di Rosa Ana de Santis

Proprio in questi giorni, quando a Viareggio si tiene il Festival della salute, l’ottimismo che spesso riempie i giornali con notizie di cure miracolose e di ricerche vincenti sta sfumando come nebbia. L’inconsistenza degli annunci denuncia una traballante credibilità dell’informazione medica diffusa sui mezzi di stampa e svela la pratica dei tagli come manovra immediata di risparmio. I primi a pagare il prezzo saranno i più deboli della catena: le persone affette da patologie rare. I numeri piccoli funzionano non come campanello d’allarme, ma come condanna definitiva. Lo Stato azzera, infatti, tutti i finanziamenti, comportandosi come una perfetta macchina di selezione darwiniana. Pochi e malati non potranno che soccombere.

Nel 2007 erano stanziati dallo Stato 30 milioni di Euro, che nel 2009 sono diventati soltanto 5. Il prossimo anno diagnosi e cura di queste malattie rare saranno delegate alle singole regioni. E quello che all’apparenza potrebbe sembrare un maggiore sostegno per le persone colpite evitando loro penosi pellegrinaggi, si traduce in un annullamento reale di questa assistenza. E’ ingenuo credere, infatti, che ogni regione arriverà a dotarsi di un centro altamente specializzato per le circa 8 mila patologie rare stimate. E ipocrita dimenticarsi lo stato in cui versa la sanità italiana in moltissime regioni, specialmente del Sud (tranne qualche caso di eccellenza), da cui si emigra per curare malattie tutt’altro che rare.

La frammentazione della presa in carico dei casi e quindi la tomba di una regia nazionale, produce inoltre un effetto negativo su quella condivisione di conoscenze che rappresenta ad oggi l’elemento principale nello studio e nella ricerca su malattie così difficili da identificare e su cui penosissima è la statistica medica proprio per l’esiguità dei casi da analizzare. Moltissimi rimangono insoluti per anni e per pochissime di queste malattie esistono test genetici specifici.

I dati sono discordanti: 70 mila malati classificati dagli organi nazionali, 3 milioni secondo le associazioni impegnate nella tutela dei diritti di queste persone e delle loro famiglie che, come sostengono la Federazione italiana delle malattie rare, Uniamo onlus e Orphanet Italia, per sostenere le terapie necessarie e mentre aspettano il  balletto scontato delle diagnosi errate (almeno 3 in media) sostengono costi altissimi.

Le cure per questi pazienti forse non arriveranno mai perché l’odore del business non tira abbastanza gli interessi delle multinazionali, lo stesso motivo per cui i colossi farmaceutici non spingono la ricerca, e la strada dell’associazionismo diventa l’unica possibilità reale di fare conoscenza e di non essere dimenticati.

Ad arginare questo servirebbe l’azione dello Stato. A mettere soldi per chi deve fare ricerca, per chi dovrebbe specializzarsi su questo fronte medico e per chi deve trovare le cure. A strappare dalla trappola dei numeri degli affari la sorte di pochissime persone sfortunate che non faranno mai guadagnare nessuno e che, alla sorte della malattia, uniscono quella della solitudine. Perché i numeri minori non prevedono investimenti maggiori, dato che eventuali vaccini o terapie, sarebbero da produrre in scala limitata, quindi il business delle case farmaceutiche sarebbe minimo.

Troppo pochi per essere visibili e riconosciuti. Costretti ora all’anonimato sparso e disomogeneo delle regioni e senza un’identità di riferimento, diventeranno con buona probabilità malati cronici e basta. Persone dalla vita fragile, senza cure specifiche ed esposte a rischi altissimi. Se alla malattia togliamo la speranza di guarigione o di sollievo, essa non è più solo una condizione casuale e naturale dell’esistenza, ma una colpa umana. A Viareggio le malattie rare spariscono per sempre dall’agenda del governo.

Andiamolo a dire ai malati di queste patologie, 80% dei quali sono bambini. Andiamogli a dire che aspetteranno che ogni regione si attrezzi per loro e che la medicina, che potrebbe farli star meglio, si chiama “farmaco orfano” - ovvero a bassa richiesta. E diciamogli anche che per questo non sarà immesso sul mercato ma soprattutto che a tutto questo lo Stato italiano ha abdicato alle regioni ogni incombenza e non promuovendo alcuna sfida politica alla solitudine che tocca la condizione di essere malati di patologie rare e semisconosciute.

Se l’unica cura reale oggi per queste persone è l’associazionismo spontaneo di medici e famiglie e se lo Stato fa ufficialmente un passo indietro delegando alle regioni ogni incombenza, possiamo dire che il Ministro Fazio (che ha speso decine di milioni di Euro per il furbetto vaccino dell’inesistente virus H1N1) ha dimostrato ampiamente il senso della sua delega ministeriale. Un governo come questo, non può che avere un ministro come questo.

di Rosa Ana de Santis

Siamo abituati alle sue uscite shock, alle letture grossolane e volgari delle tante anime che animano la società contemporanea e soprattutto conosciamo bene le interpretazioni riduttive e bigotte della differenza. In ogni sua manifestazione. E’ accaduto l’ennesima volta durante un’intervista rilasciata a Klauscondicio. Secondo il Sottosegretario Giovanardi favorire l’adozione di bambini per le coppie gay significa alimentare il mercato sessuale dei minori. Una frase che pesa come un macigno e che in un solo boccone fagocita gli omossessuali nella criminalità e attribuisce a tutti loro il volto peggiore dell’orco: quello che stupra bambini.

Prendendo spunto da evanescenti numeri di ricerche sociologiche fatte sugli USA e sul Brasile, il Sottosegretario si dice sicurissimo di questa equazione. Una mossa quindi molto più grave di chi si oppone alle famiglie omosessuali per ragioni religiose, per prudenza rispetto ai canoni sociali diffusi, impostazione generale conservatrice. Qui siamo davanti alla criminalizzazione di un’identità sessuale, ad una discriminazione tanto più pericolosa perché viene da un uomo delle Istituzioni.

Il mondo dell’associazionismo gay è insorto e ne è nato un vero caso politico. Intanto le ricerche sulla crescita dei bambini affidati a coppie gay, eseguite dall’American Psychological Association o dall’American Academy of Pediatrics, dicono tutto il contrario dei numeri fantasiosi di Giovanardi e la sua posizione tradisce un’evidente intolleranza omofobica e una difesa aisterica della famiglia canonica. Che non basta sia naturale ed eterosessuale, sposata è meglio. Lo dice la sua politica indifferente alle numerose famiglie di fatto italiane.

Sul mercato sessuale dei bambini Giovanardi dovrebbe informarsi meglio e scoprire, con grande sorpresa, che l’Italia, dove i gay ancora si nascondono e dove forse mai vedranno riconosciuti a pieno i loro diritti individuali, è al primo posto per il turismo sessuale in Brasile. Circa 80 mila italiani - la maggior parte etero o omosessuali non dichiarati - ogni anno partono, lasciando moglie e figli nella casetta bianca del Mulino Bianco, per affittare bambine. Piccolissime e predilette vergini. L’Italia può dare lezioni di come far nascere agenzie per “servizi speciali”, voli charter e nuove mete, come accade da quando lo tsunami ha reso le cose più difficili nel prediletto Oriente.

Se Giovanardi è davvero persuaso che impedire l’adozione ai gay, come ha rivendicato,  significherà impedire il mercato del sesso ai danni di bambini, qualcuno dovrà spiegargli che già c’è e che l’Italia è ai primi posti dell’ orrenda classifica. Una cantonata che non solo tradisce una scarsissima preparazione, ma un evidente pregiudizio taroccato con sociologia da chiesa.

Ma non era lui che aveva gridato al complotto massonico quando la stampa si scagliava contro il Papa per gli scandali della pedofilia? Non era lui che difendeva i singoli sacerdoti e la gerarchia ecclesiastica dalla generalizzazione indiscriminata dell’ombra della pedofilia sulla chiesa? Stupisce che ora possa candidamente avallare l’equazione tra gay e pedofili. Forse perché i preti gli sono più simpatici o perché l’omertà della Chiesa sugli abusi è più perbene che la denuncia sbattuta in prima pagina. O forse, semplicemente, perché Giovanardi appartiene a quella folta schiera di personaggi che, in assenza di un’idea propria, preferiscono sposare quelle degli altri. Ma non tutti, per nostra fortuna, ambiscono a governare.

 

di Rosa Ana de Santis

I numeri emersi dal rapporto della Commissione dell’episcopato belga sugli abusi sessuali, compiuti da sacerdoti ai danni di bambini e adolescenti, suscitano orrore. Tredici suicidi, ragazzi che non ce l’hanno fatta a sopportare lo schifo, il dolore, l’orrore. E poi centoventiquattro testimonianze di vittime, ferite ancora aperte nella vita di questi innocenti stuprati nelle sacrestie o negli oratori. Del tutto assenti, dalle pagine del rapporto, le parole degli autori delle violenze. Abituati a declamare dal pulpito, risultano muti davanti agli inquirenti.

Del tutto assente la responsabilità dell’episcopato. Quella che sembra infatti un’opera di trasparenza e di cordoglio, a parte stabilire le scuse e la solidarietà alle vittime, non fa alcun mea culpa di sistema, non racconta quello che le autorità ecclesiastiche sapevano e hanno nascosto. Molti di questi preti, infatti, sono stati aiutati a nascondersi dalla giustizia, a ritirarsi in convento quando è andata bene. Molte le vittime manipolate e dissuase dall’iniziativa legale. Pochissimi quelli che hanno pagato davanti alla legge, mentre di quella di dio non si hanno notizie.

Il lavoro del prof. Adriaennsens, il neuropsichiatra che ha curato l’analisi delle scioccanti testimonianze, rimane monco della parte fondamentale legata alle sanzioni e alla giustizia, soprattutto perché la magistratura ha invalidato - questa la vera notizia dietro i numeri - le perquisizioni cui mesi fa era stato sottoposto l’episcopato belga. E proprio allora la Chiesa, che ora si definisce assetata di verità e giustizia, aveva usato, attraverso Papa Benedetto XVI, parole di durissima condanna per un’azione legale dovuta che certamente non aveva usato i toni e i modi con cui i vescovi erano soliti accomodare gli scandali sotto le tonache. La giustizia di Stato e quella della Chiesa, era evidente alla Santa Sede, non avrebbero riservato lo stesso trattamento ai ministri di dio. Un’invadenza insopportabile per i privilegiati del diritto canonico.

Sembra inoltre che la Chiesa, oltre a garantire de facto l’impunità dei carnefici, abbia tollerato la solitudine spietata delle vittime. Sono i suicidi a evidenziarlo. Una doppia colpevolezza che rende incredibile, ridicolo, qualsiasi appunto sulla modalità operativa con cui la magistratura è entrata nella cattedrale di Malines. Eppure allora i vescovi avevano pensato, addirittura, di intraprendere un’azione legale contro gli inquirenti che avevano osato profanare sacri sepolcri e tesori religiosi.

E lo zelo della perquisizione doveva apparire a tutti spropositato per un fenomeno, quello della pedofilia, che la Chiesa aveva sempre raccontato come marginale, anche se i casi e le testimonianze che ora affiorano - dopo anni e da più parti - portano a pensare il contrario. Dagli Usa all'Europa, il crimine pare molto più diffuso di quanto ammettano le gerarchie e di quanto siano disposti a verificare i governi compiacenti.

Soprattutto, poi, se poche sono le denunce delle vittime e zero la possibilità di entrare negli archivi del silenzio. Basta pensare a uno dei casi di cui si è parlato, non moltissimo a dire il vero, in Italia. Il giustiziere degli angeli, al secolo Elio Cantini, prete di parrocchia che ha usato violenza indisturbato dal 1973 al 1987, è stato ora ridotto allo stato laicale solo grazie alla faticosa a osteggiatissima battaglia intrapresa dalle sue vittime, non credute per anni.

“Sii te stessa” diceva l’orco alle sue vittime, convincendole a credere di voler desiderare lo stupro, mentre le metteva in braccio o le molestava o pretendeva rapporti orali. Di fronte a questi lupi famelici, invece di invocare i guanti bianchi e i permessi, le Chiese dovrebbero scegliere di essere spalancate alla giustizia. La verità non sta nella fede, ma nelle prove. Della prima sono esperti, delle seconde manipolatori. E quindi vanno da Ponzio Pilato a chiedere la scappatoia o la pena più leggera, quando non provano a farla franca del tutto. Come tutti i potenti ritengono di essere ingiudicabili. Che ne penserebbe il loro dio che da innocente si è fatto inchiodare ad una croce?.

di Mario Braconi

Quella per il BlackBerry, il primo cellulare al mondo a fornire accesso alla casella di posta elettronica, sta diventando per alcuni governi una vera ossessione: solo nelle ultime settimane, ben tre stati hanno attaccato a testa bassa RIM (Research In Motion), la società canadese che produce i terminali un tempo contraddistinti dal colore e dalla forma di una mora - blackberry, appunto.

Ad aprire le danze di guerra, gli Emirati Arabi Uniti, che a fine luglio, hanno reso noto al mondo che, causa risposte inadeguate di RIM ad una serie di questioni di sicurezza relative ai dispositivi, da ottobre, all’interno dei confini del Regno, l’accesso alla Rete verrà impedito a tutti i telefonini BlackBerry. Cosa che impedirà agli utenti di utilizzare i servizi di lettura e-mail, SMS e navigazione su Internet, trasformando così il potente terminale in un semplice cellulare (peraltro ingombrante, dato che dispone di tastiera QWERTY, cioè simile a quella di un computer, e di un display relativamente ampio).

Immediatamente dopo è arrivata l’Arabia Saudita che, citando identiche motivazioni, sollevate in questo caso dalla locale Commissione per le Comunicazioni e per l’Information Technology, il 3 agosto ha lanciato a RIM un vero e proprio ultimatum: in mancanza di un intervento da parte del costruttore-gestore canadese, i rappresentanti del Regno si sono detti pronti ad impedire d’imperio tutte le funzionalità peculiari dei BlackBerry entro venerdì 6 agosto. Ultima arrivata, l’India, che ha minacciato la RIM con un ultimatum simile, che scadrà il 30 agosto.

Ma perché tanto accanimento contro i BlackBerry? In fondo, fanno il mestiere di ogni smartphone che si rispetti: consentire la lettura dei messaggi di posta elettronica ed accesso alla Rete, di solito per ottenere notizie, previsioni metereologiche, indirizzi di locali eccetera. La risposta è tecnica ma presenta importanti implicazioni giuridiche e politiche: a differenza di altri produttori (Apple, HTC, Nokia eccetera), infatti, BlackBerry non vende solo un telefonino, ma un servizio accessibile mediante un suo terminale specificamente sviluppato.

La società canadese, infatti, dispone di server proprietari in vari Paesi (ad esempio i Paesi del Golfo di cui sopra si “agganciano” a quelli canadesi, in Italia usiamo quelli britannici) attraverso cui passano, per essere criptate, tutte le messaggistiche da e per i suoi dispositivi (SMS, e-mail o servizi alternativi). Risultato? I messaggi di posta elettronica scambiati tra un terminale BlackBerry ed un account di posta appoggiato su un server estero sono praticamente impossibili da intercettare per le polizie dei Paesi in cui il telefonino viene utilizzato.

Prima di tutto, l’insofferenza dimostrata da alcuni Stati nei confronti di un servizio, la cui intercettazione rappresenta un vero e proprio incubo tecnologico-giuridico, è quasi un lapsus, da cui si evince che, per le forze di sicurezza, tutto quello che un cittadino scrive su internet o trasmette nell’etere è per definizione proprietà della polizia. I servizi sauditi, poi, ce la devono avere a morte con la RIM, dopo l’immane figuraccia rimediata un anno fa, quando hanno fatto in modo che uno degli operatori sauditi installasse sui BlackBerry in funzione nel Regno un malware, nascosto dentro un presunto aggiornamento del sistema operativo del dispositivo (!)

In teoria, il malware avrebbe dovuto trasmettere una copia di ogni messaggio ad un server della compagnia telefonica “complice”; in pratica, l’operazione è miseramente fallita perché il software (il cui nome, incredibilmente, era “interceptor”) era scritto in modo talmente penoso che i telefonini infettati si scaricavano troppo velocemente, cosa che ha finito per attirare l’attenzione degli utenti spiati.

Ai patiti della sicurezza è comunque bene ricordare che, come ricorda Nick Jones, Senior Analyst alla società di consulenza strategica Gartner, la corsa all’intercettazione “facile” da parte dei Governi è piuttosto ingenua: non appena i “cattivi” scopriranno che il telefono “mora” non è più “sicuro”, si serviranno di altri strumenti con maggiori garanzie di privacy (ad esempio Skype, a suo tempo gratificata da una pubblicità non cercata e certamente non gradita di un testimonial di eccezione, la Mafia, i cui affiliati pare usino quel servizio di telefonia su IP proprio grazie alle sue caratteristiche tecniche, che lo rendono non intercettabile).

L’attivismo scomposto di alcuni Governi contro la RIM di sicuro non aiuta i conti del colosso di Waterloo - Ontario, fatturato di circa 15 miliardi di dollari, di cui poco meno del 40% prodotto in Paesi diversi dal Nordamerica. Non a caso, dal giorno della boutade degli Emirati Arabi, il titolo ha perso in Borsa il 5,8%. Soprattutto la grande pressione che i due Regni mediorientali e la più grande democrazia del mondo stanno esercitando sulla società alimenta comprensibili sospetti che la società canadese venga costretta prima o poi a modificare l’architettura del suo sistema al fine di renderla più permeabile alle richieste di intercettazione da parte degli Stati. Peccato che proprio il criptaggio dei messaggi costituisca il vantaggio competitivo che ha trasformato il BlackBerry in uno standard presso tutti i corporate di una certa dimensione.

Non stupisce pertanto il fatto che, in questi giorni di polemiche tra alcuni governi e la società canadese, alcuni dei clienti più in vista della RIM si siano rivolti direttamente ai suoi vertici per essere rassicurati. Bloomberg racconta infatti di una drammatica conference call tra i grandi capi di RIM e alcuni clienti “più uguali degli altri”, tra i quali figuravano, guarda caso, rappresentanti delle banche d’affari americane Goldman Sachs e JP Morgan, le “regine” di Wall Street, protagoniste tuttora impunite del disastroso crack finanziario che ha devastato il mondo tra il 2008 e il 2009.

Il fatto che l’Arabia Saudita abbia deciso di prorogare l’ultimatum, complice la decisione di RIM di attivare in fretta e furia tre server in territorio saudita, segnala la disponibilità della società a venire incontro alle richieste dei Governi, sia pure all’interno di determinati limiti; come recita un recente comunicato stampa della RIM “la nostra società fa di tutto per dare aiuto ai governi sui temi legali e di sicurezza nazionale, preservando nel contempo gli interessi legittimi di cittadini ed imprese”.

A dispetto di queste parole rassicuranti e delle reiterate conferme che l’azienda non intende metter mano all’architettura informatica che l’ha resa unica e celebre, le banche d’affari temono che eventuali eccezioni possano invece costituire falle nel sistema: una situazione potenzialmente molto pericolosa per il business, specie considerando gli elevati standard professionali e soprattutto etici di cui hanno dato prova i grandi capi delle banche d’affari che governano il mondo.

Non si possono certo invidiare i direttori di RIM, che stanno passando un brutto quarto d’ora, stretti tra stati ficcanaso e banchieri decisi a mantenere ad ogni costo il riserbo sui loro affari, talora poco chiari quando non palesemente illegali. Se da un lato si potrebbe sostenere provocatoriamente che i danni di un attentato e quelli prodotti da qualche rispettabile banchiere in grado di mettere in ginocchio interi paesi siano solo marginalmente differenti, c’è da scommettere che le banche d’affari avranno quello che desiderano; e peccato se questo vorrà dire che sarà impossibile sventare qualche attentato.

di Rosa Ana De Santis

Era annunciato con bollino nero l’inizio delle vacanze estive. Giornali e tv paventavano file lunghissime sulle autostrade principali e città quasi deserte. Una sorpresa per chi da mesi respirava ovunque l’aria di una crisi economica durissima che già radicalmente aveva cambiato la vita di moltissime famiglie italiane. Ma alla fine l’esodo c’è stato sul serio? Secondo le analisi fornite dal Censis sembra proprio di no. Il solito rumore mediatico strumentale che nasconde piuttosto cambiamenti significativi nella vacanza made in Italy. 

“Bollino nero”, titolavano i giornali in prima pagina. Così ripeteva da settimane la televisione. Il 1 agosto sarebbe iniziato il grande esodo, poi ripetutosi nel successivo fine settimana. La crisi economica che tanto timore ha diffuso tra la gente sembra quasi essere svanita nel nulla. L’ottimismo invocato dal Presidente del Consiglio pare non essere infondato. Ma il Censis racconta di altri numeri e sotto l’ombrellone la faccia degli italiani in vacanza non è la stessa di anni fa.

Dimenticatevi le città deserte di agosto, le serrande abbassate, le case vuote. Molte le famiglie che non andranno da nessuna parte: sei italiani su dieci rimarranno a casa. Viaggiano soprattutto i giovani e le famiglie del Nord. Molto bassi i numeri del Sud sempre più povero. Ben il 58% non ha alcun programma di vacanza. Ritorna in auge il turismo interno verso le nostre coste, pochissimi quelli che potranno andare all’estero.

Il ceto medio, quello maggiormente colpito dalla crisi, si orienta verso una diversa tipologia di vacanza. Soggiorni brevi, mete vicine, stop ai soggiorni lunghi di una volta. Le lunghe code verso la Slovenia o sulla Milano-Napoli non devono quindi trarre in inganno: le difficoltà economiche ci sono e gli italiani si sono impoveriti. I tagli decisi dalle famiglie non hanno riguardato solo le vacanze estive, ma anche pranzi e cene fuori. L’austerità è diventata la parola magica per difendersi dai rischi economici. E’ in questo modo che lo sguardo rivolto al futuro si tinge di sfiducia e di depressione soprattutto per le nuove generazioni, impreparate alla antica cultura nostrana del risparmio.

Non sono soltanto i lussi ad essere tagliati dal budget di casa, ma spese anche essenziali. Acquisti di elettrodomestici, lavori di ristrutturazione e soprattutto consumi alimentari hanno risentito del terremoto economico. I primi mesi dell’anno in corso hanno registrato infatti un aumento dei consumi davvero esiguo e la stagnazione diffusa non promette bene per il futuro.

L’estate arriva quindi con meno soldi nelle tasche degli italiani e un grande punto interrogativo sul futuro. Se già il 34.4% riteneva che la classe politica fosse poco concentrata sulle esigenze strutturali della nazione, vista la crisi interna alla destra, ora non andrà meglio. Disoccupazione e corruzione continuano ad essere i peccati originali della nostra economia e gli scandali estivi confermano la perfetta continuità con la prima repubblica. Ad essere sconfitto non è tanto o soltanto Berlusconi, ma il mito della rottura simbolica con il passato di cui propagandava di essere l’incarnazione. Ma non è così evidente al suo fedele elettorato.

Mentre i pochi vacanzieri preparano i bagagli, tutti gli altri - la maggior parte - rimangono a casa a contare gli Euro della crisi e il bollino nero sembra sempre di più il titolo di coda della ricetta dell’ottimismo. Ma se nemmeno Berlusconi andrà in vacanza, a quanto pare, e da casa lavorerà strenuamente sull’agenda politica che lo attende, a chi starà davanti alla tv potrà sembrare tutto più sopportabile. Ce lo assicurano Minzolini e Fede. Del resto questo é il tempo del fare, e non più del pensare. Il partito dell’amore sovrasta le paure. A reti unificate.


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