole di omicidio volontario. Cade la teoria dell’incidentalità e dell’omicidio colposo. Cade la valorizzazione decisiva nella prima sentenza del proiettile deviato dalla rete metallica. Il tribunale non rende giustizia al dolore di una famiglia e alla prematura scomparsa di Gabriele, ma punisce un omicida in divisa.
E’ stata accolta solo in parte, però, la richiesta del pm, che aveva chiesto 14 anni di reclusione. Spaccarotella pagherà con 9 anni e 4 mesi di reclusione, se la sentenza sarà confermata dalla Cassazione, verso la quale i legali dell’omicida hanno già annunciato presenteranno ricorso. Ma la condanna per omicidio volontario rappresenta un caso importante nella storia di questa Repubblica. Un caso di scuola, come lo definisce il fratello di Gabriele.
Le foto ritraggono Giorgio Sandri fuori dalle porte del Tribunale di Firenze, con gli occhi al cielo, abbracciato agli amici di “Gabbo”. Accanto a lui l’altro figlio, Cristiano, e la mamma Daniela. Affranti, ma sollevati da una sentenza che riporta ordine e verità nei fatti camuffati e raccontati a metà, in un tradizionale stile omertoso che da sempre ha coperto responsabilità e misfatti delle forze dell’ordine in Italia a danno dei cittadini comuni e di quelle persone perbene in divisa, che il loro lavoro lo fanno con serietà e per pochi spiccioli.
Come si diceva, il difensore di Spaccarotella, Federico Bagattini, annuncia già il ricorso in Cassazione, dopo aver letto le motivazioni riportate nella sentenza. Non rimane che sperare che non sopraggiunga l’ennesimo ribaltone giudiziario e che i 9 anni di reclusione rimangano tutti a condannare l’operato di un poliziotto pericoloso che - va ricordato - in piena autostrada, punta un’ arma da fuoco ad altezza uomo e spara. Se non si ha il coraggio di ribadire la condanna su una condotta così fuori controllo e altamente pericolosa, se la mela marcia non paga, per i cittadini italiani non ci sarà scampo.
Manifestazioni, cortei, proteste e chissà quante altre occasioni rimarranno mattatoi senza verità. Il G8 di Genova lo insegna. Cucchi e Giuseppe Vita lo insegnano. Mentre sugli spalti degli stadi i delinquenti continuano ad entrare armati di tutto e a mettere a ferro e fuoco le città. E di questi nessuno si ferisce mai, nessuno muore. Chissà perché.
Il caso di Sandri è ancor più sconvolgente perché assomiglia alla sadica roulette che colpisce un ragazzo in libertà che andava a vedere una partita di calcio. Lo ammazza in macchina, nemmeno in uno scontro, dove dorme, seduto sul sedile posteriore in mezzo ai suoi amici. Hanno provato a farlo passare per tifoso violento, a mettergli i sassi nelle tasche. Come se questo, peraltro, diminuisse la gravità dell’omicidio.
I sassi di Davide e la pistola di Golia. Tentativi, degni di un regime, che tolgono ogni dignità delle Istituzioni. E invece il papà di Gabriele ora torna ad essere “orgoglioso di essere italiano”. E se la magistratura che va tanto di moda sui giornali, porterà fino alla fine questo impegno di rigore e di giustizia lasciando l’imputato colpevole anche se è un poliziotto, potremo restituirle una credibilità che finora ha cercato di conquistarsi concentrandosi molto e solo, con condivisibile fermezza, sulle vicende del presidente Berlusconi.
Nascerà una fondazione intitolata a Gabriele Sandri. Per ricordare e per raccontare. La testimonianza di una famiglia immersa in un “dolore terribile” e tenace nella battaglia, come la descrivono il deputato Walter Verini e Luca Di Bartolomei, del Comitato Promotore della Fondazione. Una ricerca della verità che diventa ancora più difficile da portare avanti quando si vuole continuare a credere nello Stato e nella giustizia. Forse per Gabriele si riuscirà a fare. Ma l’attenzione della stampa, le parole, i riflettori, non dovranno spegnersi. La denuncia permanente dell’accaduto è l’unica parola di Gabbo che non c’è più.
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di Rosa Ana De Santis
Dallo scranno di Montecitorio una Binetti agitata e spazientita interpreta magistralmente l’impreparazione e la tensione tirannica di una politica nana, incapace di lanciarsi con vigore e rispetto nelle questioni bioetiche che attraversano la medicina e il diritto del nostro paese. Il suicidio di Monicelli poteva sembrare un gesto di disperazione e solitudine.soltanto agli occhi di un’integralista prigioniera del catechismo come lei e disinteressata al valore altissimo della spiritualità,
Monicelli nel suo ultimo volo le risponde. Con la sua produzione artistica, con le sue risposte ironiche e pirandelliane ai colleghi, con il temperamento di un uomo antidogmatico che smarcava regole e attese, retoriche e assiomi. Con l’inganno buono dell’artista che entra in scena, bacia sua moglie, fa la sua ultima visita e poi decide come finire la sua vita. Senza avvisi, né testamenti. In perfetta coerenza con una vita che di solitudine si è nutrita ogni giorno.
Non quella che pensa la Binetti, l’Udc, i sacerdoti e tanta sottocultura. Una solitudine raffinata e scelta, non subìta dalla scarsa carità degli altri. La vita solitaria che il genio di un artista ricerca come la sua musa e la sua difesa dalla normalità. Quella di una morte che arriva a passi lenti, sul letto dove magari giaci da mesi sotto farmaci e morfina, senza sentirti e senza sentire. Non poteva essere questa anestesia prolungata e questa perdita di autonomia la morte di un genio artistico libero e provocatore.
Bene che sia stato il Presidente della Repubblica a definire la morte di Monicelli come “un estremo scatto di volontà da rispettare”. Non un abbandono, non un disorientamento, non l’arrendevolezza di una vittima come i cattolici tentano di dimostrare, rendendo ridicolo ogni argomento soprattutto se il protagonista, come in questo caso, è un’autentica icona della libertà di pensiero.
Ma è questo il punto che non riesce ad entrare nel dibattito parlamentare italiano e che ad oggi, con il pietoso ddl sul fine vita, ci obbliga a rimanere inchiodati alle macchine, anche se ridotti a vegetali senza pensiero né sentimento, contro la nostra volontà. L’errore è mettere al centro della riflessione morale se una vita in certe condizioni sia degna di essere vissuta. Nessuno ha il diritto di rispondere a questa domanda per tutti. Perché nessuno possiede una scala di criteri assoluti per codificare il valore di uno stato esistenziale.
La domanda su cui l’arroganza della Binetti dovrebbe tacere è se quella vita sia degna di essere vissuta per quella persona e solo per quella. La cronaca ci ha dimostrato che non appartiene solo alla medicina la risposta ad alcune domande, come - ad esempio - la condizione di Eluana. Non appartiene a un’obbligata lettura paternalistica delle relazioni l’interpretazione della morte di Monicelli.
E’ il rifiuto della libertà di scelta il vero motore dell’esplosione oratoria della Binetti. Perché essa semplicemente smaschera la vera natura del dibattito politico sull’eutanasia, come sull’accanimento terapeutico, come sull’aborto. Che non ha nulla di liberale e democratico e che è tutto plasmato su un’idea della vita e del dolore che è cattolica. Ma del resto la Binetti siede alla Camera con questa missione. Ed è pietosamente evidente.
L’uscita del suo prossimo libro “Il consenso informato” veste di fittizia laicità argomenti che hanno una natura religiosa. Un’astuzia ingenua, ma insopportabile per chiunque crede che questo non è un paese confessionale e che dovrebbe ispirarsi ad altri modelli europei per capire cosa significhi non esserlo più. La relazione medico-paziente, in questo volumetto di persuasione per l’anima, viene interpretata secondo contenuti e procedure operative che tendono a condizionare emotivamente la persona ammalata, più che ad informarla dando al medico un ruolo di merito e di educazione morale che non gli appartiene.
Certo, non tutti sono Monicelli. Forse l’eutanasia aprirà il fianco ad abusi e violenze. Ma a questo deve riparare il diritto, non la Chiesa. E questo terribile rischio non rende meno terribile che lo Stato decida per noi, che un suicidio si trasformi in una condanna morale più o meno indistinta, nel pretesto per un divieto totalitario.
Chiunque ha visto la più semplice delle persone morire nella malattia sa che una morte dignitosa e con meno sofferenza è più dolce di una tortura prolungata. Se la Binetti questo non può digerirlo perché porta al collo l’Opus Dei e sotto le gonne il cilicio, siamo quasi certi che il dio misericordioso, quello delle scritture, lo capirà di più.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Ci sono voluti duemila anni, ma ne è sicuramente valsa la pena. È in arrivo in duemila esemplari da non farsi scappare, pena la gravidanza: si tratta del Papacondom, il preservativo papale. Per fare sesso, finalmente, con la benedizione della Chiesa Cattolica. Chi si trova a Londra può correre a comprare il nuovo gadget, prodotto dalla Condoomfabriek, prima che le scorte si esauriscano. Oppure cercarlo su eBay. Sulla bustina bianca di alluminio che avvolge il preservativo, invece delle solite noiose avvertenze, si può ammirare la figura di Papa Ratzinger che, mani alzate rivolte al cielo in segno di benedizione, ricorda “Avevo detto no!”
Attenzione però, il Papa ha sì aperto la porta all'uso del preservativo, ma solo in casi particolari. Ovvero soltanto nel caso in cui ad usarlo sia uno gigolo, ovvero un prostituto maschio (curioso il fatto che per il mestiere più antico del mondo, nella nostra lingua abbondino i sinonimi al femminile ma manchino del tutto al maschile). Che, francamente, non è proprio la prima categoria di persone che viene in mente, quando si pensa agli utilizzatori di preservativi.
Le recenti cronache giudiziarie ci forniscono una possibile interpretazione di questa dispensa papale del tutto particolare. Ricorderete certamente lo scandalo della Loggia P3, che ha visto indagato tra gli altri Angelo Balducci, Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, nonché Gentiluomo di Sua Santità. Quest'ultimo titolo è il più grande onore che la Santa Sede può concedere ad un laico. I Gentiluomini di Sua Santità, in sostanza, rappresentano l'equivalente simbolico della famiglia del Pontefice, essendo sconveniente per il Papa avere una propria famiglia, almeno negli ultimi secoli.
Ebbene, la notizia che fece in Marzo il giro del mondo fu l'accusa che il Gentiluomo Balducci fosse assiduo cliente di un giro di prostituzione omosessuale, gestito da un membro del Coro di San Pietro, molto vicino al Papa stesso. Si può forse azzardare la spiegazione che il Papa, prendendo spunto dal nostro governo, abbia insomma varato il primo Dogma ad personam.
Il Ministero degli Esteri del Regno Unito, all'indomani della visita pastorale di Benedetto XVI a Londra, si era spinto oltre. Oltre al lancio della marca di preservativi papali, unica proposta finora adottata, il memorandum trapelato alla stampa suggeriva al Vaticano di: benedire un matrimonio omosessuale (perché no, magari quello dello stesso Ratzinger); ordinare una donna prete; aprire la prima clinica abortista cattolica; aprire una hotline sugli abusi sessuali sui bambini; dare un calcio nelle palle ai vescovi che hanno coperto gli abusi.
Il Ministero degli Esteri britannico, che confermò la veridicità del memorandum, si scusò poi con la Santa Sede. Ma ora che il tabù del condom (nel caso di prostituzione maschile) è stato abbattuto, chissà che anche gli altri suggerimenti britannici venga presi in considerazione.
Resta una sola domanda, che si leva dalle tombe del milione e mezzo di persone che ogni anno muoiono di AIDS in Africa. Ma non poteva cambiare idea un po' prima?
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di Rosa Ana De Santis
Sorprende che sia proprio il pontefice dell’ortodossia teologica, il successore del pacifico Wojtyla del Giubileo, ad aprire la Chiesa ai problemi del mondo reale. Nel libro intervista “Luce del Mondo”, del giornalista tedesco Peter Seewald, il Papa apre all’uso del profilattico nel caso della prostituzione. Un’indulgenza che soltanto un anno fa, nella contestatissima visita in Africa, non era stata nemmeno accennata. Un giallo sulla traduzione mette un’ombra sulle interpretazioni.
Pare che nel testo tedesco, l’unico approvato da Benedetto XVI, si parli di uomini. Mentre la versione italiana parla di prostitute. Quale che sia la corretta declinazione di genere è incontestabile l’apertura alle “protezioni meccaniche” in caso di relazioni sessuali promiscue, veicolate dalla modalità della prostituzione. Non è chiaro chi sia il diretto interlocutore del discorso di Ratzinger, se donna o uomo, ma l’apertura sull’uso dei preservativi è indubbia.
Non cambia la condanna morale rispetto alla promiscuità sessuale, così come rimangono tutti i dubbi sull’effettiva efficacia che il profilattico può garantire - soprattutto nei paesi in via di sviluppo - come protezione dal virus dell’HIV. Castità e fedeltà continuano a rappresentare l’unica via durevole di tutela dalle malattie sessuali. Il passaggio di straordinaria apertura della Chiesa è proprio in queste poche righe. Rimane la lezione morale sul valore del sesso, sul suo legame con la nobiltà dei sentimenti, sul rifiuto della banalizzazione che un certo costume sessuale sta portando nelle relazioni.
La Chiesa impara a non perdere di vista la teoria generale mentre analizza e giudica il caso particolare, nel quale addirittura la scelta del preservativo può trasformarsi - se pur attraverso un mezzo non lecito - in una presa di coscienza e di consapevolezza della “gravità” dell’atto sessuale.
A questo Papa, che pure porta addosso la responsabilità di lunghissimi anni di silenzio, non possiamo rimproverare l’assenza di una presa di posizione conclusiva intransigente con i pedofili che definisce come uno “ shock difficile da sopportare” e una modernità di visione, nelle teorie morali e nel loro adeguamento storico, che trova proprio nel difficile argomento della libertà sessuale la sua prima prova pratica. Rimangono i divieti assoluti sull’eutanasia e sulle donne sacerdoti. Interessante il passaggio sul burqa che Benedetto XVI non ritiene giusto vietare in modo indiscriminato.
L’apertura del Papa all’uso del condom in alcuni casi singoli è importante non tanto per quello che effettivamente dice (quasi un’inevitabile presa di coscienza di fronte a un flagello di contagi e malattie) ma per quello che ci lascia vedere. Cioè una chiesa abbattuta dagli scandali della pedofilia, in piena emergenza di rigenerazione. Una chiesa attenta, difesa da un papa silenzioso, poco mediatico, chiuso nelle sue stanze e sulle sue carte. Benedetto XVI non ha il piglio del pastore, ma più quello del professore.
Ed è forse nelle mani di quest’uomo di scienza e di teologia che la confessione cattolica e la sua architettura apostolico-romana possono pensare di trasformarsi senza cambiare. Conservare il peccato e l’irriducibilità del piano religioso-morale da quello reale rimane una premessa insopprimibile di qualsiasi chiesa, anzi la condizione fondativa di ogni morale religiosa. Ma l’attenzione ai singoli casi e alle eccezioni rappresentano il recupero di un’anima umana, storica della Chiesa che non va sottovalutata. L’ago della bilancia, l’equilibrio sociale, la politica e le speranze dei più semplici, ma anche la sensibilità delle menti più sofisticate in Italia passa per il Vaticano.
E forse Joseph Ratzinger, teologo rigoroso e ortodosso, è l’uomo che saprà salvare la dottrina attraversando questo momento di storia e di crisi universale, dentro cui c’è la crisi della stessa Chiesa. Lo stesso motivo per cui invece le donne, insiste il Santo Padre, non saliranno mai sugli altari.