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di Alessandro Iacuelli
Alla fine, dopo averne negato l'esistenza per diversi giorni, Google e Verizon hanno reso pubblica la loro proposta comune, destinata per ora ai legislatori statunitensi, circa l'ennesima riforma della rete telematica mondiale. I due colossi già in passato avevano parlato insieme di net neutrality, alimentando un forte dibattito. L'impegno (dichiarato) è a favore di una Internet aperta e di continui investimenti per le infrastrutture di banda larga. Tuttavia, una parte del documento, reso finalmente pubblico, non convince affatto: le proposte relative alla banda larga mobile, così come presentate da Google, a parere di alcuni rischiano di uccidere proprio la net neutrality.
Il documento rappresenta la visione comune delle due aziende per una futura riforma della normativa sulla Rete, una visione della net neutrality apparentemente ideale per quanto riguarda la rete fissa, ma molto meno per quella mobile: infatti entrambi si trovano d'accordo nel riconoscere la diversa natura delle due infrastrutture, riconoscendo a quella wireless la necessità di dover rimanere più libera da controlli in quanto appena nata e ancora in fase di mutamento. Potrebbe restare implicito che tutti i controlli a garanzia della neutralità sulla rete fissa non debbano valere per quella mobile su cui, per esempio, Google potrebbe garantirsi il diritto ad una maggiore velocità di transizione di dati semplicemente stipulando un accordo ad hoc con Verizon.
Dal punto di vista del controllo dei contenuti che vi scorrono, invece, la proposta dei due colossi parte dall'ottica che la net neutrality e gli altri principi che vigilano sulla Rete - e garantiscono la possibilità per gli utenti di accedere liberamente a tutti i contenuti legalmente disponibili - debbano poter essere maggiormente tutelati.
Nel testo presentato, Google e Verizon affermano inoltre un nuovo principio, volto a bandire le pratiche discriminatorie, che servirebbe, si legge, a garantire l'effettiva tutela del libero accesso, cioè ai contenuti legali online. Dovrebbe quindi tutelare sia contro i blocchi dell'accesso a determinati contenuti legali, sia alle "priorità a pagamento" rispetto al traffico Internet: i provider di banda larga fissa, insomma, non potrebbero bloccare, degradare e concedere favoritismi, circa particolari traffici di dati, rallentandone alcuni (come per esempio il P2P) rispetto ad altri.
La parte della proposta che maggiormente ha fatto dibattere gli osservatori, tuttavia, è quella in cui Google parla delle condizioni da riservare alla banda larga mobile, da trattare diversamente da quella fissa per quelle che chiamano "intrinseche caratteristiche di mercato": l'unico principio che vi si dovrebbe applicare sarebbe quello della trasparenza, con il Governo a vigilare sulla naturale evoluzione di questo nascente settore. Insomma, le due aziende, secondo molti osservatori, avrebbero ritagliato uno spazio ad hoc per la banda larga mobile, tale da escludere potenzialmente futuri operatori interessati ad entrare nel mercato, distorcendo di fatto il mercato statunitense della rete wireless.
Tuttavia, a ben guardare, un po' tutto il testo presentato da Google e Verizon è disseminato di lacune adatte a far muovere liberamente le due grandi aziende negli spazi bianchi della futura normativa, e solo loro due. Lacune che saltano all'occhio dei soli addetti ai lavori e non del grande pubblico degli utenti della rete. Soprattutto in Italia, sono decisamente pochi quelli che hanno colto uno degli aspetti più importanti di Internet: la sua relazione con l'innovazione. Tutti sono testimoni dello straordinario flusso di innovazioni prodotto grazie alla Rete in questi anni, ma in pochi hanno finora colto le ragioni di fondo che hanno reso possibile tutto questo.
Come racconta il professor Juan Carlos De Martin, docente presso il politecnico di Torino, queste ragioni non sono legate "a un’improvvisa maggior ingegnosità di informatici e imprenditori, ma piuttosto al fatto che per la prima volta gli innovatori avevano a disposizione una rete di telecomunicazione strutturalmente - potremmo dire: costituzionalmente - diversa dalle reti precedenti". Una rete che ha come caratteristiche la semplicità e l'apertura.
Semplicità perché Internet è una rete stupida, che si limita a smistare i bit il più velocemente possibile; quindi, per introdurre un nuovo servizio non è necessario aggiornare tutta l’infrastruttura di rete, come invece occorre fare nella telefonia, ma basta rendere disponibile il software del servizio stesso. Apertura perché non occorre chiedere il permesso a nessuno per pubblicare, e magari fare innovazione, su Internet: basta avere una buona idea, un computer e una connessione.
Apertura vuol dire però anche un'altra cosa: per il principio della neutralità tutti i bit vengono trattati allo stesso modo, che siano una mail o un film. "Questa rete", continua il professor De Martin, "strutturalmente aperta, senza guardie ai cancelli, ha reso possibile una stagione d’innovazione senza precedenti, permettendo sia ad aziende affermate di evolvere, sia a brillanti innovatori di creare dal nulla applicazioni di grande successo, quando non addirittura nuovi mercati."
Il documento presentato da Google, il colosso della rete, e da Verizon, lo storico monopolista telefonico nordamericano erede della Bell, chiede ai legislatori di includere in qualsiasi normativa relativa a Internet nove punti a loro avviso ritenuti essenziali. Mentre la maggior parte di tali punti è in linea con l’ideale di una rete Internet aperta e non discriminatoria, i due punti di cui si è parlato sopra stanno invece sollevando pesanti sospetti.
Il primo punto riguarda l’esenzione dai vincoli di non discriminazione per l’accesso a Internet senza fili, richiesta giustificata con poco evidenti caratteristiche di unicità dell’accesso senza fili. Se si considera che é proprio tramite l’accesso senza fili che si sta concentrando il maggior tasso di sviluppo di Internet, ci si rende conto che ciò che Google e Verizon stanno chiedendo di esentare dal rispetto del principio di non discriminazione è buona parte del futuro stesso di Internet e dei loro bilanci aziendali.
Il secondo punto riguarda la possibilità di offrire servizi online aggiuntivi. In pratica, a quel che è possibile capire, la creazione di un Internet-premium che si affiancherebbe, con modalità tutte da definire, a Internet tradizionale per offrire - ovviamente a pagamento - servizi per i quali non varrebbe il principio di non discriminazione, con la morte della neutralità della rete. Servizi che hanno la faccia di canali preferenziali a pagamento per chi ha le capacità di accaparrarseli.
Oggi la barriera all’ingresso della rete, e dell'innovazione, è bassissima. Se si ha l'idea buona, un computer e una connessione, si può fare facilmente innovazione in Rete. Domani non si sa, si potrebbe essere costretti ad affrontare una giungla contrattuale causata dal dover negoziare, con ogni fornitore d’accesso Internet, come e a che prezzo raggiungere i suoi utenti sulla rete a pagamento. Avendo come unica alternativa quella di rimanere sulla vecchia Internet; quindi, di offrire la propria innovazione con minori prestazioni rispetto ai concorrenti, che magari saranno multinazionali nate quanto Internet era davvero neutrale.
Attenderemo, nelle prossime settimane, eventuali chiarimenti da parte di Google e Verizon. Quel che è certo è che, per ora, nel loro documento ci sono due parte eccezionalmente controverse. Ed è solo l'inizio, perché in generale è chiaro che per la Rete si sta per chiudere una prima fase della sua storia, caratterizzata dalle decisioni prese quarant’anni fa dai suoi inventori. Nei prossimi mesi starà a noi decidere se continuare a preservare, anche con forza, l’apertura, e la neutralità, di Internet anche per le prossime generazioni, o se lasciare un trattamento privilegiato alle multinazionali come Verizon.
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di Mario Braconi
Ha il suggestivo nome commerciale CRUSH (in inglese, l’atto di schiacciare, ma anche, ironicamente, “prendere una cotta”) il software messo a punto da IBM per coadiuvare le forze dell’ordine americane e britanniche nella repressione del crimine. CRUSH non è solo un brand, è anche un acronimo, “Criminal Reduction Using Statistical History”, ovvero “riduzione del crimine tramite impiego di dati statistici storici”.
L’idea alla base di CRUSH e di prodotti simili - che, c’è da scommetterci, cominceranno ad essere sempre più popolari presso cliniche private, banche e in generale presso tutti gli agenti sociali coinvolti nella gestione dei rischi - è l’analisi predittiva, una tecnica che mette insieme statistica, teoria dei giochi e “data mining” (estrazione di pattern regolari da enormi moli di dati grezzi) allo scopo (invero piuttosto ambizioso) di prevedere il futuro.
Per quanto sofisticate possano essere le elaborazioni prodotte dal programma messo a punto da IBM, il principio di partenza è davvero elementare: ciò che abbiamo fatto in passato è la migliore chiave intepretativa per comprendere che cosa faremo in futuro.
Ad esempio, CRUSH è in grado di mettere assieme milioni record di denunce, incrociando informazioni relative ad orari, luoghi fisici, giorni della settimana, condizioni meteorologiche in cui sono stati commessi i reati ed analizzando nel contempo tutte le informazioni disponibili su colpevoli e vittime: si potrebbe scoprire così, ad esempio, che i giovedì soleggiati sono giorni ideali per le rapine in banca, mentre la vicinanza ad un cimitero renderebbe le persone più proclivi a truffare il prossimo...
Dal punto di vista della corretta allocazione delle risorse, l’utilità di un simile strumento è indiscutibile: una volta compreso che al verificarsi di determinate condizioni, un delitto é più probabile, non resta che concentrare lo sforzo delle forze dell’ordine per reagire / prevenire in modo mirato. A dar retta al colosso dell’informatica, l’impiego sperimentale di CRUSH nella città americana di Memphis avrebbe contribuito alla prevenzione dei crimini (-31% per i delitti in generale, -15% per quelli violenti).
Il problema è che, inevitabilmente, CRUSH tende a diventare un tantino impiccione, con quella sua mania di trattare la materia vivente e pensante - umana - alla stregua di un qualsiasi altro fenomeno naturale. Non è la macchina da biasimare se, fedele al diktat di chi la ha programmata, si spinge a tentare di comprendere quali caratteristiche personali aumentino la probabilità statistica che in un dato individuo si manifesti, prima o poi, un comportamento criminale.
Senza contare la più banale delle obiezioni: leggere il futuro di un uomo nel suo passato può rivelarsi un gravissimo errore: se si applicasse questo principio in modo acritico, non solo verrebbe meno la capacità dell’uomo di emanciparsi dal suo destino e anche di emendare i suoi errori pregressi, ma ad uno Steve Jobs, abbandonato dai genitori biologici, sarebbe toccato un destino ben meno brillante che quello di diventare un’icona globale della creatività e del successo.
Eppure il Ministero della Giustizia degli Stati Uniti ha già iniziato ad utilizzare l’analisi predittiva per tentare di inferire quale dei soggetti liberati dopo una pena carceraria avrebbe maggiori probabilità di commettere nuovi delitti, basandosi sul luogo in cui vivono, sulle loro compagnie, sull’abuso di alcol e droghe, sul reddito, su loro equilibrio psicofisico ed emotivo eccetera. L’idea sarebbe quella di indirizzare questi soggetti ad alto rischio di recidiva verso programmi di recupero ritagliati appositamente per aiutarli a “rigare dritto” una volta fuori dalla galera.
La notizia ha fatto rabbrividire giuristi e attivisti per i diritti civili, preoccupati per l’obiettivo affievolimento che la logica implicita in simili tecniche comporta al principio della presunzione di innocenza e, forse, anche per il rischio di un profiling basato sulla razza o sul censo (i neri, tutti criminali, gli islamici tutti terroristi - narrazioni purtroppo non inedite ma che rischiano ora di essere rafforzate da puntelli pseudo-scientifici).
I giornalisti di tutto il mondo, invece, hanno sottolineato come lo scenario prefigurato richiami quello distopico, narrato dal visionario Philip K. Dick nel suo racconto Rapporto di Minoranza (1956!) e portato sugli schermi da Steven Spielberg nel 2002, nel quale una triade di veggenti fornisce alla polizia le coordinate di coloro che stanno per compiere un delitto, in modo da consentire un loro arresto preventivo.
Il paragone con le due opere (il racconto e la pellicola) è certamente suggestivo, anche grazie alle semplificazioni e alla generica sciatteria dei giornalisti, ma calza solo in parte. Nel caso proposto dalla fiction, infatti, il destino giudiziario dei cittadini era nelle mani di un gruppo di visionari, mentre, almeno nelle intenzioni della IBM, la prevenzione del crimine è presidiata dalla forma più pura di logica, il calcolo di un elaboratore elettronico: in teoria, anziché l’arbitrio di un invasato, a porre un giusto limite alla violenza ingiusta dell’uomo sull’uomo ci sarebbe la pura scienza.
Da questo punto di vista non sembra del tutto ingiustificato il commento di Mark Cleverley, capo delle strategie per il Governo alla Big Blue - sia pure largamente pro domo sua: “La tecnologia non fa niente di diverso da quello che hanno sempre fatto i poliziotti, basandosi sugli indizi e sul proprio istinto”. Il fatto che a valutare situazioni di rischio siano, in ultima analisi, circuiti stampati sul silicio anziché un uomo o una donna con emozioni buone ma volendo anche no, forse non è poi un fatto del tutto negativo.
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di Mariavittoria Orsolato
Nonostante il nostro Premier faccia di tutto per farci credere che l’Italia è impermeabile alla crisi e che, anzi, lo stivale veleggia più sereno rispetto ad altri Stati, nel nostro Paese accade ancora di imbattersi in storie che per la mortificazione che le contraddistingue non hanno nulla da invidiare ai racconti di Dickens o di Zola. Succede a Trento: una giovane madre si vede togliere il figlio neonato in quanto, secondo il Tribunale dei minori, un reddito di 500 Euro mensili è troppo poco per mantenere un bambino in fasce.
La ragazza, presumibilmente una delle moltissime precarie, era in difficoltà economiche già al momento della gravidanza, ma ciò nonostante aveva ugualmente deciso non abortire, appellandosi alla possibilità dell’affido condiviso; una procedura che consente a genitori in difficoltà di farsi aiutare da un’altra famiglia nell’allevare il bambino. Poco dopo il parto, però, Il Tribunale ha dato avvio alla procedura di adottabilità e il neonato è stato sottratto alla madre, senza che quest’ultima fosse stata interpellata o minimamente informata.
A denunciare questo innegabile abuso è stato lo psicologo e psicoterapeuta Giuseppe Raspadori, un consulente tecnico del tribunale tridentino, che nel corso di una conferenza stampa ha espresso le sue critiche contro il modo, spesso troppo arbitrario, con cui i giudici sentenziano la sospensione della potestà genitoriale. Il caso della giovane mamma non è, infatti, il primo in questo senso. Poco meno di quattro mesi fa, sempre a Trento, un alunno di seconda elementare veniva prelevato da due assistenti sociali durante la ricreazione.
In questo caso la madre era accusata di aver “instaurato con il figlio un rapporto di fusione”: stando alla sentenza dello stesso tribunale, la donna, con i suoi atteggiamenti troppo amorevoli e il suo attaccamento - giudicato eccessivo - non sarebbe stata in grado di garantire il benessere psicofisico del bambino.
Due casi che, in pochi mesi, hanno puntato gli occhi su Trento e sulla sua gestione della giustizia minorile. Stando al dottor Raspadori infatti, la prassi con cui il Tribunale dei Minori separa i bambini dalle madri, in seno all’incapacità genitoriale vera o presunta, è “un abuso scientifico”. Lo psicologo, nel suo intervento, ricorda come l’affidamento a terzi di un infante è una pratica che giuridicamente dovrebbe essere utilizzata solo di fronte a casi gravissimi e a motivazioni eccezionalmente preoccupanti: fino a qualche anno fa un minore era coattato lontano dal nucleo familiare solo dopo aver accertato eventuali abusi domestici e/o violenze sessuali.
Le due storie che arrivano da Trento non hanno invece a che fare con lo scenario tipico delle malversazioni: le madri, entrambe incensurate e prive di alcuna tossicodipendenza (farmaci compresi) sono state penalizzate in quanto madri single: la prima perché presumibilmente incapace di mantenerlo, la seconda perché probabilmente non avvezza a far crescere il figlio maschio con la “giusta dose” di testosterone.
E’ forse questo che la giustizia intende per tutela dei minori? Le modalità con cui i figli sono stati strappati alle madri denotano un marcato pressappochismo psicologico e non tengono in debito conto del connaturato legame che, già dalla gestazione, unisce in modo inscindibile una donna alla sua prole. Agendo in modo così sbrigativo, i giudici del Tribunale minorile di Trento rischiano, infatti, di fare più danni di quelli che, immaginiamo in buona fede, vogliono prevenire.
In particolare, nel caso della giovane neomamma, la tempestività con cui i magistrati hanno agito va a compromettere la fase di allattamento e svezzamento: la ragazza ha potuto incontrare il giudice che aveva disposto la sentenza solo dopo un mese che quest’ultima era stata eseguita e, l’unico risultato ottenuto, è stato quello di far avviare una perizia una sulle sue capacità materne. Una perizia che - se a buon fine - le restituirà un figlio di 8 mesi, privato di quella prima e fondamentale fase di attaccamento.
Senza contare il danno psicologico mastodontico che viene inflitto alla donna, messa in discussione su quello che dovrebbe essere un istinto atavico e che lei stessa ha fieramente dimostrato, scegliendo di far nascere un figlio nonostante versasse in condizioni economiche più che precarie.
La domanda sorge spontanea: perché, invece che procedere all’allontanamento, i giudici non hanno disposto, che so, l’accoglienza in una struttura protetta? A questa giovane mamma sarebbe bastato un lavoro decente, uno stipendio non miserabile, magari un semplice alloggio a canone concordato per non dover pagare gli affitti esosi della città. Si è invece preferito staccare il bimbo dal seno, probabilmente (e stupidamente) pensando che, essendo neonato, questi non avrebbe sofferto la separazione. Ma forse le ragioni sono più banalmente di tipo utilitaristico: è indubbio che allo Stato costi molto meno un’adozione, rispetto agli oneri che derivano da due bocche affamate. Alla faccia di quelli che chiedevano la moratoria sull’aborto.
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di Rosa Ana de Santis
I numeri del dossier Caritas - Migrantes dicono che in Italia vivono un milione di africani, 7 su 10 nordafricani. In testa Tunisia ed Egitto. La Lombardia è la regione in cui la presenza africana è più significativa. Segue, in una diversa scala regionale, tutto il Nord e il Nord-Est. Nel 2050, mantenendo questo ritmo, diventeranno quasi 3 milioni. Non aumentano solo gli immigrati con permessi di soggiorno o quelli in attesa, ma nascono nuove famiglie. Matrimoni misti e immigrati di seconda generazione nati in Italia sono molti e i minori sono oltre 200.000.
I figli di questo esodo dal Continente Nero pongono all’attenzione della politica una questione normativa serissima. L’Italia è casa loro e il tema della cittadinanza - che riguarda la loro collocazione e, prima ancora, il loro riconoscimento politico - non potrà essere disatteso a lungo. Lasciarli come fantasmi, tenendo conto dei numeri relativi alla loro presenza crescente nei prossimi anni, crea infatti una voragine e un’insidia nel diritto che non è degna di una democrazia moderna.
Se i numeri restituiscono il ritratto di un Italia che ha cambiato pelle, non possiamo dire che siano scomparsi atteggiamenti razzisti e discriminatori. Piuttosto, nell’intolleranza diffusa per gli immigrati, l’ostilità per “negri” e “marocchini” persiste a dimostrare che nella xenofobia è sopravvissuto l’orrore del razzismo classico. Quello del colore della pelle. A questo si aggiunge il pregiudizio degli italiani, secondo il quale l’immigrazione coincide con la criminalità. Una relazione che ha smentito proprio il Viminale con i suoi dati, ma che non è penetrata nell’opinione pubblica. E’ poi vero, nel quadro dell’immigrazione africana, che i nordafricani sono maggiormente coinvolti nel traffico della droga e nella tratta delle donne.
Dall’Africa si fugge per scampare a conflitti sanguinari e tribali. Moltissimi i rifugiati. E poi si scappa dalla povertà e dalle zone senza acqua, divorate dal deserto. Esiste per questo una migrazione tutta interna al continente, cosiddetta “economica”, e una fuga verso i centri urbani, con tutte le conseguenze sociali e sanitarie che si possono immaginare. L’odissea nel mare è il viaggio che questi disperati in fuga scelgono per raggiungere l’Europa, spesso andando incontro alla morte.
Se solo i soldi utilizzati per respingere i clandestini fossero destinati al recupero delle zone rurali abbandonate, si riuscirebbe a contenere questo esodo e a governare meglio un fenomeno che, nella condanna alla povertà in cui è lasciata l’Africa, non potrà essere fermato con le misure della sola repressione.
Gli africani che da noi lavorano come dipendenti sono mezzo milione. Molti poi gli stagionali e quelli con occupazione a termine. Tanti quelli che prestano manodopera nel settore domestico o nell’edilizia o nelle piantagioni senza regolarizzazione, come il caso di Rosarno ha duramente testimoniato.
L’integrazione con una cultura così lontana dalle latitudini della società occidentale è tutt’altro che poetica e romantica, ma la situazione geo-politica dell’Africa è, allo stato attuale, una condanna senza ritorno. Per questo non si fermerà l’onda della fuga. Alla politica internazionale e a quella del nostro governo spetta un compito un po’ più elevato dei respingimenti indiscriminati e dello sfruttamento appaltato alle cosche locali.
Questa è stata la reazione finora messa in campo, assolutamente sottodimensionata per un fenomeno che non è solo fatti di numeri e braccia, ma di nuove categorie sociali e culturali per le quali il cuore della solidarietà potrà anche essere un lusso, ma la testa della politica è una necessità. Passa da qui l’unica occasione di non cadere nei fantasmi dell’apartheid e nel suicidio del purismo etnico. L’imbroglio su cui, in ogni angolo di storia, nasce una tirannide.
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di Rosa Ana de Santis
Per le morti sospette di Cesano c’è un colpevole. La perizia ha stabilito che esiste una relazione significativa tra le leucemie e i linfomi che hanno colpito i bambini di Cesano e le onde elettromagnetiche di Radio Vaticana. Anni durissimi di battaglia nei quali il Vaticano ha invocato il principio dell’extraterritorialità per sfuggire alla giustizia. Mai un cenno di pietà per quelle morti bianche. Lo stesso indecente riserbo, che non stupisce più, con cui hanno coperto misfatti, abusi e pedofilia sui giovanissimi.
La protesta degli abitanti di Cesano inizia fin dal 1999. Non si parla solo d’interferenze sui segnali radio-televisivi: il rosario s’infilava nei citofoni o nei rasoi elettrici, come in ogni presa elettrica delle case. Molestie per chi non voleva sentire la messa via radio, che ora diventano ufficialmente danni e rischio di malattia.
La battaglia legale da principio fu bloccata per questioni giurisdizionali legate ai Patti Lateranensi, ma nel 2003 fu la Corte di Cassazione a riavviare il tutto portando alle prime sentenze simboliche. Poi, sulle morti di una decina di bambini, s’ipotizzò il reato di omicidio colposo e si giunse alla perizia del Prof. Micheli, commissionata dal Gip Zaira Secchi. Roberto Tucci, Pasquale Borgomeo e Costantino Pacifici, i primi responsabili dell'emittente della Santa Sede indagati. I primi due graziati dalla prescrizione, mentre Pacifici assolto in primo grado.
Silenzio sui quotidiani cattolici, mentre il Direttore dell’emittente, Federico Lombardi, annuncia che Radio Vaticana preparerà la sua difesa con i propri consulenti e si dice stupito, dal momento che sono sempre state rispettate le indicazioni internazionali e la normativa italiana.
Le morti dei bambini della zona di Cesano superano di 3 volte i dati della Capitale e il rischio è stato aumentato anche dalla presenza delle antenne di MariTele. I piccoli che hanno vissuto per almeno 10 anni nel raggio di 6-12 km, hanno un rischio molto più grande di ammalarsi e l’incidenza numericamente significativa di una certa tipologia di tumori infantili e di morti nella zona è spiegabile proprio dalla presenza di questi impianti. Trecento pagine per dimostrarlo. E del resto: è normale sentire la radio quando inserisce la spina del rasoio nella presa elettrica, o quando si risponde al citofono della porta di casa?
Il Vaticano nel corso di questi anni ha sempre confermato di aver rispettato scrupolosamente le normative legate al decreto ministeriale 381 e alle indicazioni dell’ ICNIRP (International Commission on Not-Ionizing Radiation Protection), grazie anche ai lavori e agli studi di una Commissione bilaterale con gli organi dello Stato italiano deputati a questo monitoraggio. Quindi, verrebbe da dire, che è normale sentire la radio dentro le mura di casa e che l’incidenza delle morti infantili o degli ammalati di tumore è una pura casualità o un’invenzione.
Perché mai nel 2001 furono ridotte allora le emissioni delle antenne? Radio Vaticana ha proseguito indisturbata a trasmettere onde di veleno, blindandosi dietro all'art. 11 del Trattato del 1929, in base al quale "gli enti centrali della Chiesa Cattolica sono esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano" che, va ricordato, nel 1951 ha ufficialmente approvato e riconosciuto il Centro Trasmittente di Santa Maria di Galeria, dimostrando poca prudenza per i malcapitati cittadini delle zone incriminate.
Non è un bel momento per la Chiesa di Roma. Le vittime, collezionate da più parti nel corso degli anni, finalmente non lasciano più scampo alla vergogna dei mezzucci, dei silenzi e dell’extra legem invocata dei prelati. In attesa di quella divina, pare arrivato il momento della giustizia terrena.